La Cassazione fa chiarezza sulla contabilità separata negli enti ecclesiastici non commerciali
Cass. civ., Sez. V, Sent. 14 gennaio 2021, n. 526
Presidente: Dott. E. Cirillo
Relatore: Dott. L. D’Orazio
- I fatti da cui è scaturita la controversia
Il procedimento giudiziario, che si è concluso con la sentenza in commento, prese avvio a seguito della ricezione, da parte dell’Istituto delle Ancelle Riparatrici del SS. Cuore di Gesù, di un avviso di accertamento fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate, con il quale era stato rettificato, in aumento, il reddito imponibile, ai fini IRES ed IRAP, per l’anno 2004.
In prima battuta, la Commissione Tributaria Provinciale di Messina, quale giudice di primo grado della controversia, effettuò delle considerazioni tanto perentorie quanto errate sulla qualificazione dell’ente coinvolto, gran parte delle quali trovarono, poi, conferma in secondo grado, dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, Sezione distaccata di Messina.
Nello specifico, i Giudici di merito ritennero l’Istituto in questione non sussumibile nella categoria di Ente ecclesiastico non commerciale, giungendo, in un secondo momento, in sintonia con l’iter logico seguito, al punto tale da escludere, addirittura, la stessa natura di Ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, di cui l’Istituto era già in possesso. Difatti, la Commissione Tributaria Regionale, quale Giudice di appello, riportò in motivazione che, «per quanto riguarda il mancato riconoscimento della qualifica di Ente non commerciale dell’Istituto Religioso, questo Collegio condivide sia sotto il profilo giuridico che normativo quanto deciso dai Giudici di primo grado, che non lo hanno ritenuto Ente ecclesiastico non economico, stante quanto è dato rilevare dallo stesso Statuto dell’Istituto»[1]. Si pervenne, dunque, a tale conclusione sulla scorta di quanto si era reputato emergere dallo statuto dell’ente, con particolare riferimento all’attività scolastica esercitata, nonché in base alla valutazione condotta sui dati circa le concrete modalità con cui quell’attività era stata effettivamente esercitata. Così, si ritenne che l’attività scolastica, per sua natura commerciale e profana, fosse stata svolta, nel solo anno cui si riferiva l’accertamento (2004), in modo prevalente rispetto a quelle istituzionali di religione o di culto, proprie degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
In particolare, l’Istituto aveva redatto due distinti bilanci di esercizio. In uno dei due, composto dallo stato patrimoniale e dal conto economico erano state elencate le voci riferibili sia all’attività scolastica, di natura economica, sia alle attività di carattere non commerciale, le quali, di converso, non rilevano ai fini fiscali. Inoltre, era stata inserita, in questo bilancio, la voce concernente i contributi pubblici erogati a favore dell’ente, il cui apporto era risultato decisivo nel far emergere un utile di esercizio per l’anno di riferimento. L’altro bilancio, recante soltanto un conto economico, si era, invece, incentrato esclusivamente sulle voci riguardanti l’attività scolastica, la quale rileva ai fini fiscali, al contrario delle attività religiose e cultuali. I contributi pubblici, invece, non avevano trovato spazio in questo secondo bilancio in parola, essendo stati menzionati nel primo.
Per giunta, l’Istituto contribuente procedette alla dichiarazione dei redditi dell’anno 2004, presentando solamente il secondo dei bilanci testé menzionati, ovverosia quello corredato del solo conto economico relativo alle movimentazioni dell’attività scolastica, vista la sua rilevanza ai fine fiscali, per l’appunto. Ciononostante, l’Agenzia delle Entrate eseguì l’accertamento fiscale sulla base delle risultanze dell’altro bilancio, quello cioè comprensivo delle voci di tutte le attività svolte dall’ente nonché dei contributi pubblici, anche se questi ultimi avrebbero dovuto essere esenti da oneri fiscali. Per tale ragione, dunque, il calcolo IRES ed IRAP venne effettuato su una base imponibile che era emersa con il considerevole apporto dei contributi pubblici, non sottoponibili ad imposizioni tributarie.
In sintesi, la questione giuridica sottesa al caso, giunto presso la Cassazione, si è incentrata su due elementi strettamente connessi tra loro: in primo luogo, la sussistenza della qualifica di Ente non commerciale in capo all’Istituto contribuente e, in secondo luogo, il conseguente obbligo di tenere una contabilità separata per l’attività economica svolta marginalmente, in riferimento al quale assumono rilievo soprattutto le concrete modalità di tenuta, che, una volta attuate, permettano di ritenere adempiuto quell’obbligo.
Nel caso in esame, i Giudici di merito esclusero che l’Istituto religioso potesse essere considerato come un Ente non commerciale sotto il profilo fiscale, per via della ritenuta prevalenza, nel solo anno di accertamento, dell’attività scolastica profana rispetto a quelle di religione o di culto. Purtuttavia, gli stessi Giudici valutarono applicabile la disciplina di cui al Capo III TUIR, riservata proprio agli Enti non commerciali e comprensiva del già menzionato obbligo di separazione contabile. Ma non solo. Essi considerarono i documenti contabili dell’ente inadeguati nell’ottemperare all’obbligo della separazione contabile, in considerazione del fatto che i bilanci fossero carenti di «una contabilità analitica», poiché, nell’ottica dei Giudici di merito, avrebbe dovuto essere realizzata mediante documenti a sé stanti. Per questa ragione, una mera prospettazione di entrate e di uscite, così come era stato predisposto dal contribuente, non sarebbe stata sufficiente a soddisfare la richiesta legale. Cosicché, in primo e secondo grado, fu esclusa l’esistenza di una contabilità separata ai sensi dell’art. 144, co. 2, TUIR, il che condusse i Giudici di merito a propendere per la correttezza circa la mancata applicazione, da parte dell’Agenzia delle Entrate, dell’esenzione fiscale contemplata per i contributi pubblici dall’art. 143, co. 3, lett. b), TUIR.
- La collocazione giuridica degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti che svolgono anche un’attività commerciale
Il caso in esame ha posto il problema sulla concreta individuazione di quei presupposti, al verificarsi dei quali gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti subiscono l’esclusione dalla categoria giuridica degli Enti non commerciali.
L’Istituto religioso, parte in causa, è un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto nell’ordinamento dello Stato, come tale iscritto presso il Registro delle Persone Giuridiche dal 12 giugno 1987, ma, al tempo stesso, svolge anche un’attività scolastica di natura commerciale.
In generale, un ente ecclesiastico, pur dovendo necessariamente esercitare quelle attività idonee al perseguimento del fine precipuo di religione e di culto, da cui dipende il riconoscimento civile, è, altresì, libero di svolgere attività profane[2]. Questa eventualità è avallata dalla stessa normativa pattizia, in particolare dall’art. 15, L. 222 del 1985, dal momento che vige nel nostro ordinamento il principio per cui le persone giuridiche dispongono di una capacità giuridica generale, cosicché non è necessario che l’azione complessiva degli enti si riduca ad una mera funzione ancillare nei confronti del solo scopo istituzionale[3]. Inoltre, a beneficio dei soli enti ecclesiastici, tale principio generale sulla capacità giuridica trova sostegno nell’argine che l’art. 20 Cost. frappone alle «speciali limitazioni legislative», in modo tale da evitare l’eventuale predisposizione di vincoli nei confronti di quelle iniziative degli enti ecclesiastici estranee alla funzione prettamente religiosa[4]. In ogni caso, però, le attività di religione o di culto, oltre a dover figurare nell’atto costitutivo, devono essere effettivamente portate avanti, se non in via esclusiva, almeno in via principale rispetto a quelle profane, sempreché queste ultime siano, comunque, compatibili con la struttura e la finalità dell’ente stesso[5].
In linea generale, tutti gli enti ecclesiastici beneficiano di un regime giuridico speciale a seguito del riconoscimento per opera dell’Autorità governativa competente, a cui fa seguito l’iscrizione nell’apposito Registro delle Persone Giuridiche, ragion per cui nessun Giudice, di qualsiasi ordine e grado, avrebbe il potere giurisdizionale di istruire l’apposita procedura, così da accordare o revocare il riconoscimento civile all’ente[6].
Orbene, si comprende la cesura che la Corte Suprema di Cassazione ha effettuato all’indirizzo dei Giudici tributari di merito, i quali hanno sindacato il riconoscimento civile dell’Istituto religioso, senza averne la giurisdizione e, peraltro, in assenza dei requisiti legali che consentirebbero all’Autorità governativa competente di revocarne il riconoscimento civile[7].
Tuttavia, se, in linea generale, gli enti in parola godono di un regime giuridico speciale, l’art. 7, co. 3, cpv., L. 25 marzo 1985, n. 121 sottopone le sole attività diverse da quelle di religione e di culto alla normativa statale prevista per quelle specifiche attività, sicché trova applicazione anche la disciplina tributaria[8]. Ebbene, il profilo oggettivo di tali enti, ossia quello concernente le attività svolte, influisce sul regime giuridico globale applicabile alla vita dell’ente. Il medesimo principio si mette in atto anche con riferimento al regime fiscale cui l’ente è sottoposto.
Ad ogni modo, però, quando si discorre del complesso regime tributario a cui sono sottoposti gli enti ecclesiastici, non è sufficiente prendere atto delle sole categorie elaborate dalla legislazione tributaria unilaterale, ma è, altresì, necessario considerare le disposizioni della normativa pattizia[9]. Non a caso, è fondamentale la suddivisione delle attività operata, proprio sotto il profilo fiscale, dall’art. 7, co. 3, L. 25 marzo 1985, n. 121, a mente del quale «agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime»[10]. Per giunta, questa disposizione sta a dimostrazione della stretta corrispondenza sussistente tra la qualifica civilistica e la qualifica fiscale degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
In linea generale, la legislazione statale unilaterale colloca gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti nella categoria tributaria degli Enti non commerciali, considerandoli come soggetti passivi dell’Imposta sul Reddito delle Società (IRES) benché la struttura impositiva degli Enti non commerciali ricalchi quella tipica delle persone fisiche, e non quella delle società[11].
A riguardo, l’art. 73, co. 1, lett. c), TUIR pone l’attenzione sull’attività figurante quale «oggetto esclusivo o principale dell’ente», al fine di consentirne l’ingresso nella categoria fiscale degli Enti non commerciali. A rigore, gli enti ecclesiastici vi rientrano per la circostanza di non poter operare all’interno dei settori merceologici, col proposito di trarne prevalentemente un vantaggio speculativo[12].
Ora, l’art. 149, co. 1 e 2, TUIR indica i casi e i termini temporali inerenti alla perdita della qualifica di Ente non commerciale, ma al co. 4 prevede che «le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano agli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili […]». Secondo il ragionamento della Suprema Corte di Cassazione nella sentenza in commento, questa deroga non andrebbe intesa nel senso che «gli enti ecclesiastici non possono mai perdere la qualifica di “enti non commerciali”, neppure quando svolgono attività commerciale prevalente […]»[13]. Infatti, non è ravvisabile nell’ordinamento statale italiano alcun fondamento su cui innestare una presunzione assoluta di non commercialità degli enti ecclesiastici, mediante la quale accordare un regime fiscale di favore iuris et de iure, esclusivamente in virtù della connotazione religiosa soggettiva, derivante dalla loro appartenenza ad una Confessione religiosa[14].
Pertanto, la deroga prevista dal co. 4 dell’art. 149 TUIR non va condotta nella direzione di escludere del tutto l’eventualità che un Ente ecclesiastico non commerciale possa perdere tale qualifica fiscale. Invero, come abbiamo visto, la legislazione dello Stato condiziona l’acquisizione e la permanenza della qualifica civilistica di Ente ecclesiastico alla sussistenza degli specifici requisiti legali, che, tra l’altro, qualificano le modalità con cui le attività, che l’ente si prefigge, devono o non devono essere svolte. Oltretutto, la legislazione pone specularmente in rapporto la qualifica civilistica con quella tributaria, nel senso che sussiste una coincidenza tra i rispettivi requisiti di acquisizione delle due qualifiche, dimodoché, una volta ottenuta la prima, si presume che sussista anche la seconda, ma non in modo assoluto, bensì iuris tantum, ossia con possibilità di provare il contrario, qualora l’ente dovesse perdere i requisiti richiesti. Talché, se dovesse venir meno il riconoscimento civile, secondo quanto previsto dall’art. 19, co. 2, L. 20 maggio 1985, n. 222, gli enti ecclesiastici difetterebbero della condicio iuris per la permanenza della qualifica fiscale di Enti non commerciali. La ragione alla base di tale specularità, che del resto giustifica la deroga di cui all’art. 149, co. 2, TUIR, risiede nel fatto che la figura civilistica dell’ente ecclesiastico è stata approntata dalla legislazione pattizia per consentire il subingresso nell’ordinamento statuale di soggetti giuridici extra-ordinamentali, nella veste di enti ecclesiastici, al ricorrere di precisi requisiti legali[15]: dunque, se questi requisiti dovessero difettare sin dall’inizio o dovessero svanire in un secondo momento sul piano civilistico, non esisterebbe proprio un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, ma solo un ente canonico extra-ordinamentale, non legittimato, di conseguenza, a beneficiare dei vantaggi fiscali[16].
Da tale quadro normativo, quindi, emerge che la generica deroga del co. 4, art. 149 TUIR, riferendosi al co. 2 dello stesso articolo, determina l’esclusione dell’operatività dei parametri ivi elencati, i quali concorrono al dissolvimento della qualifica di Ente non commerciale, dato che, come visto prima, gli enti ecclesiastici devono adeguarsi soltanto ai requisiti della normativa pattizia. In più, la medesima deroga a beneficio degli enti ecclesiastici, coinvolgendo anche il co. 1 dello stesso articolo, a mente del quale «indipendentemente dalle previsioni statutarie, l’ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta», implica, secondo la stessa Corte nella sentenza in commento, che «non è sufficiente svolgere attività prevalente per un solo esercizio», come previsto nel co. 1, «per perdere la qualifica di “ente non commerciale”, per gli enti ecclesiastici, ma occorre che nel corso dei vari anni di attività l’ente ecclesiastico abbia in realtà svolto in prevalenza attività commerciale»[17].
Dopotutto, le considerazioni fatte finora sono state suffragate dalla Commissione Europea, con la decisione 284/2012/UE del 19 dicembre 2012, relativa ad un caso di aiuto di Stato, la quale ha sostenuto che «per quanto riguarda gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, l’Italia ricorda che la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 124/E, del 12 maggio 1998, ha chiarito che gli enti ecclesiastici possono beneficiare del trattamento fiscale riservato agli enti non commerciali soltanto se non hanno per oggetto principale l’esercizio di attività commerciali. In ogni caso, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti devono conservare la prevalenza dell’attività istituzionale di ispirazione eminentemente idealistica. Pertanto, l’articolo 149, quarto comma, del TUIR si limita a escludere l’applicazione dei particolari parametri temporali e di commercialità di cui all’articolo 149, primo e secondo comma, agli enti ecclesiastici […], ma non esclude che tali enti possano perdere la qualifica di enti non commerciali»[18]. E ancora, continuando nel prosieguo della decisione, «gli enti ecclesiastici […] possono perdere la qualifica di ente non commerciale se svolgono attività prevalentemente economiche. Pertanto, anche gli enti ecclesiastici […] possono perdere il beneficio del trattamento fiscale riservato agli enti non commerciali in genere. Non risulta pertanto sussistere quel sistema di “qualifica permanente di ente non commerciale”»[19].
Sul punto, del resto, la stessa Corte Suprema di Cassazione richiama, nella sentenza in commento, i propri precedenti, in cui ha corroborato i medesimi principi in tema di riconoscimento dei trattamenti di maggior favore per gli enti equiparati a quelli di beneficenza o istruzione, tra i quali rientrano gli enti ecclesiastici[20]. Per giunta, al fine di poter beneficiare di tale trattamento agevolativo, così come avviene per poter mantenere i vantaggi derivanti dalla qualifica Ente non commerciale, senza incorrere in aiuti di Stato vietati, non risultando sufficiente che detti enti siano sorti con i fini enunciati nei propri atti, è, altresì, necessario verificare che «l’attività in concreto esercitata dagli enti medesimi non abbia carattere commerciale, in via esclusiva o principale, e, inoltre, in presenza di un’attività commerciale di tipo non prevalente, che la stessa sia in rapporto di strumentalità diretta ed immediata con quei fini di religione e di culto, e quindi, non si limiti a perseguire il procacciamento dei mezzi economici al riguardo occorrenti, dovendo altrimenti essere classificata come “attività diversa”»[21].
In conclusione, sulla scorta delle considerazioni esposte sinora, si comprende la circostanza per cui la Corte, nella sentenza in commento, rinviene una violazione di legge da parte dei Giudici di merito per «avere ritenuto esistente», per una sola annualità (2004), una attività commerciale prevalente, tale da poter eliminare all’ente ecclesiastico la natura di “ente non commerciale”», benché la deroga al co. 1, art. 149 TUIR, per opera del co. 4 del medesimo articolo, escluda tale eventualità per gli enti ecclesiastici. Come chiosa la Corte, «essendo stato preso in esame un solo anno, non poteva l’Istituto perdere la natura di “ente non commerciale”»[22].
- La Corte Suprema di Cassazione ribadisce il proprio orientamento sui modi di espletamento della doppia contabilità
La seconda questione giuridica, affrontata nella sentenza in commento, ruota sull’obbligo della contabilità separata, o più comunemente noto come obbligo della doppia contabilità.
In generale, l’art. 8 D.P.R. 13 febbraio 1987, n. 33, regolamento di esecuzione della legge 20 maggio 1985, n. 222, dispone che «l‘ente ecclesiastico che svolge attività per le quali sia prescritta dalle leggi tributarie la tenuta di scritture contabili deve osservare le norme circa tali scritture relative alle specifiche attività esercitate».
Nello specifico, con particolare riferimento agli enti non economici esercenti delle attività commerciali, fiscalmente rilevanti, l’art. 144, co. 2, TUIR impone la separazione contabile «per l’attività commerciale esercitata», nel duplice intento di evitare le eventuali commistioni tra le diverse attività esercitate e di sopperire ad esigenze di trasparenza, utili anche per qualificare l’ente dal punto di vista fiscale.
In primis, quest’ultima disposizione va coordinata con quella dell’art. 20, co. 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), il quale rinvia alle scritture contabili e agli adempimenti fiscali, di cui agli artt. 14-18 dello stesso D.P.R., da attuare «in relazione allo specifico genere di attività commerciale, eventualmente esercitata dagli enti non commerciali», e «in base all’entità dei volumi annui di ricavi realizzati»: pertanto, tale espediente normativo consente di utilizzare «un regime di contabilità semplificata [art. 18] o di contabilità ordinaria o ancora di contabilità super semplificata [art. 20, co. 3]»[23]. Per questa ragione, è necessario determinare specificamente, sotto il profilo fiscale, l’an e il quomodo delle attività commerciali, ovverosia il se può essere ravvisata un’attività commerciale e, in subordine, il modo con cui la stessa viene esercitata[24].
Ora, nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate ammise, nei giudizi di merito, di essere riuscita ad addentrarsi «nel merito delle singole riprese fiscali, ai fini di determinarne l’imponibilità o meno», premettendo, per di più, che l’Istituto religioso aveva riconosciuto l’esistenza di un’attività commerciale (gestione di una scuola) e che lo stesso Istituto aveva dichiarato, nell’apposito questionario, di «non avere una contabilità analitica», bensì «una contabilità costituita da “entrate e uscite”»[25]. Pertanto, pur essendo implicitamente desumibile da tali affermazioni dell’Agenzia delle Entrate l’avvenuto adempimento dell’obbligo di separazione contabile da parte dell’Istituto nonché la possibilità di distinguere le varie voci contabili, il Giudice di appello considerò inadempiuto l’obbligo della separazione contabile, escludendo, di conseguenza, l’applicazione dell’esenzione prevista dall’art. 143, co. 3, lett. b), TUIR per i contributi pubblici, in ragione dell’asserita impossibilità di individuare questi ultimi all’interno del bilancio[26].
A riguardo, il Giudice di secondo grado prese alla lettera l’obbligo di doppia contabilità, concependolo in sintonia con quell’indirizzo interpretativo che vorrebbe desumervi la necessità di elaborare due separati e completi bilanci, per ogni genere di attività svolta, ciascuno dei quali dovrebbe figurare su distinti supporti documentali[27].
Al contrario, la giurisprudenza di legittimità si è mantenuta coerente al proprio indirizzo interpretativo, perseverando nel ritenere sufficiente, per adempiere all’obbligo legale della separazione contabile, una chiara distinzione tra i fatti amministrativi (monetario-finanziari ed economici) relativi all’attività istituzionale e quelli riguardanti l’attività commerciale, in quanto sarebbe, comunque, garantita la ratio legis di assicurare la trasparenza e la divisione tra le differenti attività[28].
Oltretutto, di questo parere non è solo la giurisprudenza di legittimità, ma persino l’Amministrazione Finanziaria: infatti, l’Agenzia delle Entrate, nella Risoluzione 13 marzo 2002, n. 86/E, ha reputato che un unico impianto contabile consente di provvedere alle già menzionate esigenze legali, lasciando, al contempo, margine alle Autorità competenti di esercitare i controlli fiscali.[29]
In ogni caso, l’apprestamento di un impianto di conti unico è facoltativo, in modo tale da lasciare all’organo amministrativo degli enti la scelta circa il modello di impianto contabile da adottare, permettendo di spaziare da una contabilità per così dire minimalista, devota cioè all’essenziale, fino alla messa a punto del metodo della partita doppia, alla stregua di quanto avviene per la contabilità ordinaria degli enti commerciali.
In conclusione, la Corte Suprema di Cassazione, ribadisce, nella sentenza in commento, il principio di diritto per cui «il bilancio […] può essere redatto con qualsiasi metodo secondo qualsiasi schema, purché conformi ai principi della tecnica contabile, non essendovi alcun obbligo di adeguarsi nella redazione del bilancio alle disposizioni concernenti gli schemi, la forma previsti per il bilancio delle società di capitali»[30]
A riguardo, al fine di corroborare l’esattezza di questo principio, è interessante evidenziare il parallelismo che la Corte effettua in relazione alla disciplina sul Terzo settore, la quale distingue, sempre ai fini tributari, tra enti del Terzo settore commerciali ed enti del Terzo settore non commerciali[31]. Tuttavia, si badi, questa distinzione non è sovrapponibile a quella operata dal TUIR con riferimento agli entri estranei all’ambito del Terzo settore, come, del resto, si evince dalla richiesta, da parte dell’art. 9 della legge delega 106 del 2016, di una revisione complessiva della normativa tributaria nell’ambito del Terzo settore[32]. Nonostante la differente determinazione delle categorie fiscali, l’art. 79, co. 1, CTS prevede l’applicazione del TUIR, anche se in via meramente residuale e in quanto compatibile con la normativa sul Terzo settore: dunque, anche gli enti del Terzo settore hanno l’obbligo di tenere la contabilità separata in relazione all’attività commerciale svolta, da intendersi negli stessi termini di cui abbiam dato conto sopra[33].
[1] Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, Sezione distaccata di Messina, n. 131/27/2013, depositata il 31 maggio 2013, Considerato in diritto, pag. 2.
[2] L’imprescindibilità del fine di religione o di culto è affermata espressamente, mediante due formulazioni analoghe, dall’art. 7, co. 2, L. 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’Accordo 18 febbraio 1984) e dall’art. 1, L. 20 maggio 1985, n. 222 (Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi): in sintesi, lo Stato italiano riconosce come persone giuridiche civili, attraverso un’apposita procedura, gli enti canonici, approvati o eretti dall’Autorità ecclesiastica competente ed aventi sede in Italia, a condizione che perseguano un fine di religione o di culto, sia nel momento in cui viene inoltrata l’istanza di riconoscimento che durante l’intera vita dell’ente. La presenza di questo elemento causale, che deve configurarsi in termini costitutivi ed essenziali, è accertata dall’Autorità governativa deputata alla verifica, tenendo in debito conto la distinzione tra le attività religiose/cultuali e quelle diverse, operata dall’art. 16, L. 20 maggio 1985, n. 222. A riguardo, va ribadito che l’espletamento della verifica debba avere ad oggetto le concrete modalità con cui il fine di religione e di culto viene perseguito, non essendo, invece, sufficiente una mera valutazione delle risultanze dello statuto dell’ente: si veda quanto ufficialmente enucleato in Commissione Paritetica Italia – Santa Sede, Relazione sui principi, 6 luglio 1984, in Foro it., 1984, V; Presidenza del Consiglio dei Ministri, La revisione del Concordato. Un accordo di libertà, Roma, 1986. In giurisprudenza, si rinvia a Cons. Stato, sez. I, 02 novembre 2009, n. 2750/09, in Giurisdiz. amm., 2009, I, 1543, in cui i Giudici hanno sostenuto che, in sede di accertamento sulla sussistenza della finalità religiosa o cultuale, occorre condurre un’attenta valutazione, caso per caso, la quale può sfociare in un esito positivo, allorquando le attività, previste dallo stesso art. 16, lett. a), L. 222/1985, risultino «essenzialmente» perseguite in concreto.
Negli anni, la dottrina si è incentrata a specificare la portata dell’endiadi «costitutivo ed essenziale» che deve caratterizzare la finalità degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti: secondo S. Berlingò, Enti e beni religiosi in Italia, il Mulino, Bologna, 1992, pag. 82, la condizione si verificherebbe quando la finalità religiosa o cultuale assuma «un rilievo eminente e centrale tra le varie finalità, così da configurarsi come vera e propria “causa” (dell’istituzione) dell’ente»; analogamente, si esprime C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico – Tradizione europea legislazione italiana, Giappichelli Editore, Torino, 2015, pag. 337, il quale ritiene che la suddetta finalità debba figurare come la «ragion d’essere dell’ente». Invece, per F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, XII ed., Zanichelli Editore, Bologna, 2015, pag. 278, l’endiadi riceverebbe «un suo chiarimento nel successivo art. 16 lett. a. È l’interpretazione sistematica delle due disposizioni che vale a chiarire il significato della prima. […] L’ente, per essere qualificato come “ecclesiastico”, deve avere uno statuto e/o tavole di fondazione che presentino uno degli anzidetti temi come fine principale dell’ente e, di fatto, deve svolgere come attività preponderante una delle attività sopra menzionate».
La circostanza di aver approntato un procedimento legale di riconoscimento della personalità giuridica civile non attenta all’autonomia della Chiesa cattolica, per la sua natura di societas iuridice perfecta, la quale trova tutela nel principio di distinzione degli ordini, ricavato dal combinato disposto degli artt. 7, co. 1, e 8, co. 2, Cost. In tal senso, sono significative le considerazioni effettuate in R. Benigni, Il riconoscimento civile dell’ente ecclesiastico, tra Concordato del 1929, Accordo del 1984, “prassi” amministrativa e “regime” non profit: quali prospettive, in Dir. eccl. 3, 2000, pagg. 886-887, per la quale il regime di specialità a favore degli enti ecclesiastici è «delimitata, per entrambi gli ordinamenti, dalla imposizione di requisiti e procedure positive, specifiche e puntuali. Pertanto ai fini del riconoscimento civile, se l’ordinamento italiano potrà pretendere il solo possesso dei requisiti indicati dalla legge n. 222 del 1985 e verificarli sulla base dei criteri della stessa posti, parimenti l’ordinamento canonico, non potrà far valere la propria originarietà ai fini di una esenzione del diritto comune, fuori da quegli ambiti». Per giunta, «i requisiti positivamente indicati dalla legge 222 del 1985» sono «limite e misura della eventuale discrezionalità statuale in sede di attribuzione della personalità giuridica italiana all’ente ecclesiastico». L’Autrice sostiene che, in un tale contesto, specialmente nella fase di riconoscimento civile dell’ente canonico, «l’esigenza di conservazione della propria “originarietà” è per l’ente il valore fondamentale, condizione e garanzia di un più generale regime “speciale” inglobante l’intera esistenza dell’ente stesso. Non a caso tutte le disposizioni concordate in materia di enti si preoccupano di porre limiti, garanzie e dettagliate procedure, in primis relativamente a tale fase costitutiva» (pag. 883).
[3] Sul punto, cfr. A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico. Ordinamento giuridico e interessi religiosi, X ed., Giuffrè Editore, Milano, 2005, pag. 423, secondo cui nell’ordinamento italiano «si intende riconosciuta alla persona giuridica una capacità generale e non già funzionale, per cui essa può esercitare qualsiasi tipo di attività. E questo vale per quelle particolari persone giuridiche che sono gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti»; in senso analogo, A. Bettetini, Gli enti e i beni ecclesiastici, in Il Codice Civile-Commentario, Art. 831, Giuffrè Editore, Milano, 2005, pag. 67; F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Jovene, Napoli, 2012, pagg. 43-44.
Sempre da una prospettiva di carattere sistematico, si pone la considerazione fatta in P. Cavana, Gli enti ecclesiastici nel sistema pattizio, Giappichelli Editore, Torino, 2011, pag. 189, il quale, riferendosi alla possibilità per gli enti in parola di svolgere un’attività economica, ritiene che «sotto questo profilo la normativa pattizia sembra aver anticipato gli esiti della più recente evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia di neti non lucrativi, caratterizzati dal carattere ideale del fine statutario e per i quali oggi si ammette pacificamente […] l’esercizio di attività d’impresa gestite con modalità che consentano la copertura dei costi con i ricavi, sì da garantire l’autosufficienza economica».
[4] Per un approfondimento sull’art. 20 Cost., si consigliano M. Ricca, Art. 20 della Costituzione ed enti religiosi: anamnesi e prognosi di una norma “non inutile”, in AA.VV., Studi in onore di Francesco Finocchiaro, CEDAM, Padova 2000, vol. II, pagg. 1537 e ss.; A. Guarino, Diritto ecclesiastico tributario e articolo 20 della Costituzione, Jovene, Napoli, 2012; F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., pagg. 236-243; L. Decimo, Le organizzazioni religiose nel prisma costituzionale dell’art. 20, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018; G. Dalla Torre, Lezioni di diritto ecclesiastico, Giappichelli Editore, Torino, 2019, pagg. 97-100; A. Fuccillo, Le proiezioni collettive della libertà religiosa, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), 18, 2019, pagg. 12-15, secondo cui l’art. 20 Cost., nel tutelare in linea diretta il fine di religione e di culto, «assume il ruolo di regola prodromica all’esercizio dei diritti e delle libertà sancite negli artt. 7, 8 e 19, in quanto tutela e promuove le condizioni fattuali che di essi costituiscono il presupposto. Nel disegno costituzionale l’art. 20 Cost. assumerebbe quindi una rinnovata carica propulsiva in quanto con esso il legislatore costituzionale avrebbe inteso assicurare protezione e promozione a quelle formazioni sociali nelle quali è possibile il libero sviluppo della religiosità individuale e collettiva. […] Dalla lettura sistematica delle norme costituzionali, che muove i propri passi dall’art. 20, […] discende un chiaro dovere (e non solo mera possibilità) di promozione delle formazioni sociali religiosamente orientate che investe indubbiamente il legislatore ordinario, […] in un’ottica promozionale degli enti religiosi […]. La doverosità dell’art. 20 deve ritenersi altresì riferibile all’attività del giurista, il quale, dovrà garantire la corretta applicazione della norma anche attraverso l’interpretazione e l’applicazione di istituti e strumenti negoziali». Per questi motivi, l’art. 20 Cost. «promuovendo direttamente le finalità religiose, sembrerebbe svolgere un’attività di nomopoiesi, in quanto stimola la produzione di norme di condotta direttamente riferibili al fattore religioso».
[5] A riguardo, si veda Presidenza del Consiglio dei Ministri, La revisione del Concordato. Un accordo di libertà, cit., pag. 527, per cui le attività profane, di cui all’art. 16, lett. b), L. 222/1985, devono assumere un ruolo «marginale nell’ambito degli scopi che l’ente persegue».
Una descrizione dello stretto legame intercorrente tra la Comunità ecclesiale e i propri enti è riportata in Associazione Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili Cattolici, Guida normativa e fiscale per gli Enti Ecclesiastici. Gli Enti Ecclesiastici fra Diritto Canonico e normativa fiscale Otranto, 2018, pag. 10, in cui è, per l’appunto, sottolineato che «il diritto canonico definisce lo statuto dell’ente e lo concepisce come strumentale per il conseguimento della comunione ecclesiale, bene comune superiore. L’ente quindi è una particolare istituzione ecclesiale, che si colloca in un rapporto di coessenzialità con la comunità ecclesiale ed è ad essa funzionale. L’ente non è quindi solo il prolungamento della vita della Chiesa per il raggiungimento dei suoi fini, ma è esso stesso Chiesa, cioè luogo in cui i fedeli costituiscono la Chiesa, secondo la consegna di Gesù Cristo».
Al contrario, perplessità sul rispetto della struttura e della finalità dell’ente, a causa della «sostanziale inapplicabilità», sono espresse in D. Fondaroli, A. Astrologo e G. Silvestri, Responsabilità “amministrativa ex d.lgs. n.231 del 2001 ed enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), 38, 2012, pag. 9.
Per un ulteriore approfondimento in dottrina, si rinvia a P. Picozza, L’ ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, Giuffrè Editore, Milano, 1992, pagg. 74-79.
[6] Una volta ottenuta la qualifica di Ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, la collettività giuridica aleggia tra due ordinamenti, quello confessionale di origine e quello statale in cui ha ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica civile, avvalendosi di una disciplina speciale per quanto attiene ai controlli esterni, all’efficacia civile delle autorizzazioni canoniche e al particolare regime fiscale, così da non renderli omologabili alle persone giuridiche private, cui si applica il diritto comune: cfr. R. Benigni, Il riconoscimento civile dell’ente ecclesiastico, tra Concordato del 1929, Accordo del 1984, “prassi” amministrativa e “regime” non profit: quali prospettive, cit., pag. 883. Talché, come scritto in R. Benigni, L’ente ecclesiastico tra specialità e diritto comune. Affrancamento della disciplina giuridica dell’ente dal suo connotato teologico-soggettivo: conseguenze pratiche e profili di legittimità, in Dir. eccl., 3, 1998, pag. 601, nota 3, «si riconosce all’ente ecclesiastico un “privilegio” in ragione della sua attività religiosa e cultuale, fuori da tale ambito il trattamento speciale viene però ritenuto ingiustificato. […] Di fatto, […] l’art. 7.3 dell’Accordo di Villa Madama, nel testo poi approvato, viene a confermare una specialità globale e generale dell’ente ecclesiastico». Questa esigenza di tutelare l’autonomia della Confessione, a cui l’ente appartiene, spiega il motivo per cui L’Accordo di Villa Madama del 1984 e la legislazione pattizia non mancano di ribadire, in molteplici occasioni, l’applicabilità della legislazione italiana «nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti»: in via esemplificativa, si veda l’artt. 7, co. 3, L. 25 marzo 1985, n. 121.
[7] Come sottolineato in Cass. civ., Sez. V, Sent. 14 gennaio 2021, n. 526, Motivi della decisione, pag. 2, punto 1, «il giudice di appello, condividendo la pronuncia di primo grado, avrebbe fatto perdere all’Istituto la natura di Ente Ecclesiastico, mentre l’attribuzione di tale natura spetta solo all’Autorità ecclesiastica». Concetto ribadito a pag. 6, punto 4.2, cpv., in cui la Corte sostiene che «il giudice tributario non avrebbe […] potuto disconoscere all’Istituto la natura di “ente ecclesiastico”, in quanto in base al Concordato 1929 ed alle successive modifiche, la natura ecclesiastica dell’ente è riconosciuta solo dal diritto canonico, mentre lo Stato italiano può solo operare il “riconoscimento” dell’ente ecclesiastico nello Stato».
Sul punto, preme ribadire che la procedura di disconoscimento civile degli enti ecclesiastici segue lo schema del riconoscimento. Quindi, sono necessari i requisiti legali e l’intervento delle apposite Autorità, come dimostra la disposizione dell’art. 19, co, 2, L. 222/1985: «In caso di mutamento che faccia perdere all’ente uno dei requisiti prescritti per il suo riconoscimento può essere revocato il riconoscimento stesso con decreto del» Ministro dell’Interno, «sentita l’autorità ecclesiastica e udito il parere del Consiglio di Stato».
[8] Art. 7, co. 2, c.p.v., L. 25 marzo 1985, n. 121: «Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime».
In linea di massima, dunque, come rilevato in R. Benigni, Il riconoscimento civile dell’ente ecclesiastico, tra Concordato del 1929, Accordo del 1984, “prassi” amministrativa e “regime” non profit: quali prospettive, cit., pag. 883, «l’esigenza di conservazione della propria “originarietà” è per l’ente il valore fondamentale, condizione e garanzia di un più generale regime “speciale” inglobante l’intera esistenza dell’ente stesso».
Dopotutto, tale specialità, garantita dal rispetto della struttura e delle finalità degli enti, come specificato dalla stessa legislazione pattizia, risulta compatibile con lo svolgimento di ulteriori attività profane. Difatti, come evidenziato in A. Fuccillo, R. Santoro e L. Decimo, Gli enti religiosi ETS. Tra diritto speciale e regole di mercato, ESI, Napoli, 2019, pag. 67, «nell’attuale sistema giuridico gli enti ecclesiastici agiscono nel mercato dei beni e servizi al pari degli altri operatori economici», senza compromettere con ciò l’apparente diversità causale tra ecclesiasticità dell’ente e commercialità dell’imprenditore: per un approfondimento sul tema, si rinvia alle pagg. 68-74.
Sembra alquanto perentorio il concetto riportato in G. Rivetti, Enti ecclesiastici e ammissibilità alle procedure concorsuali: profili interordinamentali, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), 32, 2014, pagg. 7-8, secondo cui «la qualifica di “ecclesiastico”, infatti, è certamente favoritiva quando risponde alle esigenze religiose, ma del tutto irrilevante quando l’ente assume una differente funzione». Invero, pur avendo la legislazione pattizia assoggettato le attività diverse alle leggi dello Stato, che disciplinano quelle specifiche materie, il profilo soggettivo degli enti ecclesiastici non può svanire completamente, altrimenti tali enti, essendo finalisticamente orientati, rischierebbero la revoca del riconoscimento civile per la perdita dei requisiti richiesti dalla legge. Proprio sulla convivenza tra regime comune e regime speciale, si esprime P. Cavana, Gli enti, cit., pagg. 192-193, per cui «l’ipotesi di un possibile conflitto tra regime soggettivo dell’ente e regime delle attività da questo svolte […] non viene elusa ma è espressamente considerata e risolta dal legislatore pattizio dando prevalenza ai profili soggettivi, strutturali e finalistici dell’ente, sottraendoli ad eventuali alterazioni per effetto dell’applicazione delle leggi civili concernenti le singole attività. Il che on significa che all’ente ecclesiastico non possa essere applicato, in relazione alle attività svolte, lo statuto dell’imprenditore, ma ciò sarà possibile solo nella misura in cui esso non incida irreparabilmente sul suo regime soggettivo come delineato nella normativa pattizia».
Per ulteriori approfondimenti sul tema, si rinvia, altresì, ad A. Fuccillo, Enti ecclesiastici e impresa commerciale: finalmente un binomio compatibile! (nota a Cass, Sez. Unite, 11 aprile 1994, n. 3353), in Dir. eccl., 4, 1995, pagg. 463 e ss.; F. Franceschi, Scuole confessionali, esercizio di attività industriale e diritto agli sgravi contributivi: note in margine ad una recente sentenza della Suprema Corte (nota a Cass., Sez. Lav., 5 gennaio 2001, n. 97), in Informazione previdenziale 2001, pagg. 1215 e ss.; A. Bettetini, Gli enti e i beni ecclesiastici, cit., pagg. 68-70; Id., L’attività commerciale di un ente ecclesiastico, in J. I. Arrieta, Enti ecclesiastici e controllo dello Stato: studi sull’istruzione CEI in materia amministrativa, Marcianum Press, Venezia, 2007, pagg. 191 e ss.; D. Fondaroli, A. Astrologo e G. Silvestri, Responsabilità “amministrativa, cit., pagg. 10-12.
[9] Di tale situazione offre una sintesi di carattere generale A. Perego, Enti religiosi, Terzo settore e categorie della soggettività tributaria, in Jus, 2019: «In prospettiva tributaria, la categoria soggettiva degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti non è come spesso appare o la si descrive, e cioè un omogeneo insieme di enti che per legge hanno ad oggetto esclusivo o principale un’attività di religione o di culto, la quale non è mai fiscalmente commerciale: tali enti non costituiscono, in sintesi, una monolitica “species” legale della categoria soggettiva degli enti non commerciali di cui all’art. 73, co. 1, lett. c del TUIR».
[10] In argomento, si veda quanto esposto in G. Dalla Torre, Lezioni, cit., pag. 228, in cui ci si sofferma sulla ragione giuridica dell’art. 7, co. 3, L. 121/1985, rinvenibile nell’esigenza di «distinguere tra regime interno dell’ente, dipendente dalle norme confessionali, e regime delle sue attività esterne, doverosamente ricondotto alle leggi civili al fine di evitare la formazione di aree di ingiustificato privilegio nell’esercizio di attività proprie anche di altri soggetti (principio di uguaglianza) e la lesione di interessi generali tutelati dal legislatore statale (o regionale) in relazione ai vari settori di attività».
Ulteriori analisi sull’argomento sono effettuate in Associazione Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili Cattolici, Guida, cit., pag. 33, per cui «sarà necessario stabilire in maniera oggettiva, prima di decidere se l’ente sia soggetto all’applicazione della normativa fiscale e, quindi, sia considerato al pari degli altri enti commerciali, se l’attività economica esercitata dall’associazione religiosa sia solo strumentale, saltuaria, sporadica o accessoria rispetto a quella istituzionale dell’ente stesso oppure non sia svolta (forse anche) in maniera anche prevalente rispetto alla prima». In seguito alla valutazione, come sostiene P. Clementi, La fiscalità dell’ente ecclesiastico, in P. Clementi e L. Simonelli (a cura di), L’ente ecclesiastico a trent’anni dalla revisione del Concordato, Giuffrè Editore, Milano, 2015, pagg., pagg. 308-309, «in forza di questa “equiparazione concordataria”, ogni norma specifica rivolta agli enti e/o alle finalità di beneficenza o di istruzione si applica automaticamente, sia agli EECR in quanto soggetti fiscali, sia alle loro attività di religione o culto. […] Va precisato che l’equiparazione opera solo agli effetti strettamente tributari e non può essere evocata per applicare altre norme statali relative alla beneficenza e all’istruzione alle attività di religione o culto o agli EECR».
[11] Questa situazione si è venuta a creare per il mancato compimento dell’originario progetto di riforma del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), il quale prevedeva la sostituzione dell’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (IRPEF) con l’Imposta sul Reddito (IRE), cui sarebbero stati sottoposti sia le persone fisiche che gli Enti non commerciali.
[12] Cfr. P. Clementi, La fiscalità dell’ente ecclesiastico, cit., pagg. 303-304.
[13] Si veda Cass. civ., Sez. V, Sent. 14 gennaio 2021, cit., pag. 4, punto 3, in cui si specifica che quell’indirizzo interpretativo, sostenuto da una parte di dottrina, troverebbe «implicita conferma dalla relazione di accompagnamento al D.Lgs. n. 460 del 1997, sicché gli enti ecclesiastici potrebbero essere definiti come enti non commerciali “di diritto”», considerato che la legge presuppone sempre, per il riconoscimento civile, che l’ente abbia ad oggetto esclusivo o principale un’attività di religione o di culto, rendendo così superfluo un successivo «controllo fiscale sull’effettiva natura non commerciale».
[14] Su questa linea, si veda Consiglio Nazionale Del Notariato, Studio n. 864 bis, 21 aprile 1999, Enti ecclesiastici, con particolare riferimento al D.Lgs. n. 460/1997, est. C. Brunelli, pag. 14, in base al quale «gli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili rientrano sicuramente nella categoria degli enti non commerciali, anzi si potrebbe affermare che, alla luce di quanto stabilisce il nuovo comma 4 dell’art. 111-bis del T.U.I.R., modificato dall’art. 6 del D.Lgs. n. 460/1997, possono qualificarsi enti commerciali di diritto».
Sulla stessa scia, si pone Caritas Italiana, Alcune riflessioni intorno alla configurazione civilistica e fiscale dell’Ente Ecclesiastico Civilmente Riconosciuto, agosto 2007, pag. 2, secondo cui «essendo il perseguimento delle finalità di religione e culto l’oggetto esclusivo dell’Ente Ecclesiastico Civilmente Riconosciuto (EECR), ed essendo questa […] una previsione di legge (art. 7, comma 2, Legge 121/85), si comprende perché l’EECR non possa mai perdere la qualifica di ente non commerciale, anche quando l’attività commerciale posta in essere dovesse essere quantitativamente importante: a rafforzamento di tale conclusione, l’esplicita previsione dell’art 149, comma 4, che stabilisce che all’EECR non si applicano le disposizioni relative alla perdita della qualifica di ente non commerciale. A tale proposito è bene notare come la definizione di attività commerciale secondo il Codice Civile e secondo la normativa fiscale non sia coincidente, la seconda essendo più estensiva della prima […]. Il legislatore fiscale, avendo a misura l’attività da sottoporre a imposizione (diretta o indiretta), pur partendo dal medesimo presupposto (è attività commerciale quella corrispondente all’esercizio in forma di impresa delle attività previste dall’art. 2195 C.C.), estende la nozione di attività commerciale alle medesime attività anche se svolte in via non esclusiva e anche se non organizzate in forma di impresa (art. 55 TUIR e art. 4 DPR 633/72)».
In senso analogo, si esprime G. M. Cipolla, Profili fallimentari e profili fiscali nell’amministrazione degli enti ecclesiastici, in Conferenza Episcopale Italiana, Temi di amministrazione dei beni ecclesiastici e riforma del terzo settore. Seminari nazionali di studio per gli economi e responsabili degli uffici amministrativi, seminario tenutosi in Roma, 15 ottobre 2013, pag. 36, per cui «la norma fiscale (l’art.149, comma 4 TUir) […] sterilizza, ai fini tributari, il comportamento in concreto tenuto dagli enti ecclesiastici stabilendo che tali enti, al pari delle associazioni sportive dilettantistiche e diversamente da ogni altro ente, non possono mai perdere la qualifica di ente non commerciale. Quand’anche dovessero svolgere prevalentemente un’attività commerciale, gli enti ecclesiastici restano fiscalmente “enti non commerciali”, con tutto ciò che ne consegue in punto di applicazione (a tacer d’altro) del peculiare regime riservato a tali enti dallo stesso TUir. La suesposta conclusione rimane ferma quand’anche gli enti ecclesiastici – come spesso accade – dovessero investire tutto o gran parte delle proprie disponibilità economiche nell’acquisizione di beni strumentali allo svolgimento dell’attività imprenditoriale o di beni mobili quali azioni o obbligazioni». Tuttavia, lo stesso Autore riconosce che «nella relazione governativa di accompagnamento al d.lgs. n. 460/1997 il cui testo era stato trasfuso nell’art. 111 bis TUir (cui corrisponde appunto, a seguito della riforma ires, l’art. 149) la ratio dell’art. 149, ult. comma (già art. 111 bis, ult. comma) TUir è individuata significativamente nel fatto che negli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili “sono prevalenti le attività istituzionali di ispirazione eminentemente idealistica”».
In senso conforme, P. Piccolo, Gli obblighi contabili degli enti ecclesiastici tra attività non profit e for profit, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), 21, 2013, pagg. 2-3, per la quale «è opinione comune che, per l’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, vige la presunzione di “non commercialità” 7 per il fatto che questi non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali. Tale assunto è confermato sia dalla nozione civilistica di imprenditore (cfr. artt. 21358 e 21959 c.c.) sia dalla normativa fiscale sul reddito d’impresa (cfr. artt. 55 e 56 Tuir10) e sull’esercizio d’imprese (cfr. art. 4 d.P.R. n. 633 del 1972), in quanto, non essendo l’attività religiosa diretta alla produzione o alla cessione di beni né alla prestazione, eventualmente economica, di servizi, non può essere di natura commerciale».
[15] Si veda Associazione Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili Cattolici, Guida, cit., pag. 9: «L’espressione ente ecclesiastico non appartiene al diritto canonico, che parla di persone giuridiche, ma a quello civile ed ecclesiastico. È utilizzata nell’articolo 831, comma 1, del Codice Civile che, a sua volta, riprende la terminologia del Concordato Lateranense dell’11 febbraio 1929. È stato ripreso nell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense del 18 febbraio 1984 e nelle “Norme per la disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici”, comunemente nota come Legge 222/1985».
[16] Sul punto, si veda P. Picozza, Gli enti ecclesiastici: dinamiche concordatarie tra innovazioni normative e disarmonie del sistema, in Quad. dir. pol. eccl., 1, 2004 pag. 173, per cui «in altre parole il volume complessivo delle attività economiche riferite alle attività diverse, non può essere tale da far assumere all’ente una caratterizzazione di tipo commerciale». Lo stesso Autore, nella nota 28, specifica che «questa condizione (prevalenza delle attività commerciali) può essere motivo di legittimo impedimento, anche per il riconoscimento della qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, ai sensi dell’art. 4 della citata legge n. 222/1985».
Similmente si esprime C. E. Varalda, Enti ecclesiastici cattolici e procedure concorsuali. La rilevanza del “patrimonio stabile” nella gestione della crisi, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), 28, 2015, pag. 4, il quale prospetta, per l’ipotesi in cui le attività diverse non siano svolte «“per così dire, a fianco o in parallelo con quella religiosa”» o, comunque, non ad «essa strumentale», l’eventualità che «si potrebbe arrivare, con un procedimento uguale a quello attributivo di personalità giuridica, a una modificazione sostanziale dell’ente ecclesiastico per mutamento del fine».
Sullo stesso piano, A. Celli, Amministrazione dell’ente ecclesiastico: prevenzione e gestione delle criticità. Procedure concorsuali, in P. Clementi e L. Simonelli (a cura di), L’ente ecclesiastico, cit., 292 e in Conferenza Episcopale Italiana, Temi, cit., seminario tenutosi in Roma, 15 ottobre 2013, pag. 10, il quale, premettendo che le attività diverse da quelle religiose e cultuali «possono definirsi come attività possibili, il cui divieto all’esercizio per gli enti ecclesiastici risulterebbe incostituzionale», stante l’art. 20 Cost., precisa che «certamente, qualora la concreta attività che l’ente svolge abbia caratteristiche, quantitative e qualitative, tali da far perdere a questo i requisiti originari suoi propri, mediante prevalenza assoluta delle sue attività profane, così da rendere marginale il suo fine religioso o la giustificazione della sua appartenenza alla Confessione, si ha uno snaturamento del proprio carattere ontologico; con conseguente possibile refluenza di segno negativo sulla sua qualificazione come ente ecclesiastico in entrambi gli ordinamenti».
In senso analogo, si esprime P. Clementi, La fiscalità dell’ente ecclesiastico, cit., pag. 305, la quale sottolinea proprio la relatività della presunzione per cui un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto rientri nella qualifica di Ente non commerciale, visto che essa «implica – evidentemente – che l’ente in questione mantenga la propria natura. Qualora, infatti, in un EECR venisse meno la finalità di religione o culto, il Ministero dell’interno – e non l’Amministrazione finanziaria – potrebbe revocare il riconoscimento di EECR; di conseguenza, non sarebbe più operante il quarto comma dell’articolo 149 e tornerebbero applicabili i criteri comuni per accertare la qualifica di ENC».
[17] Si veda Cass. civ., Sez. V, Sent. 14 gennaio 2021, cit., pag. 4, punto 3.2.
[18] Si veda Commissione Europea, Decisione 284/2012/UE, 19 dicembre 2012, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, 18 giugno 2013, L 166/43, punto 6.3, § 152.
[19] Si rinvia a Commissione Europea, ivi, L 166/44, punto 6.3, § 158.
[20] Cfr. Cass. civ., Sez. V, Sent. 14 gennaio 2021, cit., pagg. 5-6. Punti 3.3 e 3.4.
[21] Si veda Cass. civ., Sez. VI, ord. 13 dicembre 2016, n. 25586, la quale riprende l’indirizzo interpretativo dato in Agenzia Delle Entrate, Risoluzione 19 luglio 2015, n, 91/E, pag. 6, in cui si esponeva che «il requisito soggettivo non è sufficiente. La riduzione dell’imposta, infatti, può in concreto applicarsi solo in relazione alle attività dirette di culto e religione nonché a quelle diverse per le quali sia riconosciuto il nesso di strumentalità immediata e diretta».
Nello stesso senso, le medesime considerazioni erano state espresse da Cass. civ., Sez. I, sent. 29 marzo 1990, n. 2573, in Giust. civ., 1990, I, 2605, Motivi della decisione, nella quale si sostiene che un ente ecclesiastico può beneficiare della riduzione ai fini IRPEG «solo se l’attività da essi in concreto esercitata resti nell’ambito dei loro fini istituzionali tipici, esplicitamente determinati nello statuto, o, quanto meno, in ipotesi di attività non prevalente, si ponga in rapporto di strumentalità diretta ed immediata con quei fini». Tra l’altro, all’indomani di tale decisione, si è espresso, in maniera ancor più rigorosa, Cons. Stato, parere 8 ottobre 1991, n. 1296, che ribadisce l’insussistenza della sola natura soggettiva di un ente ecclesiastico per ottenere l’agevolazione IRPEG, dal momento che il beneficio fiscale, presentandosi come un’eccezione al principio di corrispondenza tra capacità contributiva e soggettività tributaria, deve essere ancorato alla preordinazione dell’attività, svolta concretamente dall’ente ecclesiastico, ai fini che il Legislatore ha reputato meritevoli di tutela.
Questa sentenza è stata richiamata in Cass. civ., Sez. I, sent. 08 marzo 1995, n. 2705, in Foro it., 1995, I, 3511, Motivi della decisione, nella quale è stato affermato che, per un caso di accertamento ai fini IRPEG, «la sola natura del soggetto non è però sufficiente per l’attribuzione dell’esenzione. […] pur se tali soggetti sono identificati e qualificati in base ai fini che istituzionalmente perseguono, occorre che l’attività commerciale svolta sia, con quel fine, in un rapporto di strumentalità diretta ed immediata. Tale rapporto di strumentalità deve essere accertato dal giudice del merito – ed il relativo accertamento, ove, come nella specie, sia logicamente e congruamente motivato è incensurabile in sede di legittimità – sicché lo stesso viene ad essere correttamente escluso quando si tratta di attività volta al procacciamento di mezzi economici, ove, per l’intrinseca natura di essa o per la sua estraneità rispetto al fine, non sia con esso coerente, in quanto indifferentemente utilizzabile per il perseguimento di qualsiasi altro fine; quando, cioè, si tratti di un’attività volta al procacciamento di mezzi economici da impiegare in un’ulteriore attività direttamente finalizzata, quest’ultima, al raggiungimento dei fini istituzionali. Dare esclusivo rilievo ai predetti fini si risolverebbe in un’incontrollabile estensione dell’agevolazione tributaria contro il carattere eccezionale di essa e nella possibilità, per il soggetto, di precostituirsi il regime fiscale più conveniente in contrasto con il principio di effettività dell’imposizione tributaria».
Dello stesso tenore Cass. civ., Sez. I, sent. 15 febbraio 1995, n. 1633, in Fisco, 1995, 3872; Comm. trib., 1995, II, 507, per cui, sempre in tema di riduzione dell’aliquota IRPEG a favore degli enti che perseguono fini religiosi o cultuali, «non è sufficiente che detti enti siano sorti con tali enunciati fini, ma occorre altresì accertare l’attività in concreto esercitata dagli enti medesimi (come descritta nell’atto costitutivo, con precisa indicazione dell’oggetto, ovvero, in difetto, come effettivamente svolta) non abbia carattere commerciale, in via esclusiva o principale, e, inoltre, in presenza di un’attività commerciale di tipo non prevalente […], che la stessa sia in rapporto di strumentalità diretta ed immediata con quei fini di religione e di culto, e quindi, non si limiti a perseguire il procacciamento dei mezzi economici al riguardo occorrenti (dovendo altrimenti essere classificata come «attività diversa», soggetta all’ordinaria tassazione)».
In materia di ICI, analoghe valutazioni sono state fatte nelle seguenti sentenze: Cass. civ., Sez. trib., 08 luglio 2015, n. 14226, in Foro it., 2015, I, 3157; Bollettino trib., 2016, 145, n. Righi; Cass. civ., Sez. trib., 08 luglio 2016, n. 13970, in Mass., 2016, 473; Cass. civ., Sez. VI, ord. 03 maggio 2017, n. 10754, in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 766; Cass. civ., Sez. trib., ord. 15 marzo 2019, n. 7415, in Quaderni dir. e politica ecclesiastica, 2019, 716, n. Elefante.
In materia di IRES, lo stesso principio è stato richiamato in Cass. civ., sez. trib., 02 ottobre 2013, n. 22493, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 733, n. Castaldi.
In giurisprudenza di merito, si veda Commissione Trib. Reg. Lazio, Sez. VI, sent. 10 luglio 2017, n. 4134, in Mass. Nazionale Giur. Merito, pagg. 136-137, in cui ha trovato conferma l’orientamento dei Giudici di legittimità.
In dottrina, un giudizio critico a tale linea interpretativa è espresso in F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., pag. 414: «Riteniamo infatti che, distinguendo fra strumentalità immediata e mediata, si finisca in un bizantinismo giuridico, di cui si fa eco la stessa Risoluzione». Questo sarebbe dovuto al fatto che la Risoluzione ha previamente tracciato una distinzione tra attività spirituali ed attività corporali dell’ente che ha richiesto il parere, concludendo che soltanto le prime sarebbero esenti, in virtù del loro nesso di strumentalità diretta ed immediata con il fine di religione e di culto dell’ente. Secondo l’Autore, dato che le sole attività corporali possono produrre reddito, è logico che il Legislatore tributario abbia inteso riferirsi solamente a queste, dimodoché «non accogliere questa interpretazione significa ritenere che il legislatore ha dettato una norma perlomeno inutile perché, tautologicamente, prevederebbe un’esenzione per attività che non sono comunque produttive di reddito».
Parimenti, si pone in senso critico L. Castaldi, L‘(in)applicazione dell’aliquota IRES dimezzata agli enti aventi fini di religione e di culto e i rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario (nota a Cass. civ., sez. trib., 02 ottobre 2013, n. 22493), in Riv. trim. dir. trib., 2014, pagg. 733 e ss., in quanto «su un piano squisitamente logico, non è dato comprendere perché l’astratta suscettibilità di una determinata attività ad essere utilizzata per il perseguimento (anche) di fini diversi da quelli di religione e di culto sia indice indefettibile di sua incoerenza rispetto al perseguimento di questi ultimi; come pure sfugge perché la medesima circostanza denoti per ciò solo la funzionalizzazione dell’attività al mero procacciamento di mezzi economici da parte dell’ente. […] La Corte, infatti, modifica chiaramente il referente/destinatario della misura fiscale contemplata dalla norma [art. 6, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 601/1973]: non più il soggetto (l’ente) ma l’oggetto (l’attività). […] Con l’ulteriore bizzarro risultato […] che l’aliquota IRES dimezzata piuttosto che applicarsi (o non applicarsi) all’imponibile complessivo dell’ente, come disposto dall’art. 77 TUIR, finisca destinata a segmentata e atomistica applicazione, se del caso, con riguardo ai risultati reddituali parziali delle (sole) specifiche attività tipicamente di religione e di culto e a quelle relativamente alle quali sia predicabile il suddetto requisito di strumentalità immediata e diretta. E ferma rimanendo l’aggravante della difficoltà anche solo ad immaginare quali mai possano essere in concreto le attività […] connesse in chiave di strumentalità diretta e immediata con le prime. […] A nostro modo di vedere, il vero snodo teorico da approfondire per evitare che la previsione legislativa in questione, per come è ad oggi interpretata, finisca in prospettiva applicativa per mettere capo a risultati irragionevoli o evidentemente sperequativi, dovrebbe passare tutto attraverso una seria e ponderata rimeditazione dei margini concettuali dell’impresa e della commercialità fiscale […], tenendo in debito conto talune specificità organizzativo-gestionali proprie degli enti religiosi […], la matrice comunitaria che, in nome dei principi di libero mercato e di concorrenzialità, tende progressivamente a dilatare i confini di entrambe le nozioni (di commercialità e di impresa), […] i fenomeni di interferenza e di osmosi tra pubblico e privato che vengono a moltiplicarsi in settori – quali in particolare quelli concernenti l’erogazione di servizi essenziali alla collettività come l’istruzione, l’assistenza sociale e sociosanitaria, la cultura – che vedono impegnati in prima linea proprio gli enti di cui si discorre in questa sede».
[22] Si veda Cass. civ., Sez. V, Sent. 14 gennaio 2021, cit., pag. 6, punto 4.3.
Come nota la Corte Suprema di Cassazione, nella sentenza in parola, i Giudici di merito incorsero in errore sulla natura, civile e fiscale, dell’ente ricorrente, giungendo, così, ad una conclusione contraddittoria. Infatti, nei primi due gradi di giudizio, si ritenne che l’Istituto religioso avesse perso la qualifica di Ente non commerciale a causa dello sforamento dei parametri ex art. 149, co. 2, TUIR, alla stregua di quanto risultasse dagli atti presentati dall’Istituto con riferimento all’anno 2004: si veda Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, Sezione distaccata di Messina, n. 131/27/2013, cit., pag. 2, in cui è ribadito che «per quanto riguarda il mancato riconoscimento della qualifica di Ente non commerciale dell’Istituto Religioso, questo Collegio condivide sia sotto il profilo giuridico che normativo quanto deciso dai Giudici di primo grado, che non lo hanno ritenuto Ente Ecclesiastico non economico, stante quanto è dato rilevare dallo stesso Statuto dell’Istituto». Tuttavia, gli stessi Giudici di merito, dopo aver negato la natura di Ente non commerciale, ritennero violati gli artt. 143 e ss. TUIR, destinati proprio alla disciplina tributaria degli «Enti non commerciali residenti»: su questo punto, la Corte ha ravvisato la contraddizione, rilevando che «se, dunque, l’ente ecclesiastico non è ente non commerciale non potevano ad esso applicarsi queste disposizioni specifiche dettate proprio per gli “enti non commerciali”» (punto 4.2, cpv.)
[23] Si veda Cass. civ., Sez. V, Sent. 14 gennaio 2021, cit., pag. 8, punto 4.6, cpv. 3, e punto 4.8.
Per indicazioni pratiche sulle diverse tipologie con cui gli obblighi fiscali possono essere adempiuti, si rinvia a M. Gelmetti, Adempimenti contabili per gli enti non commerciali ed obbligo di rendicontazione, in Enti non profit, 2, 2012, pagg. 10-16.
[24] Sul tema, cfr. P. Clementi, La fiscalità dell’ente ecclesiastico, cit., pag. 332, nota 80, in cui si dà sinteticamente conto del quadro normativo di riferimento, negli stessi termini di quanto compiuto dalla Corte nella sentenza in commento.
A proposito, indicazioni pratiche vengono fornite in G. M. Colombo, Regime fiscale e contabile dei contributi pubblici ad enti non commerciali, in Enti non profit, 12, 2007, pag. 740, secondo cui «questa verifica deve essere fatta avendo presenti, oltre a quanto previsto dall’art. 55 del TUIR (esercizio di impresa) anche le eccezioni previste dalla legge rispetto alla regola generale», come avviene all’art. 143, co. 1, ult. cpv., e all’art. 148, co. 3, TUIR, «i quali prevedono, a determinate condizioni, la decommercializzazione delle attività svolte dagli enti non commerciali in generale». Si rinvia, altresì, a Id., La contabilità fiscale degli enti non commerciali, in Corr. trib, 2010, pagg. 2526 e ss.
[25] Si veda Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, Sezione distaccata di Messina, n. 131/27/2013, cit.
[26] In effetti, Cass. civ., Sez. V, Sent. 14 gennaio 2021, cit., pag. 7, punto 4.5, cpv. 2, sottolinea che «da questo errore, poi, si sono verificati tutti gli ulteriori errori a catena, con riferimento alla indicazione dei “contributi pubblici” tra redditi di impresa, trattandosi, invece, di redditi esenti ai sensi dell’art. 143 Tuir, comma 3, lett. b».
Sul tema della contabilità dei contributi pubblici, indicazioni di carattere pratico sono enucleate in G. M. Colombo, Regime fiscale e contabile dei contributi pubblici ad enti non commerciali, cit., pagg. 741-743.
[27] Si veda Cass. civ., Sez. V, Sent. 14 gennaio 2021, cit., pag. 7, punto 4.4, cpv. 3: «È evidente la violazione di legge […], perché questa Corte ha ritenuto che il requisito della contabilità separata non richiede la predisposizione di due distinti e completi bilanci di esercizio».
[28] In argomento, nella sentenza in commento, la Corte richiama i proprio precedenti, in cui si è trovata ad affrontare questioni analoghe. Nel dettaglio, in Cass. civ., Sez. trib., 03 luglio 2015, n. 13751, Motivi della decisione, si sostiene che «pure a fronte della contabilità unica (integrata) è sempre possibile separare la sfera di attività commerciale dalla sfera di attività istituzionale allo scopo di farne confluire il risultato in dichiarazione. La separazione invero può avvenire oltre che mediante l’adozione di due sistemi contabili (tale è l’effetto dell’obbligo di contabilità separata di cui all’articolo 144, comma 2 Testo UnicoI.R.) anche mediante l’individuazione di appositi conti o sottoconti in seno alle risultanze contabili complessive dell’ente, conti o sottoconti evidenzianti la natura della posta contabile sottesa».
In seguito, lo stesso principio giuridico viene affermato in Cass. civ., Sez. trib., 14 luglio 2017, n. 17454.
[29] L’Agenzia Delle Entrate, Risoluzione 13 marzo 2002, n. 86/E, Quesito n. 7, tenendo in conto dell’intento della legge di «rendere più trasparente la contabilità commerciale degli enti non commerciali ed evitare ogni commistione con l’attività istituzionale», considera, ad ogni modo, congruo allo scopo «la tenuta di un unico impianto contabile e di un unico piano dei conti, strutturato in modo da poter individuare in ogni momento le voci destinate all’attività istituzionale e quelle destinate all’attività commerciale». Così, «la tenuta di una contabilità separata non prevede, infatti, l’istituzione di un libro giornale e un piano dei conti separato per ogni attività, essendo sufficiente un piano dei conti, dettagliato nelle singole voci, che permetta di distinguere le diverse movimentazioni relative ad ogni attività».
[30] Si veda Cass. civ., Sez. V, Sent. 14 gennaio 2021, cit., pag. 8, punto 4.6, cpv. 5.
[31] In particolare, l’art. 79 D.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (c.d. Codice del Terzo settore) indica una serie di ipotesi di non commercialità, individuate mediante un «criterio formale relativo alle finalità di utilità sociale dell’attività svolta» nonché attraverso dei «criteri sostanziali, relativi alle concrete modalità di esercizio dell’attività stessa»: si veda G. Sepio, Il nuovo diritto tributario del Terzo settore, in A. Fici (a cura di), La riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale. Una introduzione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, pagg. 163-164. Ad ogni modo, la disciplina del TUIR sugli enti non commerciali continuerà a trovar applicazione per quegli enti del Terzo settore che decideranno di non iscriversi al Registro Unico Nazionale del Terzo settore (RUNTS).
[32] Per un approfondimento sul regime fiscale degli enti del Terzo settore, si rinvia a G. Sepio, Regime tributario unificato per tutto il mondo non profit, in Il Sole 24 Ore – Focus norme e tributi, 12 luglio 2017; G. Sepio e F. M. Silvetti, La (non) commercialità degli enti nel nuovo Codice del Terzo Settore, in il fisco, 38, 2017; A. Mazzullo, Il nuovo Codice del Terzo Settore. Profili civilistici e tributari, Giappichelli Editore, Torino, 2017, pagg. 222 e ss.; M. Ceolin, Il c.d. Codice del Terzo settore (D.LGS. 3 luglio 2017, n. 117): un’occasione mancata?, in Le nuove leggi, 1, 2018, pagg. 23 e ss.; G. Girelli, Il regime fiscale del Terzo settore, in M. Gorgoni (a cura di), Il Codice del Terzo settore. Commento al Decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, Pacini Giuridica, Ospedaletto (Pisa), 2018, pagg. 398 e ss.; Sul punto, si rinvia ad A. Fatarella e F. M. Silvetti, Riforma del Terzo Settore e controlli sugli enti non profit, in il fisco, 3, 2018, pagg. 250 e ss.; V. Ficari, Prime osservazioni sulla ‘fiscalità’ degli enti del terzo settore e delle imprese sociali, in Riv. trim. dir. trib., 1, 2018, pagg. 57 e ss.; G. Sepio, Il sistema tributario del Terzo Settore nell’ambito delle prospettive disegnate dalla riforma, in A. Fici, E. Rossi, G. Sepio, P. Venturi, Dalla parte del Terzo settore. La riforma letta dai suoi protagonisti, Editori Laterza, Bari-Roma, 2019, pagg. 128 e ss.; G. Sepio, I criteri di qualificazione fiscale delle attività di interesse generale svolte dagli enti del Terzo settore, in Riv. dir. trib., 2019; A. Perego, Enti religiosi, cit.; G. M. Colombo, ETS: enti commerciali o enti non commerciali?, in Enti non profit, 1, 2020, pagg. 23-27.
[33] A riguardo, si veda L. Bagnoli, La rendicontazione economica e sociale negli enti del Terzo settore, in A. Fici (a cura di), La riforma del Terzo settore e dell’impresa sociale. Una introduzione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, pagg. 205-206.
Nello specifico, le linee guida sulle apposite scritture contabili da adottare da parte degli enti del Terzo settore, sulla base delle loro dimensioni, si rinvia al Decreto attuativo 5 marzo 2020, come rettificato successivamente dal Decreto 12 maggio 2020, emanato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Sul punto, osservazioni sono state fatte da M. Pozzoli, Il bilancio degli enti del Terzo settore. Una prima analisi del decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 5 marzo 2020, Fondazione Nazionale dei Commercialisti, 2020.
Nato il 23 febbraio 1993 a Roma, città che ha sintetizzato il mio crogiolo di origini, che vanno dalle Marche, passando per Rieti, fino a giungere alle comunità Arbëreshë di Calabria.
Affascinato dalla politica, dalla psicologia e dall’umano senso di Giustizia, ho intrapreso gli studi giuridici all’Università degli Studi “Roma Tre” per comprendere i risvolti del potere, i suoi vincoli e le risposte alla non sempre facile convivenza civile.
Sono volontario in varie associazioni, anche in campo legale.
Da febbraio 2017 svolgo l’attività di tutor con le cattedre di “Informatica giuridica e logica giuridica (aspetti applicativi)” e di “Documentazione, comunicazione giuridica e processo civile”, tenute dal Prof. Maurizio Converso.
Da marzo 2019 inizio a collaborare con la Rivista giuridica Ius in itinere, contribuendo a scrivere articoli divulgativi per l’area di Diritto costituzionale. In particolare, mi soffermo sulle tematiche connesse al campo del lavoro, delle nuove tecnologie e del c.d. Terzo settore.