La Corte di Cassazione sul tema della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa
Con sentenza 22 settembre 2020 n. 26509 la Sezione V penale della Corte di Cassazione si è pronunciata in relazione al reato di diffamazione commesso a mezzo stampa per il quale era stata inflitta una pena detentiva al direttore responsabile di una testata giornalistica. Nello specifico, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro, con cui si confermava la condanna pronunciata dal Tribunale a otto mesi di reclusione per diffamazione aggravata a mezzo stampa commessa ai danni di alcuni membri del corpo dei Carabinieri.
Preliminarmente, la Cassazione ha confermato l’insussistenza della scriminante relativa all’esercizio del diritto di cronaca, per mancanza del requisito della verità della notizia. In particolare, accanto ad informazioni veritiere, nell’articolo era stato inserito il resoconto di accadimenti falsi, frutto di ipotesi e di congetture non suffragate da alcuna fonte attendibile, con conseguente inapplicabilità della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.
La Corte accoglie invece il motivo del ricorso concernente il trattamento sanzionatorio di tipo detentivo. Al riguardo, viene richiamata la recente ordinanza n. 132/2020 con cui la Consulta si è pronunciata sulle questioni di costituzionalità degli artt. 595 co. 3 c.p. e 13 l. 8 febbraio 1948, n. 47 riguardanti la previsione alternativa o cumulativa della pena detentiva accanto a quella pecuniaria per la diffamazione aggravata a mezzo stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato[1]. In tale decisione, in un’ottica di leale collaborazione istituzionale, la Corte Costituzionale ha utilizzato la tecnica del rinvio della decisione associato ad un monito al legislatore. La questione di legittimità costituzionale sarà trattata all’udienza del 22.06.21, termine ultimo per l’intervento dell’auspicata novella legislativa. Si ricorda che la ricerca di un dialogo con il Parlamento non costituisce una novità, essendo uno strumento già utilizzato dalla Consulta nel caso dell’ordinanza n. 207/2018 in tema di incriminazione delle condotte di aiuto al suicidio ai sensi dell’art. 580 c.p.
Rispetto alla previsione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa, la Consulta ha rilevato profili di incostituzionalità, anche per incompatibilità convenzionale in forza del combinato disposto degli artt. 117 Cost. e 10 Cedu.
Nel 2004, nella sentenza Cumpn e Mazre c. Romania, la Grande Camera della Corte EDU ha ritenuto che l’irrogazione di una pena detentiva di sette mesi di reclusione non sospesa costituisse un’ingerenza sproporzionata dello Stato nel diritto alla libertà di espressione. La tutela della reputazione individuale deve infatti essere bilanciata con l’esigenza di non dissuadere indebitamente lo svolgimento dell’attività di informazione pubblica da parte dei giornalisti. La libertà di espressione costituisce il ‘cane da guardia’ (watch dog) della democrazia, pertanto la pena detentiva può essere applicata solo in circostanze eccezionali, quali i casi di istigazione alla violenza o diffusione di discorsi d’odio (hate speech). Sulla base di questi presupposti, gli Stati dispongono di un ristretto margine di apprezzamento per la predisposizione di pene limitative della libertà dei giornalisti, come si può anche rilevare sulla base di numerosi documenti emessi dagli organi politici del Consiglio d’Europa.[2]
Gli stessi principi sono stati ribaditi nelle sentenze Belpietro c. Italia (2013) e Sallusti c. Italia (2019), in cui si conferma la possibilità di prevedere ipotesi di responsabilità penale in capo a giornalisti in caso di offese alla reputazione altrui. Tuttavia, l’inflizione di una pena detentiva appare sproporzionata, ancorché condizionalmente sospesa o cancellata da un provvedimento di grazia. Tale pena può essere prevista solo in ipotesi eccezionali, segnatamente in caso di una seria lesione ad altri diritti fondamentali.
Quanto al quadro costituzionale, la Corte Costituzionale ha ricordato che il diritto di manifestazione libera del pensiero garantito dall’art. 21 Cost. costituisce una pietra angolare dell’ordine democratico e che in tale ambito si colloca la libertà di stampa. Da una parte, la libertà di espressione del giornalista consente di attuare il diritto all’informazione dei cittadini, assicurando il pluralismo delle fonti informative. Dall’altra parte, occorre tutelare la reputazione individuale, diritto inviolabile di cui all’art. 2 Cost. e componente essenziale del diritto alla vita privata previsto dall’art. 8 Cedu.
Il cuore del problema è quello di trovare un punto di equilibrio tra diritti di pari rango, avuto riguardo ai vincoli derivanti dalla giurisprudenza di Strasburgo. La Corte Costituzionale si è quindi astenuta del dichiarare tout court l’incostituzionalità del regime sanzionatorio attualmente previsto per il reato di diffamazione a mezzo stampa. In primo luogo, si considera che il bilanciamento delle contrapposte esigenze di tutela di interessi costituzionali e la modulazione della disciplina repressiva rientrino nell’esercizio della discrezionalità legislativa.
Inoltre, una pronuncia di incostituzionalità rischierebbe di lasciare sprovvisto di sanzione penale il diritto alla tutela effettiva della reputazione. Al riguardo, la Consulta sottolinea che i mezzi di comunicazione di massa rendono oggi possibile una rapida e incontrollata diffusione degli addebiti diffamatori e in tale contesto rientra tra i compiti del legislatore predisporre un trattamento sanzionatorio sufficientemente dissuasivo. La Consulta indica espressamente come possibili sanzioni l’introduzione di rimedi civilistici quale la rettifica e misure di carattere disciplinare. Il ricorso alla pena della reclusione deve essere limitato alle condotte connotate da particolare disvalore e gravità da un punto di vista oggettivo e soggettivo, quali messaggi che istighino alla violenza o messaggi d’odio. Da quanto precede, emerge che le linee direttrici tracciate dal Giudice delle leggi costituiscono un limite a un eventuale futuro intervento del Parlamento, al fine di rendere la legislazione interna compatibile con il regime convenzionale di tutela della libertà di espressione delineato dalla Corte EDU.
Dopo aver così ripercorso le argomentazioni della Consulta, nel caso di specie, la Corte di Cassazione rileva che il quadro sanzionatorio è ancora immutato, non essendo intervenuto medio tempore il legislatore con una nuova disciplina. Pertanto, la scelta circa l’irrogazione della pena detentiva deve essere subordinata a un attento vaglio della portata delle condotte diffamatorie addebitate all’imputato. La valutazione circa l’eventuale eccezionale gravità del fatto è rimessa al giudice di merito, il quale, in caso di esito negativo, dovrà in sede di rinvio rimodulare il trattamento sanzionatorio d’ufficio, ai sensi dell’art. 597 cpv. c.p.p.
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[1] C. Cost. n. 132/2020, disponibile al link https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2020&numero=132 (ultimo accesso 31.01.21).
[2] In tema di detenzione dei giornalisti, si veda, ad esempio, il Parere n. 716/2016 sulla legislazione italiana relativa alla diffamazione adottato nel 2013 dalla Commissione di Venezia, disponibile al link https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2013)038-f (ultimo accesso 31.01.21). SI veda anche la Risoluzione 1920/2013 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa su Lo Stato delle libertà dei media in Europa disponibile al link http://www.europeanrights.eu/public/atti/1920_fr.pdf .