La Nuova Via della Seta: un’iniziativa economica di Pechino
All’indomani della firma del Memorandum d’intesa tra Italia e Cina dello scorso 22 marzo, l’argomento è molto attuale ma occorre comprendere da dove nasca l’esigenza della Cina di espandere i propri orizzonti globali, ripescando un’antica via commerciale.
Ovviamente, bisognerà tracciare una cornice geopolitica e geoeconomica nonché analizzare nel dettaglio l’importante Memorandum tra Roma e Pechino e, infine, si dovranno delineare i profili critici delle economie occidentali.
Gli albori della Via della seta
Nel settembre 2013, durante la sua visita in Kazakistan, il presidente cinese Xi Jinping chiese l’istituzione di un nuovo modello di cooperazione regionale, annunciando al mondo la “Silk Road Economic Belt “. Un mese dopo, in Indonesia, chiese la predisposizione della Banca asiatica per lo sviluppo delle infrastrutture (AIIB) e la costruzione della “21st Century Maritime Silk Road“.
Ufficialmente, queste proposte prendono il nome di “One Belt & One Road Initiative” (OBOR) o “Belt & Road Initiative” (BRI). Nel novembre 2013, il Comitato Centrale del Partito Comunista cinese ha inquadrato tale iniziativa in un vasto programma generale di riforma ed è una priorità politica chiave prima del 2020[1].
A livello pratico, ciò si è tradotto, nel marzo 2015, nell’adozione di piani dettagliati dei vari dipartimenti governativi per l’avvio del progetto[2].
L’obiettivo primario della Nuova Via della Seta è quello di creare un grande spazio economico eurasiatico integrato, ampliando i legami già esistenti con l’Unione Europea.
Più nel dettaglio, verranno realizzati sei corridoi di trasporto, via terra e via mare, che consentiranno alla Cina di diversificare le proprie rotte commerciali indirizzando il surplus produttivo verso nuovi mercati, di accedere a nuove fonti di approvvigionamento energetico e di espandere l’influenza politica ed economica.
Si tratta, soprattutto, di un programma di investimenti infrastrutturali che punta a sviluppare la connettività e la collaborazione tra la Cina e almeno altri 70 Paesi localizzati in un’area che rappresenta un terzo del PIL mondiale, racchiude almeno il 70% della popolazione e possiede oltre il 75% delle riserve energetiche globali[3].
Il Piano d’azione di Pechino prevede, nello specifico, due direttrici principali, seguendo l’antica Via della Seta.
Se da un lato, il corridoio terrestre si tradurrà nell’implementazione di sei corridoi economici per collegare i centri produttivi della Cina meridionale ai mercati europei tramite ferrovia attraversando l’Asia Centrale, il Kazakistan, la Russia, la Turchia e passando per il Pakistan , l’Iran e l’India, tramite il Sud-Est Asiatico.
Infatti, saranno costruiti un nuovo ponte terrestre eurasiatico ed una ferrovia internazionale per collegare la provincia cinese dello Jangsu a Rotterdam, il maggiore scalo portuale europeo.
Inoltre, si realizzerà il corridoio Cina – Mongolia – Russia con l’integrazione di ferrovie e autostrade nonché di facilitazione tariffarie. Ancora, saranno costituiti un collegamento Cina – Asia Centrale – Asia Occidentale dalla provincia cinese dello Xinjang fino alle coste del Mediterraneo e alla penisola arabica; un corridoio indocinese per congiungere i Paesi del Mekong.
Ancora, saranno realizzati il corridoio Cina – Pakistan e quello tra Bangladesh – Cina – India – Myanmar.
Dall’altro lato, la direttrice marittima, consentirà invece alle merci cinesi di raggiungere il Mediterraneo attraverso Suez – estendendosi fino alle coste dell’Africa Orientale e al Magreb ed il resto dell’Asia tramite il Mar Cinese meridionale[4].
In aggiunta alle due vi, il Governo cinese a gennaio 2018 ha annunciato l’intenzione a realizzare una Via della Seta polare, che si dovrebbe sviluppare lungo tre rotte attraverso l’Artico: un passaggio a nord-est, uno per il Mar Glaciale Artico e uno a nord-ovest.
Infine, al piano geo-strategico e commerciale, si aggiunge il dispositivo economico e finanziario.
In generale, la cornice finanziaria sarà la partnership pubblico – privata. Pechino, infatti, ha istituito il Silk Road Fund, uno strumento finanziario apposito per sostenere lo sviluppo infrastrutturale e il settore manifatturiero degli stati coinvolti. Al fondo, si aggiunge ovviamente il ruolo della AIIB, la cui dotazione ammonta a 100 miliardi di dollari.
Occorre annoverare che tra i Paesi fondatori figura anche l’Italia: è il quarto azionista europeo con una quota del 2,58% del capitale. Ed è qui che si innesta l’importanza strategica di Roma.
Il Memorandum d’intesa per la Nuova Via della Seta tra Roma e Pechino
Lo scorso 22 marzo, il premier Giuseppe Conte ha firmato un Memorandum d’Intesa con il presidente Xi Jinping.
Una stipula che non impegna concretamente e giuridicamente il governo italiano ma che, chiaramente, ha un’importante valenza politica: l’Italia è il primo paese del G7 nonché dell’Unione Europea a sottoscrivere un impegno con Pechino nell’ambito della Nuova Via della Seta. Si stima che esso valga almeno 7 miliardi di euro.
L’interesse di Roma non è nuovo: nel 2015, con il governo Renzi, l’Italia fu tra i 57 Paesi fondatori della Asian infrastructure investment bank, mentre nel maggio 2017, l’ex premier Gentiloni partecipò al forum della Nuova Via della Seta. E l’Italia fu l’unico Paese del G7 a parteciparvi.
A livello finanziario, l’Italia non è la meta europea preferita degli investitori cinesi. Essa figura al quarto posto, dopo Germania, Francia e Regno Unito per gli investimenti diretti esteri.
Tuttavia, è indubbio che l’interesse cinese per gli investimenti nel bel paese sia cresciuto dopo l’acquisizione della Pirelli nel 2015[5], la cui somma di acquisizione deriva per metà proprio dal Silk Road Fund.
Infatti, dal 2015, la Banca popolare cinese ha investito circa 3,5 miliardi di euro in azione nei maggiori istituti bancari italiani[6], nonché nei colossi dell’energia[7], nella Fiat Chrysler Automobiles, nella Telecom e nella Prysmian. Ciò è confermato dal rapporto del 2018 della Fondazione Italia-Cina, secondo cui oltre 600 aziende italiane hanno ricevuto investimenti cinesi per un valore complessivo di 13,7 miliardi di euro dal 2000[8].
Il Memorandum consta di sei paragrafi: dialogo sulle politiche; trasporti logistica e infrastrutture; commercio e investimenti senza ostacoli; collaborazione finanziaria; connettività people to people; cooperazione per lo sviluppo verde. Non è presente, invece, alcun riferimento all’infrastruttura strategica del 5G.
Il ruolo centrale è ovviamente quello delle infrastrutture[9] e, specialmente, dei porti di Genova e Trieste poiché hanno la capacità di attrarre e servire le grandi navi mercantili cinesi che raggiungono il Mar Mediterraneo dal Canale di Suez.
In effetti, la China Communications Construction Company, braccio operativo del Governo cinese sulle infrastrutture e dei due summenzionati porti italiani, ha predisposto un piano di azione per la costruzione di uno snodo ferroviario che colleghi Trieste alla Slovacchia, in cui sono già attivi altri progetti logistici della società stessa, nonché un sistema di porti interconnessi nell’Adriatico.
Un importante ruolo a margine dello sviluppo per le aziende italiane è in mano alla Cassa Depositi e Prestiti. Infatti, essa dovrà incaricarsi di raccogliere capitale da investitori istituzionali cinesi per finanziare le aziende italiane presenti nel Paese. I titoli saranno denominati in renmimbi e il relativo piano di emissione sarebbe in attesa dell’autorizzazione delle autorità cinesi.
Infine, non può tacersi il ruolo sullo sviluppo delle relazioni culturali e, di conseguenza, turistiche tra i due Stati: una semplificazione delle procedure per i visti, più voli e maggiore sicurezza per i turisti, accordi con Trenitalia e Aeroporto di Fiumicino, accordi universitari e cooperazione in materie UNESCO.
Le critiche alla Nuova Via della Seta
In occidente, specie negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, cresce l’inquietudine circa le reali intenzioni della Nuova Via della Seta.
Infatti si pensa che la Cina voglia immettere nei mercati occidentali merci ad un prezzo inferiore al costo di produzione. Ciò che metterebbe in ginocchio il settore manifatturiero in Europa[10].
Ancora, i policy – maker europei temono che Pechino voglia rivedere le regole globali sul commercio e gli investimenti, preoccupandosi che l’iniziativa cinese manchi di trasparenza e che le opache operazioni di finanziamento possano minacciare la competitività delle imprese europee.
Secondo quest’impostazione, le aziende cinesi ottengono contratti con scarso rispetto per le norme in materia di appalti pubblici. E ciò solleva la questione della reciprocità: mentre le aziende cinesi trovano un ambiente privilegiato in Europa, è a dir poco improbabile per un’azienda europea riuscire a vincere un contratto per costruire progetti infrastrutturali in Cina.
Inoltri, si richiede la conditio sine qua non secondo cui la produzione cinese deve avere una percentuale minima di componenti prodotte localmente, ciò che mette le imprese straniere in una posizione di svantaggio. Quindi, o si produce l’intera filiera in Cina o si rischia di perdere una bella fetta di mercato.
Infine, si discute se la Cina sia davvero o meno un’economia di mercato poiché la politica industriale interna gode di sussidi e accesso facilitato al credito, offrendo un vantaggio competitivo verso terzi.
Tale questione collega la politica industriale alla politica commerciale.
Secondo Pechino, nel dicembre 2016, i trattati di adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio dovevano far scattare automaticamente alla Cina la concessione dello status di economia di mercato, che renderebbe più difficile l’adozione di misure anti-dumping contro le merci cinesi.
Tuttavia, gli Stati Uniti e l’Unione Europea sostengono una diversa interpretazione avvalorando la tesi secondo cui la Cina non possa ritenersi un’economia di mercato, a causa del suo massiccio intervento pubblico. Le posizioni inconciliabili hanno spinto Pechino a denunciare Washington e Bruxelles per violazione degli obblighi assunti e ad aprire un caso presso l’OMC.
Se la posizione di Washington continua a sostenere la propria tesi, l’UE ha proposto una ridefinizione dei regolamenti antidumping europei che non riguarderanno lo status di economia di mercato.
Lo scontro è ancora in itinere ma l’Italia è il primo Paese NATO e dell’UE a situarsi in una posizione mediana tra Washington, Bruxelles e Pechino. Un ruolo delicato che potrebbe aprire interessanti fette di mercato ma, allo stesso tempo, generare dubbi tra gli alleati occidentali.
[1] Cfr Central Committee of the Communist Party of China (Central Committee) (2013)). Decision of the Central Committee of the Communist Party of China on some major issues concerning comprehensively deepening the reform. Third plenum of the 18th National Congress, November 2013, Beijing.
[2] Cfr National Development and Reform Commission (NDRC), & Foreign Ministry and Ministry of Commerce (with approval by the State Council) (2015n). Vision and action for jointly building the silk road Economic Belt and the 21st century maritime silk road. Bo’ao forum, March 2015, Hainan.
[3] Scott Kennedy and David A. Parker, “Building China’s ‘One Belt, One Road,’” Center for Strategic and International Studies, April 3, 2015, ; and Jacob Zenn, “Future Scenarios on the New Silk Road: Security, Strategy and the SCO,” China Brief 15, no. 6 (March 19, 2015), http://bit.ly/1BKwFub
[4] “Vision and Actions on Jointly Building Silk Road Economic Belt and 21st Century Maritime Silk Road” issued by the Ministry of Foreign Affairs and the Ministry of Commerce of the People’s Republic of China, March 2015
[5] Nicola Casarini, “Chinese Investments in Italy: Changing the Game?”, in John Seaman, Mikko Huotari, Miguel Otero-Iglesias (eds), Chinese Investment in Europe: A Country-level Approach, A Report by the European Think-tank Network on China (ETNC), Paris, French Institute of International Relations, December 2017, p. 81-86, https://www.ifri.org/en/node/13942.
[6] Monte dei Paschi di Siena, Unicredit, Intesa SanPaolo, Mediobanca, Generali assicurazioni.
[7] Saipem, Enel, Eni
[8] Centro Studi per l’Impresa Fondazione Italia-Cina (CeSIF), Cina. Scenari e prospettive per le imprese, July 2018, .
[9] Cfr
[10] Nicola Casarini, “When All Roads Lead to Beijing. Assessing China’s New Silk Road and its Implications for Europe”, in The International Spectator, Vol. 51, No. 4 (December 2016), p. 95-108.
Dottore in Studi Internazionali presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Appassionato di politica ed economia internazionale.