giovedì, Marzo 28, 2024
Di Robusta Costituzione

La Risoluzione del Parlamento Europeo sulla memoria e la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana: cosa c’è di nuovo per l’Italia?

La Risoluzione del Parlamento Europeo: 

 

In data 19 settembre 2019, il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione sull’«importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa».

Trattasi di una risoluzione controversa, immediatamente criticata da più parti: essa, infatti, in quanto sintesi di quattro diverse proposte provenienti da gruppi politici contrapposti[1], risulta essere effettivamente approssimativa, specie nella ricostruzione degli eventi storici e, di conseguenza, forse superficiale nel trarne talune conseguenze.

Non si tratterà, naturalmente, in questa sede delle questioni di opportunità del documento trattandosi, d’altra parte, di un atto politico del Parlamento, formulato con la discrezionalità che gli appartiene[2]. Si possono però certamente evidenziare le numerose criticità del documento, a partire da un lessico – almeno nella sua traduzione italiana – tutt’altro che istituzionale[3], nonché alcune ricostruzioni dei fatti storici fuorvianti, le quali hanno certamente influenzato le proposte giuridiche in esame.

L’assunto storico da cui parte l’analisi della risoluzione, infatti, è quello per cui il patto Molotov-Ribbentrop «ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale», dividendo l’Europa in due aree contrapposte e provocando, come diretta conseguenza, l’invasione della Polonia tanto da parte nazista quanto sovietica[4]. L’accuratezza storica di una simile descrizione dei fatti è quantomeno criticabile: per quanto riguarda l’’individuazione delle cause che hanno scatenato il conflitto. La storiografia moderna è infatti concorde nell’affermare come i paesi dell’Asse – Germania, Giappone e, con più esitazione, Italia – fossero paesi aggressori. Come affermato da Eric Hobsbawm, storico e autore de “Il Secolo breve”, infatti, le cause dello scoppio del conflitto vanno ricercate proprio nelle politiche estere aggressive e guerrafondaie di questi paesi, mentre “Gli stati capitalisti o socialisti trascinati nel conflitto non volevano una guerra e la maggior parte fece quello che poteva per evitarla[5]. Con riferimento alla posizione dell’URSS, invece, egli afferma che “negli anni ’30, mentre la guerra si avvicinava, la Gran Bretagna e la Francia non vollero allearsi con l’Unione Sovietica che, alla fine, preferì venire a patti con Hitler[6]: al tempo, dunque, lo scetticismo, pur comprensibile sul piano politico, nei confronti del governo staliniano, avrebbe portato quest’ultimo alla decisione di adottare un patto di non aggressione con la Germania nazista.

I redattori del documento discusso in Parlamento Europeo, al contrario, ritenendo il Patto del 23 agosto 1939 un’azione propedeutica all’invasione dell’Europa e finalizzata al comune «obiettivo di conquistare il mondo», imputano alla Russia moderna il perseguimento del medesimo scopo di dividere l’Europa tramite la «pericolosa guerra di informazione condotta contro l’Europa democratica», anche attraverso una certa forma di revisionismo sulle responsabilità storiche dei crimini sovietici[7].

 

Criticità

 

Per quanto concerne il nostro paese e gli effetti che questa risoluzione avrebbe nel nostro ordinamento, vi sono alcuni punti che meritano una più approfondita analisi:

  • La risoluzione “condanna tutte le manifestazioni e la diffusione di ideologie totalitarie, come il nazismo e lo stalinismo, all’interno dell’Unione”. Inoltre, al punto 17, essa “ricorda che alcuni paesi europei hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti”, aspettandosi evidentemente che altri seguano il loro esempio. Le parti discutibili di questi passi sono sostanzialmente due: innanzitutto, nella seconda affermazione, viene abbandonato il riferimento allo stalinismo – il quale, come fascismo e nazismo, è una forma storica ben precisa e delimitata nel tempo – a favore di un generico riferimento al comunismo, i cui simboli sono accostati a quelli nazisti. Vengono messe sullo stesso piano forme storiche e ideologie, usate indifferentemente come sinonimi – il che, di per sé, è già indice di una certa confusione – ma soprattutto la direzione, a partire dalla messa al bando dei simboli, sembra quella di una limitazione piuttosto radicale di ogni manifestazione di ideologia che abbia trovato, nelle sue realizzazioni compiute, profili totalitari.

Una tale limitazione della libertà di manifestazione del pensiero – specie di quello politico – sembra contrastare con il dettato costituzionale: infatti, come si vedrà, dell’ideologia è vietata dalla legge Scelba[8] l’esaltazione – in questo, sostanzialmente, consiste l’apologia – soltanto qualora essa sia idonea alla ricostituzione del disciolto Partito fascista, bandito dalla Costituzione; anche la legge Mancino, da parte sua, nel sostituire l’art. 3 della legge 654 del 1975[9], punisce con la reclusione chiunque “diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, vietando conseguentemente “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo” che condivida gli stessi scopi[10]: è vero che, tra le disposizioni di prevenzione, tale norma punisce anche “chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654”[11], ma – anche alla luce delle interpretazioni restrittive fornite dalla Corte Costituzionale relativamente alla legge Scelba[12] – si deve ritenere che il divieto sia comunque strettamente propedeutico alla dichiarata finalità di contrastare episodi di violenza e discriminazione[13]. Mentre fascismo e nazismo, dunque, sono forme storiche ben precise, quindi opportunamente possono essere vietate nelle loro manifestazioni – in quanto non si tratta, a ben vedere, di ideologie, ma di regimi con precisi confini storici, che hanno fatto proprie idee e ideologie preesistenti – comunismo, liberalismo, liberismo e finanche il nazionalismo conservatore, il quale indubbiamente ha caratterizzato sia l’epoca fascista che quella nazista e sovietica, almeno con riguardo alle politiche nazionaliste, possono essere sconfitti o superati sul piano politico, ma non certo vietati in quanto tali. Forse i parlamentari europei, in questo frangente, si sono lasciati fuorviare da una concezione negativa dell’ideologia, diffusa nel sentire sociale, ma in ogni caso sbagliata: si tratta, infatti, di nient’altro che dell’idea che ciascuno ha del vivere civile applicata all’azione politica, la quale è sempre auspicabile e, entro certi limiti, doverosa da parte del cittadino.

  • Nel punto 8 si esprime la necessità di “sensibilizzare le generazioni più giovani su questi temi inserendo la storia e l’analisi delle conseguenze dei regimi totalitari nei programmi didattici e nei libri di testo di tutte le scuole dell’Unione”. La lettura di questa disposizione, unitamente al punto 5, in cui il Parlamento “invita tutti gli Stati membri dell’UE a formulare una valutazione chiara e fondata su principi riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista”, però, potrebbe suggerirne un’interpretazione particolarmente restrittiva, specie considerando che tale valutazione storica – che il punto 5 prudentemente non specifica – emerge con forza da altre parti della medesima risoluzione[14], che come si è visto, esprimono delle posizioni non certo inconfutabili. Si tratta certamente di una previsione border line, della quale bisogna escludere un’interpretazione volta a suggerire un’analisi storica unica, in seno all’Unione, la quale debba poi trovare riscontro nei libri scolastici. È cosa molto diversa, naturalmente, richiedere una semplice attenzione a eventuali revisionismi, ed in tal modo è sicuramente possibile interpretare positivamente – pur con una certa distanza dalla formulazione letterale e, forse, dagli intenti – queste ultime previsioni, anche alla luce di quanto espresso nel punto 7 della stessa risoluzione.
  • Al punto 18, infine, il Parlamento “osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale, nonché alla propagazione di regimi politici totalitari”. Qui si tocca un altro tema estremamente delicato: al di là dell’intestazione di strade e piazze, che è comprensibile dipenda dalla sensibilità e dal vissuto di ogni Nazione, per quanto riguarda i monumenti è necessario prendere in considerazione, nel bilanciamento degli interessi, anche il patrimonio storico e culturale. L’art. 9 della Costituzione, infatti, al secondo comma dichiara che la repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Il patrimonio tutelato è fuor di dubbio sia quello immateriale, specie con riferimento al patrimonio storico, sia, in questo caso, il patrimonio fisico dei beni culturali, che consta di architetture, monumenti, dipinti. In particolare, si discute non tanto del valore economico dei beni in questione, bensì del valore culturale e storico di un Paese, non ultima – anzi – l’esigenza proprio di conservare la memoria del passato. Passato il momento di guerra o di resistenza armata, infatti, durante il quale è comprensibile che i simboli del precedente regime possano venire distrutti dalla folla, la democrazia possiede i mezzi per conservare intatta la memoria e, perché no, la bellezza di alcuni monumenti o parti di edifici che appartengono senza dubbio al patrimonio culturale del Paese. È da escludere, infatti, che da tale risoluzione possa trarsi un suggerimento – meno ancora un obbligo, di avviare un processo simile alla c.d. «decomunistizzazione» dell’Ucraina, in seno alla quale il governo di Kiev ha ordinato di distruggere, nel corso del 2016, ben 1320 statue di Lenin[15]. Al contrario, in Italia, escluse le rivendicazioni simboliche sul finire della guerra, i monumenti fascisti sono stati conservati con il rispetto dovuto ad una pagina di storia, pur condannata senza appello dalla stessa Costituzione, e al patrimonio culturale.

 

Cenni di storia costituzionale dell’Europa e dell’Italia repubblicana

 

Si deve anzitutto ricordare che l’idea di un’unione non solo giuridica, ma politica dell’Unione Europea, già allora più vocata ai diritti civili e sociali rispetto all’Europa delle origini, derivata dalla CECA e incentrata piuttosto sul libero scambio, è frutto delle riflessioni di alcuni tra gli esiliati di Ventotene, antifascisti, ma di vario orientamento, tra cui si può ricordare, in particolare, Altiero Spinelli, che fu candidato ed eletto al Parlamento europeo – pur come autonomo, essendosi nel frattempo avvicinato a posizioni più liberali – nelle liste comuniste.

Oggi, all’interno dell’Unione, si contano Paesi di provenienza sovietica e altri che hanno subito maggiormente l’intransigenza staliniana; ma non appare particolarmente utile, né garanzia di miglior successo nel proposito anti-dittatoriale che anima simili previsioni rispetto agli strumenti propri delle moderne democrazie, pretendere quale presupposto il generale ripudio di ogni ideologia. Più coerente, senza dubbio, è la Costituzione italiana, dal momento che si limita ad escludere radicalmente la possibilità di un nuovo totalitarismo, tramite la previsione dell’art. 139, assumendo poi alcune contromisure nei confronti della forma storica con cui in Italia si è concretizzato[16], ma non costringe a rinnegare alcuna ideologia o il sostegno a questa o quella forza politica, a favore di un modello di democrazia protetta e, dunque, vincolata entro limiti più ristretti.

Se L’UE ambisce finalmente all’integrazione politica, è necessario che – stante pure la radice ordo-liberale che ne caratterizza l’impianto economico[17] – essa valorizzi anche le storie dei vari Paesi membri e dei relativi partiti storici senza, dunque, la pretesa di assumere per via legislativa posizioni generalizzate e valide per tutti su eventi che appartengono al passato.

La Costituzione della Repubblica italiana, in particolare, nasce dal patto storico tra le forze cattoliche e quelle social-comuniste, con un apporto numericamente marginale delle forze liberali[18] e, per quanto riguarda i diritti sociali, spesso in opposizione ad esse. Rimane, al contrario, esclusa totalmente qualunque forza politica di ispirazione o di origine fascista. È quindi importante tenere in considerazione il contesto storico-politico che ha originato la Costituzione italiana: l’influenza di queste radici, infatti, è riscontrabile in numerose parti delle discussioni dell’Assemblea Costituente, tra le quali uno degli esempi in questo senso più espliciti è offerto da Togliatti, il quale, con riferimento all’articolo 2, dichiara, concordemente con il c.d. fondamento personalistico mediato dal materialismo storico marxista, che in fondo lo Stato è soltanto una forma storica di passaggio[19], per cui il destinatario ultimo di ogni previsione è pur sempre il cittadino[20]. I Principi fondamentali della Costituzione italiana, dunque, hanno radici salde in entrambe queste culture.

Lo stesso presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, pochi giorni dopo l’approvazione di detta risoluzione, riconoscendo al Partito comunista italiano il ruolo nella “rinascita democratica del nostro Paese” e nel “consolidamento delle istituzioni repubblicane”, definisce l’accostamento di una precisa forma storica come il nazismo e un’ideologia da sempre presente anche nella storia democratica europea come il comunismo ”un’operazione intellettualmente confusa e politicamente scorretta[21].

I Padri costituenti, al contrario, come afferma Vigevani, hanno inteso predisporre un “disegno complessivo di lungo periodo, che mirava appunto a realizzare un sistema politico aperto e tollerante, all’interno del quale potessero competere tutti coloro che accettano il metodo della democrazia, ma non necessariamente i contenuti e i valori”[22].

 

La XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione

 

La Costituzione “nata dalla Resistenza”, dunque dall’opposizione radicale e trasversale al nazifascismo, dedica al tema una previsione apposita, e cioè la XII disposizione transitoria e finale – che consolidata dottrina considera soltanto finale[23] – la quale recita: “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.

La formulazione testuale di questa norma, come vedremo, deriva da una specifica preoccupazione di Togliatti. A partire da una proposta di Basso, infatti, si ragionava di prevedere un generale requisito di democraticità dei partiti; così fu Togliatti, probabilmente preoccupato di una possibile esclusione ex lege dei comunisti dalla politica parlamentare, a replicare che un partito antidemocratico, quale ad esempio un partito anarchico, “dovrebbe essere combattuto sul terreno della competizione politica democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee, ma non si potrà negargli il diritto di esistere e di svilupparsi[24]. Contestualmente, l’allora segretario del PCI propose “che si [dicesse] proibita, in qualsiasi forma, la riorganizzazione di un partito fascista, perché si [doveva] escludere dalla democrazia chi [avesse] manifestato di essere il suo nemico” e fu questa dicitura, ad essere approvata, con poche modifiche, all’unanimità.

Si deve evidenziare, dunque, una comune volontà di circoscrivere il divieto al solo partito fascista, con esclusione di qualunque altra formazione politica, assecondando una visione storicizzata del fascismo e, soprattutto, dimostrando estrema fiducia nella democrazia – quella che l’UE sembra non avere, terrorizzata dai movimenti radicali. S’intende dunque come i Padri costituenti abbiano voluto rigettare il modello di “democrazia protetta” che è stato adottato, per esempio, dalla Germania nel 1949[25], compiendo una scelta netta nella direzione di una Repubblica non semplicemente “a-fascista”, ma a un ordinamento valoriale, di cui la costituzione sociale è emblematica, capace di affermare i valori antifascisti attraverso i mezzi della democrazia parlamentare.

L’attuazione del comando costituzionale è affidata nel 1952 alla legge Scelba[26], la quale, tra le altre previsioni, conta l’istituzione del reato di apologia del fascismo.

Impugnata più volte di fronte alla Corte Costituzionale, ottiene sempre piena legittimazione in ogni sua parte, con la precisazione che punito non può essere naturalmente un pensiero individuale, nemmeno qualora pubblicamente espresso, ma piuttosto qualunque manifestazione di pensiero idonea a paventare quella ricostituzione di un partito fascista, dichiarato o sotto mentite spoglie, che è vietata dalla Costituzione[27]. La Corte Costituzionale, inoltre, “conferma l’unidirezionalità della clausola e, almeno implicitamente, l’incostituzionalità di un eventuale divieto di costituire partiti che si ispirino ad altre ideologie antidemocratiche”[28].

Mettendo insieme questi orientamenti giurisprudenziali, e l’inciso “sotto qualsiasi forma” con il divieto però specifico alle ideologie che si rifanno a sistemi socio-economici anche non democratici[29], se ne ricava che il divieto non è, come già detto, rivolto a limitare l’espressione di un pensiero – e la sua attuazione tramite l’adesione a formazioni politiche – che mira ad un modello ideale di società diverso da quello attuale, ma esclusivamente al tentativo di ricostituire uno Stato con i caratteri di quello fascista: repressivo, totalitario, coloniale, senza, però, che questo abbia implicazioni sulle politiche economiche e sociali caratterizzanti il regime.

Se tale disposizione, poi, viene letta unitamente all’art. 139 per cui “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”, nonché all’art. 1 che stabilisce la forma di governo repubblicana, democratica e la sovranità popolare, non vi possono più essere dubbi sulla completezza del sistema costituzionale italiano a difesa della Repubblica democratica[30]. L’art. 1, infatti, contiene tre principi legati indissolubilmente: forma repubblicana, democrazia e fondamento lavoristico[31]. In aggiunta, la disposizione menziona la sovranità popolare, che giustifica la resistenza qualora questi valori vengano messi in discussione[32].

Alla luce di queste connessioni, si deve evidenziare come la migliore dottrina sostenga già da tempo che gli l’art. 139 e la XII disposizione valgano a escludere ogni totalitarismo[33], in pratica e in potenza. Tale disposizione, allora, costituirebbe un presupposto insindacabile della Costituzione, definendo il carattere della forma repubblicana di cui all’art. 139 della Costituzione secondo un preciso schema valoriale che si erge a fondamento della Repubblica, tanto che, per taluni autori, anche la XII disposizione potrebbe ritenersi sottratta alla revisione costituzionale, così come l’art. 139.

Abbiamo visto come la correttezza di tale impostazione sia stata confermata, almeno nelle linee essenziali, anche dalla Corte Costituzionale, al momento di rigettare a più riprese le istanze di illegittimità costituzionale della legge Scelba, sempre a condizione che vi fosse una mira concreta verso l’instaurazione di un regime antidemocratico. Allo stesso tempo, ne consegue che non sarà mai fuori legge l’ideologia in quanto tale, specie se si identifichi quest’ultima con l’idea sociale ed economica, e sarebbe addirittura un controsenso, in contrasto con l’art. 21 e, con riguardo ai partiti, all’articolo 49 della Costituzione, eliminarne una o più dalla competizione, a patto che – come si è detto – la pretesa ideologia non sia volta alla ricostituzione, anche sotto mentite spoglie, del partito fascista o al perseguimento di intenti discriminatori. Si tratterebbe di un’interpretazione non solo sbagliata, ma contraria alla stessa Costituzione. È evidente, al contrario, che le previsioni analizzate escludano ogni totalitarismo dalle prospettive dello Stato italiano, forte della memoria del regime precedente e dunque deciso a prevenirne la formazione attraverso la messa al bando di quella – e di quella sola – propaganda e associazione politica in grado di riproporre concretamente ciò è stato il Partito fascista.

Infine, con molta più fiducia nella democrazia di quanta ne dimostri, in questo caso, il Parlamento Europeo, i Costituenti italiani – molti dei quali già prigionieri politici durante il Fascismo – già prima del 1948, in sede di discussione del secondo comma della XII disposizione, hanno dimostrato ben altra apertura all’ideologia e spazio all’azione politica: “appare chiaro – scrivono nel loro commentario Falzone, Palermo e Cosentino – come la Costituente abbia voluto precisare il tempo della limitazione, fissandolo in 5 anni, nonché il grado di responsabilità fascista applicando la norma limitativa ai soli capi responsabili[34]. In altre parole, togliere l’elettorato passivo ad alcuni soggetti è già un’eccezione unica e transitoria alla democrazia; mettere fuori legge delle ideologie non è previsto e, dal punto di vista della Costituzione repubblicana, non lo sarà in futuro.

 

Conclusioni

 

A cosa serve, dunque, questa risoluzione? Dal punto di vista del sistema costituzionale, assolutamente a niente, posto che le funzioni di esclusione e contrasto rispetto ad ogni forma di governo dittatoriale sono già assolte soddisfacentemente dall’art. 139 e, per quanto riguarda la forma storica, più che ideale, con cui il totalitarismo si è manifestato in Italia, dalla XII disposizione, la cui attuazione legislativa incide anche sulle forme di espressione dell’ideologia totalitaria, ma solo nella misura in cui siano realmente idonee a minare l’ordinamento democratico, dunque nella stretta misura del necessario.

La risoluzione del Parlamento europeo rischia, qualora interpretata col rigore che forse i promotori intendevano attribuirle – cioè quello di una estensione delle previsioni di Costituzione e legge Scelba anche ai partiti comunisti e socialisti – di portare con ogni probabilità a previsioni radicalmente incostituzionali, contrarie non solo alla stessa XII disposizione, ma anche, come minimo, all’art. 49.

Interpretata come una semplice presa di posizione, da parte dell’UE, rimane allora solo un documento, ricco di inesattezze storiche e indebite approssimazioni, comunque con certa probabilità inopportuno alla luce del quadro valoriale – scritto e vincolante – della Costituzione, nonché delle posizioni espresse con sentimento pressoché unanime da coloro i quali hanno contribuito a scriverla.

In conclusione, se si voglia dotare la risoluzione del Parlamento europeo di un’interpretazione fondata sui principi e sulle norme costituzionali, essa finirebbe con buona probabilità per rimanere uno scritto, di fatto, inutile; non sembra, dunque, di poter esprimere un giudizio particolarmente favorevole sulla risoluzione in oggetto, presentando quest’ultima le numerose criticità che abbiamo messo in luce.

[1] La proposta di risoluzione comune 2019/2819, approvata il 19 settembre, sostituisce infatti le proposte: B9-0097/2019 (PPE); B9-098/2019 (ECR); B9-0099/2019 (S&D); B9-0100/2019 (PPE).

[2] Alla parte strettamente politica, che qui non viene in considerazione, appartengono per esempio l’apprezzamento per l’adesione alla NATO da parte dei Paesi europei, espresso nel punto 14, oppure, dal lato opposto, l’imputazione alla Russia di una «guerra di informazione condotta contro l’Europa democratica allo scopo di dividere l’Europa», nel punto 16, che giustifica anche l’invio della presente risoluzione alla Duma russa.

[3] In questo caso, si fa riferimento alle accuse mosse al governo russo, all’élite politica e alla propaganda di «insabbiare» i crimini del regime comunista ed esaltare il regime totalitario sovietico (punti 15 e 16).

[4] Risoluzione 2019/2819, considerando B e C.

[5] E. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, BUR, 2011, pag. 50.

[6] Ivi.

[7] Risoluzione cit., punto 16.

[8] L. 20 giugno 1952, n. 645.

[9] L. 13 ottobre 1975, n. 654 – Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966.

[10] L. 25 giugno 1993, n. 205, art. 1.

[11] L. 25 giugno 1993, n. 205, art. 2.

[12] Infra.

[13] Per un commento sull’applicazione pratica della legge Scelba e della legge Mancino, si veda, ad esempio: A. Galluccio, Il saluto fascista è reato? l’attuale panorama normativo e giurisprudenziale ricostruito dal Tribunale di Milano, in una sentenza di condanna, «Diritto Penale Contemporaneo», 29/04/2019.

[14] Per esempio: Risoluzione cit., considerando D, punti 2, 15.

[15] Ansa, Ucraina, distrutte 1300 statue di Lenin, 27/12/2016.

[16] Ci si riferisce, in particolare, alla XII disposizione finale della Costituzione.

[17]A. Somma, Dal lavoratore al consumatore. Cittadinanza e paradigma giuslavoristico nell’economia sociale di mercato, in G.G. Balandi, G. Cazzetta (a cura di), Diritti e lavoro nell’Italia repubblicana, Milano, Giuffrè, 2008.

[18] La percentuale social-comunista unita a quella democratica cristiana raggiungeva numericamente una soglia vicina al 78% dell’Assemblea costituente.

[19] Ass. Cost., 9 settembre 1946.

[20] Questa la posizione di Dossetti, su cui si veda, ad esempio: N. Occhiocupo, La “strategia unitaria” di Giuseppe Dossetti nella elaborazione della Costituzione, «Federalismi.it», n. 15/2011.

[21] Ansa, Sassoli, scorretto affiancare nazismo e comunismo, 30/09/2019.

[22] G.E. Vigevani, Origine e attualità del dibattito sulla XII disposizione finale della Costituzione: i limiti della tutela della democrazia, «Rivista di diritto dei media», n. 1/2019.

[23] G.E. Vigevani, opera cit.; U. De Siervo, Attuazione della Costituzione e legislazione antifascista, in Giurisprudenza costituzionale, 1975; A. Pizzorusso, Disp. XII, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, Zanichelli, 1995; C. Cost., ord. 17 marzo 1988, n. 323.

[24] Ass. Cost., 19 novembre 1946.

[25] G.E. Vigevani, opera cit.

[26] L. 20 giugno 1952, n. 645.

[27] C. Cost., 16 gennaio 1957, n. 1; C. Cost., 6 dicembre 1958, n. 74.

[28] G.E. Vigevani, opera cit.

[29] Stante sia, per quanto riguarda l’ideologia e l’azione dei singoli, l’art. 21 della Costituzione, sia, per quanto riguarda i partiti politici, l’art. 49.

[30] Infra: c’è chi, tramite l’art. 139, ritiene la XII disposizione a sua volta sottratta alla revisione costituzionale. Ma il discorso si può estendere anche ai principi fondamentali, in particolare l’art. 1 (su cui, ad esempio: L. Carlassare, Conversazioni sulla Costituzione, Lavis (TN), CEDAM, 2011).

[31] M. Luciani, Radici e conseguenze della scelta costituzionale di fondare la Repubblica democratica sul lavoro, «ADL – Argomenti di diritto del lavoro», n. 3/2010, pagg. 628-652.

[32] G. Scotti, Il diritto di resistenza: percorsi storici e costituzionali di un diritto che c’è ma non si vede, «Ius in Itinere», 11/09/2019.

[33] C. Esposito, I partiti nella Costituzione italiana, in C. Esposito, La Costituzione italiana – Saggi, Padova, Cedam, 1954.

[34] F. Cosentino, V. Falzone, F. Palermo (a cura di), La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, Vicenza, Arnoldo Mondadori Editore, 1976.

Davide Testa

Davide Testa è dottorando di ricerca presso la LUISS - Guido Carli e City Science Officer a Reggio Emilia, cultore della materia in Diritto Costituzionale e avvocato nel Foro di Padova. Dopo aver conseguito gli studi classici presso il Liceo Marchesi,  ha studiato Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, svolgendo un periodo di mobilità di due semestri presso l’University College Dublin. Nel 2019 si laurea in Diritto Costituzionale con una tesi intitolata “Fondata sul lavoro: dall’Assemblea costituente alla gig economy”. A partire dallo stesso anno, collabora con l’area di Diritto Costituzionale della rivista Ius in Itinere e partecipa ai lavori del gruppo di ricerca "Progetto Città", promosso dal Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario dell'Università di Padova. Nel 2020-2021 è inoltre stato titolare di un assegno di ricerca FSE intitolato "Urban Data Regulation – Best practices locali per un uso condiviso" presso il medesimo ateneo. Dal 2022 è dottorando di ricerca industriale presso LUISS - Guido Carli e, nell'ambito del dottorato, svolge attività di ricerca applicata presso il City Science Office attivato presso l'amministrazione di Reggio Emilia, nell'ambito della City Science Initiative promossa dal JRC della Commissione Europea. È inoltre avvocato presso il Foro di Padova.

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