L’incapacità di intendere e volere sotto il profilo sostanziale e processuale
A cura di: Avv. Roberto Tedesco
Il codice penale e quello di procedura penale disciplinano in maniera specifica il caso del reo che, al momento della commissione del fatto, ed anche nei momenti successivi, sia incapace di intendere e volere.
La capacità di intendere e volere indica l’attitudine della persona a comprendere il valore del proprio comportamento, le conseguenze giuridiche, morali e fattuali che le proprie azioni od omissioni hanno verificato sulla realtà esterna.
In ambito penalistico si riconduce l’incapacità di intendere e volere all’imputabilità cosi come prescritto dall’art. 85 c.p.
Infatti l’art. 85 c.p. stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto, preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l’ha commesso non era imputabile, ossia incapace di intende e volere.
A tal proposito è necessario differenziare l’incapacità totale di intendere e volere da quella parziale.
L’art. 88 c.p. prevede che il soggetto affetto da un vizio di mente, al momento della commissione del fatto di reato, non possa essere punito se il vizio è tale da escludere in maniera totale la capacità di intendere e volere.
Per vizio totale di mente bisogna intendere una causa che dipenda da un’infermità, fisica o psichica, sussistente al momento del fatto e rilevante in ordine al fatto commesso, nonché tale da incidere concretamente sulla capacità d’intendere o volere del soggetto.
Qualsiasi altra tipologia di anomalia, differente dall’infermità, non è idonea a determinare un’infermità psichica e pertanto non potrà rientrare in tale categoria le problematiche attinenti la sfera della personalità e del carattere del reo.
Per quanto riguarda invece, il caso di “infermità transitoria” bisognerà verificare, nel caso specifico, se tale tipologia di infermità attiene, in maniera completa, al momento della commissione del fatto di reato oppure, se nello stesso momento, sono sussistenti “intervalli di lucidità” che, di fatto, presuppongono un accertamento specifico sia sulla sussistenza di infermità nel momento preciso e sia relativamente al condizionamento subito dal soggetto.
Infine, per quanto attiene ai c.d. disturbi della personalità, gli stessi possono portare al riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere. Oltre a ciò, quale condizione necessaria, è indispensabile verificare la sussistenza del nesso eziologico con la specifica condotta criminosa facendo discendere il fatto come conseguenza del disturbo mentale[1].
In proposito, al fine di precisare la tipologia di c.d. disturbi della personalità da cui deriva infermità psichica, la Corte di Cassazione ha stabilito che “ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, nessun rilievo può assumere la presenza, in capo all’autore della condotta delittuosa, di un generico stato di agitazione determinato da una crisi di astinenza dall’abituale consumo di sostanze stupefacenti, e non accompagnato da una grave e permanente compromissione delle sue funzioni intellettive e volitive”[2].
Di diverso avviso è l’art. 89 c.p. che disciplina il caso del vizio parziale di mente dal quale discende una parziale incapacità di intendere e di volere e pertanto una responsabilità minore con punibilità ridotta.
Il vizio parziale di mente si differenzia dal vizio totale secondo un criterio qualitativo ossia si riferisce ad un grado di infermità che limita la capacità di intendere e volere scemandola gradualmente, tanto è vero che, in giurisprudenza, il vizio parziale di mente viene considerato come circostanza attenuante da bilanciare con le aggravanti eventualmente contestate.
Sul punto, si vuole portare all’attenzione una pronuncia della giurisprudenza di legittimità nella quale viene analizzato il caso di sussistenza del vizio parziale di mente e dell’aggravante della premeditazione stabilendo che: “accertato grave disturbo della personalità, funzionalmente collegato all’agire e tale da incidere, facendola scemare grandemente, sulla capacità di volere, l’accertamento della circostanza aggravante della premeditazione richiede un approfondito esame delle emergenze processuali che porti ad escludere, con assoluta certezza, che la persistenza del proposito criminoso sia stata concretamente influenzata da uno degli aspetti patologici correlati alla formazione od alla persistenza della volontà criminosa”[3].
Pertanto, tale orientamento stabilisce la necessità di provvedere, caso per caso, ad un accertamento delle circostanze fattuali attinenti la premeditazione del reato per comprendere come l’accertamento di un’infermità parziale possa incidere sulla pena da applicare all’agente.
Rispetto a quanto previsto dagli articoli 88 e 89 c.p. bisogna aggiungere il disposto normativo relativamente al caso in cui il reo sia soggetto ad ubriachezza derivata da caso fortuito o forza maggiore, nel caso di reo sordomuto e nel caso in cui l’agente sia minore di anni quattordici oppure di anni diciotto[4].
In proposito si rappresenta che nei casi di ubriachezza determinata da caso fortuito, agente sordomuto e soggetto inferiore ad anni quattordici si applicherà, di fatto, il principio previsto dall’art. 88 c.p. con la conseguenza che il reo non sarà punibile ma, nel caso di riscontrata pericolosità sociale, potrà essere applicata allo stesso una misura di sicurezza.
I casi di reo incapace totalmente di intendere e volere comportano delle conseguenze procedurali significative anche all’esito della recente riforma legislativa.
Difatti, secondo quanto stabilito dall’art. 70 c.p.p. nel caso in cui vi è motivo di ritenere che l’imputato non possa partecipare coscientemente al processo il giudice deve provvedere a disporre una perizia.
Nel caso in cui tali accertamenti evidenziassero che lo stato di infermità dell’imputato è tale da non permettere allo stesso la partecipazione al procedimento penale, in termini di pieno e cosciente esercizio del diritto di difesa, il Giudice deve provvedere a sospendere il procedimento penale ed a nominare, in favore dell’imputato, un curatore speciale.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha precisato che, al fine di poter considerare un soggetto incapace di stare in giudizio, non è sufficiente la presenza di una patologia psichiatrica, ma è necessario che l’imputato risulti in condizioni tali da non comprendere quanto avviene in sua presenza e da non potersi difendere[5].
Tale indicazione appare sicuramente essenziale a garantire un pieno e consapevole esercizio del diritto di difesa dell’imputato evitando, peraltro, eventuali strumentalizzazioni di patologie psichiatriche che non incidono sulla cosciente capacità del reo di partecipare al giudizio.
Infine, secondo quanto disposto all’art. 72 bis c.p., introdotto con la legge n. 103 del 23 giugno 2017, nel caso in cui l’infermità dell’imputato è tale da impedire la cosciente partecipazione al procedimento penale e che tale stato è irreversibile, il Giudice dovrà provvedere alla revoca dell’ordinanza di sospensione del procedimento penale e, conseguentemente, a pronunciare una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, salvo il caso in cui ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza personale.
Quest’ultima previsione legislativa si è resa necessaria stante la circostanza che, precedentemente, il Giudice poteva solo sospendere sine die i procedimenti penali senza poter determinare, salvo la presenza di particolari elementi a favore dell’imputato, la definizione del procedimento penale incardinato avverso un soggetto totalmente incapace di intendere e volere.
In conclusione, si può quindi affermare che il sistema penale italiano, nei suoi principi di garanzia nei confronti dell’indagato e dell’imputato, tuteli in maniera completa i casi in cui si accerti un’incapacità totale o parziale del reo sussistente sia al momento della commissione del fatto che in epoca successiva.
[1] Cass. Sez. I, sentenza del 05.12.2013, n. 48841
[2] Cass. Sez. VI, sentenza del 05 maggio 2011, n. 17305
[3] Cass. Sez I, sentenza del 28.04.2016, n. 17606.
[4] Rispettivamente articoli 91,96, 97, 98 del codice penale.
[5] Cass. Sez. VI sentenza del 19 giugno 2015, n. 25939
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