Lo sciopero è illegittimo soltanto se pregiudica la produttività e non la produzione della società
A cura di Federico Fornaroli
I limiti all’esercizio del diritto di sciopero (art. 40 Cost.) da parte dei lavoratori sono tornati ad essere materia di giudizio della Suprema Corte di Cassazione.
Infatti, con ordinanza n. 6787/2024, gli Ermellini hanno statuito la legittimità di tale diritto, purché non sia “idoneo a pregiudicare irreparabilmente non la produzione, ma la produttività dell’azienda”, sulla base di una ricostruzione anche storico-giuridica di quanto già ampiamente dibattuto e deciso in passato, già a partire dal lontano 1984 (Cass. n. 2840).
Detta pronuncia si inserisce nella cornice fattuale attinente al licenziamento per giusta causa di n. 16 dipendenti, in quanto aderenti ad uno sciopero proclamato dalla sigla sindacale di appartenenza e, quindi, ad avviso della società, rei di aver abbandonato ingiustificatamente il luogo di lavoro.
Invero, siffatto sciopero non risultava aver arrecato nocumento alla produttività aziendale, bensì alla sola “produzione”, circostanziata alle giornate di intervenuto sciopero, peraltro traente origine da tematiche di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, le quali, inoltre e per l’effetto, non apparivano prevaricare i dovuti “limiti esterni dell’esercizio del diritto di sciopero”.
Dunque, la società veniva condannata sia per la violazione delle disposizioni afferenti alle garanzie costituzionali concernenti l’esercizio del diritto di sciopero, sia di quelle inerenti al recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c., stante la totale carenza dei necessari presupposti per agire in tal senso.
Sicché, la Suprema Corte ha colto la succitata occasione per delineare nuovamente i confini e differenze delle nozioni di produzione e produttività.
Segnatamente ma comunque a titolo esemplificativo, per “produttività” si intende “la possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica, ovvero comporti la distruzione o una duratura inutilizzabilità degli impianti, con pericolo per l’impresa come organizzazione istituzionale, non come mera organizzazione gestionale, con compromissione dell’interesse generale alla preservazione dei livelli di occupazione”, atteso che “l’accertamento al riguardo va condotto caso per caso dal giudice, in relazione alle concrete modalità di esercizio del diritto di sciopero ed ai parimenti concreti pregiudizi e pericoli cui vengono esposti il diritto alla vita, all’incolumità delle persone e all’integrità degli impianti produttivi”.
Alla luce di quanto suesposto, pertanto, nella fattispecie, la Corte di legittimità non ha ravvisato l’integrazione dei necessari requisiti per poter sostenere le tesi perpetrata e applicata dalla società nei confronti dei lavoratori in questione, optando per una decisione integralmente favorevole a questi ultimi, con, altresì, connessa reintegrazione sul luogo di lavoro dei medesimi.
Di talché, da un punto di vista più generale in merito a quanto enucleato dagli Ermellini, siamo di fronte a un “elenco aperto” e di non sempre agevole individuazione materiale, il quale, però, non deve essere sottovalutato dai datori di lavoro e, anzi, abbisogna estrema cautela, proprio in virtù della valutazione concreta che ne deve essere effettuata, per comprenderne la reale legittimità, anche in considerazione della stima prospettica che viene richiesta dalla giurisprudenza rispetto agli impatti mutuanti dall’esercizio del diritto di sciopero.
Insomma, il datore di lavoro è chiamato a “spingersi un po’ più in là” e a saggiare se una simile iniziativa dei propri dipendenti abbia un certo respiro futuro o meno.
Qualora l’esito di detta verifica fosse negativo (e, così, stessimo parlando “solamente” di produzione e non anche di produttività), l’azienda non potrà fare altro che accettare sommessamente l’azione dei propri lavoratori, giacché essa dovrà ritenersi legittima.