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Responsabilità colposa dell’ente: “c.d. colpa di organizzazione” e giudizio di idoneità dei modelli organizzativi, alla luce della recente pronuncia della Suprema Corte

 1) Note introduttive.

L’introduzione del Dlgs 8 Giugno 2001 n. 231 nel sistema giuridico italiano, ha rappresentato, senza dubbio, dopo un lungo periodo di rodaggio, una significativa progressione  in punto di diritto.

Il Legislatore, sollecitato dalla normativa internazionale e dalla preponderante espansione  dei soggetti societari nel panorama criminale, ha inteso superare l’antico principio antropocentrico societas delinquere non potest , predisponendo una normativa ad hoc, atta a qualificare i soggetti collettivi quali coprotagonisti/primattori della vicenda punitiva.

Il presente elaborato  si propone  di esaminare il modello di responsabilità allocato agli enti , prestando particolare zelo al criterio soggettivo di imputazione  c.d. colpa di organizzazione, nonché alla concreta idoneità dei modelli del sistema 231 nell’ottica prevenzionistica, anche alla luce del recentissimo approdo del Supremo Consesso.

2) Uno sguardo alla natura giuridica della responsabilità da reato.

Tutt’altro che un mero orpello teorico appare l’interrogativo circa la natura giuridica della responsabilità da reato delle societas.

La conferma della lacunosità della questione è senz’altro rinvenibile nella collisione esistente tra il nomen iuris con il quale è rubricato detto decreto legislativo, che lascia propendere per una qualificazione amministrativa della responsabilità e la Relazione governativa che accompagna lo stesso decreto, nella quale, invece, la responsabilità sembrerebbe essere definita come un intermedio tertium genius, in cui vengono sposati tratti salienti sia del sistema penale sia di quello amministrativo.[1]

Siffatta diatriba, per vero, è stata per diversi anni considerata sterile sul piano pratico; essa, infatti, veniva declassata su un piano puramente simbolico, attinente per lo più al carattere innovativo o meno del sistema sanzionatorio.

La centralità della querelle, in effetti, si è ripristinata a seguito delle prime pronunce giurisprudenziali.

Un’accezione marcatamente penalistica della responsabilità per cui si discorre, avrebbe senz’altro comportato risvolti pratici, primi fra tutti la vincolatività dei principi costituzionali che governano il diritto penale (principi di legalità, di colpevolezza, della presunzione di non colpevolezza, della finalità rieducativa della pena ecc…)[2].

Dello stesso avviso appare, infatti, la Suprema Corte di Cassazione che in una della prime pronunce sul tema[3], seppur implicitamente, aderisce ad una qualificazione penalistica di detta responsabilità, giustificata da numerosi indici rivelatori: il sorgere di una responsabilità dell’ente a seguito della commissione di un illecito penale, l’attribuzione al giudice penale della competenza a conoscere l’illecito dell’ente, la punibilità dell’ente anche nel caso in cui il reato presupposto è tentato, l’imputazione soggettiva dell’illecito all’ente, il sistema di commisurazione della pena pecuniaria, l’applicazione del principio di legalità  e della legge più favorevole.

 Malgrado ciò, è comunque registrabile in dottrina e giurisprudenza, un cospicuo e marcato filone di coloro i quali, invece, rimangono ancorati alla relazione ministeriale, sostenendo la configurabilità di una “responsabilità intermedia” che presenta al tempo stesso i caratteri di quella penale e di quella amministrativa.

3)  Ambito di applicazione del D.lgs n. 231 del 2001 e criteri d’imputazione oggettiva.

Il capo I del D.lgs n. 231/2001 circoscrive puntualmente l’ambito di applicabilità soggettiva della normativa in esame, individuando gli enti destinatari della disciplina in essa contenuta e quelli esclusi.

In particolare l’art. 1 comma 2 recita testualmente: “…Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica…”, al comma 3, invece, individua gli enti esclusi dal suo raggio d’azione “… Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale…”.

La creazione e specificazione di un’area immune, in effetti, riflette la ratio del Legislatore,  cioè quella di reprimere comportamenti illeciti nello svolgimento di attività a carattere economico, assistite appunto da finalità di profitto, con la conseguenza di escludere  la categoria degli enti pubblici che perseguono e curano pubblici interessi, prescindendo da finalità lucrative.[4]

Proseguendo poi ad una disamina testuale del citato decreto, il Legislatore delegato ha premura  di specificare in maniera dettagliata i criteri sui quali si fonda l’imputazione all’ente sul piano oggettivo.

Ed invero l’art. 5 recita espressamente: “L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). 2. L’ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi
”.

Nel suindicato articolo, invero, è riconosciuta la sussistenza di una responsabilità  in capo all’ente  ex D.lgs 231 del 2001 in presenza di 3 condizioni:

  • La condotta penalmente rilevante ( c.d reato presupposto)deve essere posta in essere nell’interesse o a vantaggio dell’ente;
  • Gli autori del reato presupposto devono rivestire la qualifica di soggetti apicali o subordinati;
  • I soggetti agenti non devono aver agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.

Quanto al primo requisito, la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che  i concetti di “ interesse” e  “ vantaggio” sono giuridicamente differenti ed alternativi tra loro: il primo,  attiene alla finalità della condotta tenuta dal soggetto -persona fisica e presuppone  un accertamento ex ante; il secondo, invece,  è riferibile al beneficio oggettivamente conseguito e richiede sempre una verifica ex post.

Con riguardo, invece, al secondo requisito appare evidente come ,il Legislatore  abbia prediletto una puntuale indicazione dei soggetti autori dell’illecito: i soggetti apicali, ossia quelli aventi, di fatto o di diritto,  ruoli di rappresentanza, amministrazione e  direzione  dell’ente, ovvero “ persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza” e dunque in una posizione subordinata rispetto ai primi.[5]

Infine, per quanto attiene al terzo presupposto, si rinviene dalla lettera della norma una netta esclusione di responsabilità ogniqualvolta il soggetto agente abbia agito per un interesse proprio o di terzi.

Siffatti criteri, come si avrà modo di verificare di qui a poco, benché necessari, non sono da soli sufficienti a muovere un rimprovero di natura afflittiva all’ente.

4) Il criterio di imputazione soggettiva c.d colpa di organizzazione.

Il Legislatore Italiano nel regolamentare la responsabilità degli enti ex D.lgs 231 del 2001, ha fatto propri, come sopra anticipato, i principi che sorreggono il sistema penale, tra i quali senza dubbio primeggia il principio di colpevolezza.

Del resto, la scelta di una responsabilità di fatto penale, ha richiesto uno specifico criterio soggettivo di imputazione, indispensabile per uniformarsi al principio della personalità, in conformità a quanto disposto all’art. 27 Cost..

Ai sensi del D.lgs in esame, invero, perché possa essere attribuita una responsabilità in capo all’ente, appare necessario, oltre all’accertamento dei criteri oggettivi sopra enucleati, verificare, sotto il profilo soggettivo, la sussistenza di una condotta colposa  in capo all’ente, c.d. colpa di organizzazione.

Tale assunto, lo si ricava nell’art. 6 ex D.lgs 231, nel quale viene riconosciuta un’esenzione di responsabilità ogniqualvolta l’ente dimostri la sussistenza di requisiti tra loro concorrenti: “…a) l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b)
…”.

Detto altrimenti, l’atteggiamento colposo addebitabile all’ente non consiste affatto nel aver agevolato la commissione del reato, quanto piuttosto nella negligente incapacità di non aver saputo impedire la consumazione, o anche il tentativo, del reato, con conseguente implicita accettazione che lo stesso si verifichi[6].

La scelta e la predisposizione di specifici modelli di organizzazione (tesi all’individuazione dei rischi potenziali) e gestione (volti alla progettazione di un sistema di controllo) ad opera della persona giuridica, espressione dunque di una palese voluntas societas indirizzata alla liceità, rappresenterebbe nel sistema di prevenzione generale lo strumento idoneo a condizionare tanto l’imputabilità quanto la risposta sanzionatoria.

Ai sopracitati modelli viene, per vero, riconosciuta una distinta rilevanza: quelli adottati in maniera efficiente ante factum costituiscono un’esimente, tanto da escludere, sotto il profilo soggettivo, qualsivoglia responsabilità dell’ente; nell’ipotesi in cui sia stato adottato post factum, l’adozione incide sulla sanzione pecunia ex art. 12 comma 2 lett. b)  o ancora addirittura sull’applicabilità delle sanzioni interdittive ex art, 17 lett. b).

Fermo restando l’aspetto sanzionatorio, tuttavia, appare opportuno ai fini del discorso trattare un ulteriore profilo, quello probatorio, ritenuto da una cospicua parte della dottrina di difficile applicazione.

La relazione ministeriale in calce al citato decreto, precisa infatti un diverso atteggiarsi del sistema probatorio a seconda della qualifica del soggetto autore del reato.

E in effetti, nel caso in cui a commettere l’illecito penale sia un soggetto sottoposto, l’onere probatorio circa l’inosservanza degli obblighi di direzione e di vigilanza grava sulla Pubblica Accusa; viceversa, nell’ipotesi in cui il soggetto agente riveste un ruolo apicale, vige una presunzione di responsabilità in capo all’ente a carattere relativo, per cui, mediante un inversione dell’onere della prova, sarà l’ente stesso a dimostrare in maniera rigorosa la sua estraneità ai fatti.

Tale ultima circostanza, del resto, cela in maniera occulta una violazione dei dicta costituzionali, tra cui il principio di presunzione di non colpevolezza e l’operatività, per ciascuno degli elementi costitutivi della fattispecie, di un onere probatorio in capo alla Procura.

Un verosimile superamento di dette perplessità, si è poi registrato a seguito di una pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite, nella quale viene precisato che nessuna inversione dell’onere della prova è pertanto ravvisabile nella disciplina  che regola la responsabilità da reato dell’ente, gravando comunque sull’accusa l’onere di provare la qualifica soggettiva del soggetto agente e  la carente regolamentazione  interna dell’ente[7].  La citata pronuncia dunque pare rivoltare  le conclusioni a cui era pervenuta la giurisprudenza di merito, approvando le argomentazioni  di una precedente pronuncia della stessa Corte, nella quale veniva esclusa la configurabilità di un inversione dell’onere della prova tra accusa e difesa.[8]

5)L’idoneità dei modelli organizzativi  a seguito di un’ultimissima pronuncia  del Supremo Consesso.

Nella specifica disciplina della responsabilità dell’ente dipendente da reato, come si è avuto modo di precisare poc’anzi, i modelli di organizzazione assumono un ruolo fondamentale.

Essi altro non sono che dei programmi di auto-organizzazione, tesi a prevenire il rischio di reato nell’attività di impresa, la cui compilazione presuppone il ponderato esame di tutti i diversi e specifici fattori caratterizzanti le societas, correlati appunto alla natura dell’attività svolta o alle dimensioni della stessa[9].

Per assolvere il requisito dell’efficacia e dell’effettività, il Modello dovrà contenere:

  • L’individuazione delle attività di rischio;
  • La predisposizione di specifici protocolli contenenti regole cautelari per ridurre il rischio-reato;
  • La previsione di obblighi informativi e conseguenti meccanismi di controllo;
  • L’approntamento di un sistema disciplinare interno, volto a sanzionare il mancato rispetto delle misure contenute nel modello.[10]

In tal senso, il comma 3 dell’art. 6 è rilevante, in quanto stabilisce espressamente che i modelli 231 possono essere redatti sulla base dei codici di comportamento elaborati dalle associazioni maggiormente rappresentative, che assumono, come si vedrà poc’anzi,  una pura valenza orientativa.

Sul punto, infatti, è premura di chi scrive richiamare una recentissima sentenza della Suprema Corte di Cassazione,[11] che chiamata a pronunciarsi sull’idoneità del modello di organizzazione in un procedimento per aggiotaggio,  ha espresso a chiare lettere un principio fondamentale.

Si legge in sentenza, invero, che al fine di compiere una concreta valutazione  sull’idoneità del modello, scevro da qualsivoglia automatismo o presunzione, il Giudice “.. dovrà collocarsi idealmente nel momento in cui il reato è stato commesso e verificarne la prevedibilità ed evitabilità  secondo il meccanismo della c.d. prognosi postuma…tale valutazione dovrà necessariamente spingersi a verificare anche l’attuazione del modello in termini di efficacia, basandosi su elementi di fatto concreti, raccolti in istruttoria… il modello organizzativo, non viene testato nella sua globalità, bensì in relazione alle regole cautelari che risultano violate e che comportano il rischio di reiterazione dei reati della stessa specie…”

Ribadito questo interessante principio, gli Ermellini marcano  un ulteriore passaggio di preminenza assoluta, concentrandosi questa volta sulle linee guida predisposte dalle associazioni maggiormente rappresentative.

Esse, infatti, pur avendo una duplice valenza, ossia quella di individuare i parametri orientativi per le imprese nella costruzione del MOG nonché quella di temperare la discrezionalità del giudice, ad avviso della Corte non costituiscono regola organizzativa specifica ed esaustiva, posto che  il processo che porta  all’adozione  del modello organizzativo è un processo di auto-normazione nel quale per essere qualificato più singolare possibile, deve essere elaborato sulle specifiche caratteristiche dell’ente.

Ciò posto, in presenza di un modello conforme alle linee guida, spetterà all’organo giudicante  motivare le ragioni per le quali possa ravvisarsi la colpa di organizzazione  dell’ente, individuando la specifica disciplina di settore , anche di rango secondario, che ritenga violata,  o in mancanza le prescrizioni della migliore scienza ed esperienza , dalle quali i codici di comportamento ed il modello  con essi congruente si siano discostati.

La sentenza in commento, in effetti, lascia trapelare confortanti segnali, espressione di un’ inversione di rotta della giurisprudenza.

Siffatta pronuncia, invero, di contro al  numero di sentenze di segno opposto, appare incline a sostenere gli sforzi economici ed organizzativi di tante imprese che nella prospettiva di non incorrere in responsabilità da reato, hanno predisposto ed attuato modelli organizzativi propri, confacenti alle proprie caratteristiche.

Il risultato conseguito, indubbiamente ,  getta le basi  per un sistema di responsabilità  ascritto all’ente più rigoroso e dunque più incline al metodo di matrice penalistica.

Pertanto, non risulta che auspicare e attendere  che i Giudici chiamati a valutare l’idoneità di un modello organizzativo si uniformino quanto più possibile ai predetti principi.

 

[1] G. De Simone, Diritto Penale Contemporaneo, “ Responsabilità da reato degli enti, natura oggettiva e criteri di imputazione”.

[2] G. Amarelli, De Iure ,“ Profili pratici della questione sulla natura giuridica della responsabilità degli enti

[3] Cass., sez. II, 30 gennaio 2006

[4] Relazione Ministeriale  al Dlgs 8 Giugno 2001, n. 231, p.14

[5] Red. , Diritto.it, “ Responsabilità amministrativa degli enti”, 25 Novembre 2019

[6] A. Sullo, Altalex, “ Il criterio soggettivo di attribuzione della responsabilità all’ente

[7] Cass. pen. Sezioni Unite, sent. 18 Settembre 2014 n. 38343

[8] Cass. pen. Sez VI, sent. 16 Luglio 2010 n. 27735

[9] M. Colacurci, Diritto Penale e processo oggi, “L’idoneità del modello nel sistema 231, tra difficoltà operativa e possibili correttivi”.

[10] M. Principe, Lavoro @confronto, “ Modelli di organizzazione e gestione della sicurezza”, Ottobre/ Novembre 2014

[11] Cass. Pen, Sez. VI,  15 Giugno 2022, n. 23401.

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