venerdì, Marzo 29, 2024
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La Corte EDU condanna l’Italia: violenza sulle donne e victim blaming

Pubblicata lo scorso 27 maggio, la sentenza J.L. c. Italia[1] della Corte europea dei diritti dell’uomo ha subito richiamato l’attenzione dei mass media, che hanno evidenziato l’importanza della pronuncia non solo in quanto inerente ad un noto fatto di cronaca, ma per la ferma presa di posizione della Corte nei confronti di un sistema, quello italiano, in cui è ancora fortemente radicata una cultura misogina e sessista.

Lo stupro della Fortezza da Basso

La vicenda risale al 2008, quando sette ragazzi abusarono di una ragazza di ventidue anni in stato di ubriachezza nei pressi della Fortezza da Basso di Firenze. In primo grado, sei dei sette accusati vennero condannati a quattro anni e sei mesi di reclusione per violenza sessuale aggravata per aver abusato – si legge nella sentenza di primo grado – “delle condizioni di inferiorità fisiche e psichiche” della ragazza.

In appello, però, gli imputati vennero tutti assolti con formula piena “perché il fatto non sussiste. Le motivazioni depositate dalla Corte d’Appello di Firenze sollevarono da più parti veementi critiche.

Il Collegio, infatti, evidenziò “la serie di imprecisioni e contraddizioni” nella ricostruzione dell’evento – giungendo a considerare il racconto della ragazza come non credibile e spingendosi anche a valutazioni sulla persona della vittima, sulle sue abitudini sessuali e relazionali, definita come “soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso tempo creativo, disinibito, capace di gestire la propria (bi)sessualità”, protagonista, nel corso della serata, di “atteggiamenti particolarmente disinvoltiin un clima … goliardico (e) godereccio”. Secondo la Corte d’Appello, dunque, la ragazza non versava in uno stato di inferiorità fisica o psichica e non avrebbe ostacolato in alcun modo l’iniziativa del gruppo, i cui membri non avevano dunque esercitato alcuna costrizione della volontà della vittima tramite l’uso e l’abuso di alcool. La questione, nella sua interezza, venne dunque liquidata come una vicenda “incresciosa, non encomiabile per nessuno ma, cionondimeno, un fatto penalmente non censurabile.

La pronuncia della Corte d’Appello, come detto, venne aspramente rigettata dall’opinione pubblica – diverse associazioni femministe organizzarono eventi, iniziative e manifestazioni di solidarietà nei confronti della ragazza e l’esito del processo, venne anche discusso in Parlamento, ma senza esito[2].

Nella convinzione che la pronuncia avesse rappresentato una grave violazione dei diritti fondamentali della vittima, la questione venne portata all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Violenza di genere e victim blaming: il quadro normativo

Per meglio comprendere il cuore della decisione dei giudici di Strasburgo, occorre preliminarmente fare riferimento a due profili: (a) il quadro normativo in tema di violenza di genere e, in particolare, di tutela delle donne che ne sono vittime e (b) gli obblighi, positivi e negativi, in materia scaturenti dalle previsioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Invero, sono numerosi i documenti, gli atti e gli interventi normativi che hanno riconosciuto in capo alle autorità nazionali specifici obblighi di tutela nei confronti delle donne vittime di violenza. Particolare attenzione viene posta alla condotta degli organi inquirenti e giudicanti, ai quali è richiesto di attivare ogni strumento per proteggere e assistere la vittima nel corso del procedimento.

Già con la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1979 (CEDAW)[3], e con la successiva Dichiarazione dei Principi Fondamentali di Giustizia per le Vittime di Reato e di Abuso di Potere del 1985[4], le Nazioni Unite riconobbero il diritto delle vittime di essere trattate con dignità e rispetto, nonché di poter accedere a strumenti di tutela legale, nella forma di un equo processo mediante il quale domandare un risarcimento per le violenze subite.

Per quanto riguarda il nostro continente, sia il Consiglio d’Europa che l’Unione Europea si mossero per contrastare questo fenomeno.

Le istituzioni comunitarie, con la Direttiva 2012/29/UE[5], “che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”, hanno inteso rinnovare il quadro normativo all’interno dell’Unione, riconoscendo, in favore delle vittime, una serie di tutele e diritti legati all’assistenza legale in sede giudiziale, quali la possibilità di ricevere un equo ristoro in quanto persone offese. Fondamentale, anche a livello di impegno politico, è stato – ed è tutt’oggi – il ruolo della Convenzione di Istanbul del 2011[6], sottoscritta dai paesi del Consiglio d’Europa, il cui articolo 18 impegna gli Stati a garantire protezione e sicurezza delle donne, nell’ambito di una più generale “comprensione della violenza di genere contro le donne e della violenza domestica” invitando le autorità affinché si “concentrino sui diritti umani e sulla sicurezza della vittima”.

Tali principi sono stati a più riprese ribaditi anche dalla Corte di Strasburgo in applicazione dell’articolo 8 CEDU (rispetto alla vita privata e familiare) da solo e in combinato disposto con gli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti). Gli Stati, ai sensi della Convenzione, hanno l’obbligo di garantire ai propri cittadini l’effettivo rispetto della loro integrità fisica e psicologica[7], con provvedimenti sia di carattere generale (quali l’adozione di un quadro normativo che instauri un adeguato meccanismo giudiziario ed esecutivo) che di carattere specifico, a seconda dei singoli casi[8], in particolare quando il rischio provenga da soggetti terzi privati.

La Corte si è spesso dovuta pronunciare su casi di violenza e abusi sessuali, evidenziando come il rispetto delle previsioni convenzionali ponga, in capo alle autorità nazionali, un obbligo – di mezzi e non di risultato, da un lato, di predisporre adeguate norme penali[9] e, dall’altro, la messa in atto efficaci indagini per individuare e punire i colpevoli[10], nonché la previsione di idonei strumenti di riparazione e risarcimento a favore delle vittime[11].

La tutela garantita dalla Corte si estende anche alla fase del giudizio, riconoscendo alle vittime adeguata protezione anche nel corso dei procedimenti instaurati nei confronti degli autori della violenza. Un principio, questo, affermato nella pronuncia sul caso Y c. Slovenia[12], in cui la Corte ha concluso affermando che “nel corso del procedimento penale per asserite aggressioni sessuali nei confronti della ricorrente, lo Stato non aveva offerto sufficiente protezione al diritto della ricorrente al rispetto della sua vita privata e, in particolare, della sua integrità personale durante il suo controinterrogatorio condotto dall’imputato[13].

Il quadro normativo e giurisprudenziale appena delineato è dunque orientato ad una sempre più ampia ed estesa tutele per le vittime di violenza, che ricomprende, al suo interno, anche i casi di “vittimizzazione secondaria.

Si ha “vittimizzazione secondaria” – o “colpevolizzazione della vittima” (c.d. victim blaming) – quando, a seguito di un episodio di violenza, le autorità (sanitarie e/o giudiziarie), che dovrebbero tutelare e proteggere la vittima, la rendono soggetta a nuove e diverse violenze. Ciò accade, ad esempio, quando – come nel precitato caso Y c. Slovenia – la vittima sia “abbandonata” nel corso del procedimento penale, trovandosi esposta non solo alle conseguenze economiche e di stigma sociale legate alla vicenda e ai suoi risvolti giudiziari, ma anche ad un indesiderato ed inopportuno contatto con l’autore delle violenze. Si può parlare di vittimizzazione secondaria anche quando le autorità mettano in dubbio la ricostruzione dei fatti proposta dalla vittima facendo leva su caratteristiche personali che ne minerebbero la credibilità – quali una scarsa educazione, una condizione socio-economica precaria e uno stile di vita ritenuto “non convenzionale”; in tale ambito, i mass media giocano un ruolo fondamentale nel processo di sovraesposizione mediatica delle vittime, diffondendo dati ed informazioni sensibili relativi alla loro vita, alla vicenda che le ha viste – loro malgrado – protagoniste e alle relative conseguenze fisiche e psicologiche.

Nonostante sul tema vi sia ricca e variegata letteratura[14] – e nonostante gli effetti sulla salute e la sicurezza delle donne siano noti ed evidenti, diversi paesi, tra cui il nostro, hanno compiuto ben pochi sforzi per contrastare il fenomeno.

L’Italia, pur dotandosi, nel corso degli anni, di una normativa sempre più completa per quanto riguarda il contrasto alla violenza di genere[15], non ha mai approntato alcuno strumento giuridico per combattere lo specifico fenomeno del c.d. victim blaming.

Invero, ancora nel 2017, il Comitato delle Nazioni Unite nel quadro CEDAW, nel suo report annuale, evidenziava come le autorità italiane dovessero ancora affrontare un notevole problema culturale legato a (a) radicati stereotipi di genere circa i ruoli di uomini e donne nella famiglia e nella società, (b) scarsi interventi culturali ed educativi per eliminare simili stereotipi, (c) la diffusione di una narrativa maschilista e sessista e (d), in via intersezionale, la critica situazione delle donne di origine straniera, esposte ad aggressioni, violenze e discriminazioni di matrice sessista e xenofoba, anche alla luce di una situazione sociale non favorevole[16]. In tale sostrato culturale – continuava il rapporto – l’Italia ha un numero elevato di femminicidi e i rimedi concessi alle vittime sono molto spesso inadatti a garantire adeguato supporto e sostegno oltre a riconoscere un giusto risarcimento per le violenze subite[17].

La sentenza sul caso J.L. c. Italia

Pronunciandosi sulla vicenda della Fortezza da Basso, la Corte, a mente dei principi generali relativi all’applicazione dell’art. 8 CEDU, ha avuto modo di valutare nel complesso la condotta delle autorità italiane e il trattamento riservato alla ricorrente.

In primo luogo, i giudici hanno evidenziato, da una parte, la completezza del quadro legislativo italiano[18] e, dall’altro, l’efficienza degli inquirenti nello svolgimento delle dovute indagini e, di poi, con l’apertura di un procedimento a carico degli imputati[19]. Il focus si è concentrato su un elemento più specifico, ossia le circostanze in cui la ricorrente è stata ascoltata dagli inquirenti e le argomentazioni addotte dalla Corte d’Appello della sua pronuncia.

Sotto il primo profilo, la valutazione della Corte è sostanzialmente positiva: la ricorrente non si trovava in una situazione di particolare pericolo o vulnerabilità, non è mai stata a contatto diretto con gli imputati e le sue deposizioni sono state raccolte seguendo procedure regolari e rispettose dei suoi diritti, con domande pertinenti e puntuali rispetto alle esigenze investigative[20].

Ben diverse – e tutt’altro che positive – sono state invece le conclusioni dei giudici sul contenuto della decisione d’appello.

Pur non volendo – né potendo – entrare nel merito della vicenda, la Corte ha censurato con durezza alcuni passaggi della sentenza della Corte d’Appello di Firenze, giudicando come inappropriati” e “ingiustificati” i riferimenti alla vita relazionale e all’orientamento sessuale della ricorrente, alla sua condotta e persino ai suoi interessi, così come sono deplorevoli” e “irrilevanti” i tentativi dei giudici di merito di stigmatizzare il momento di fragilità della ricorrente e le sue abitudini di vita, ritenute “non convenzionali[21]. Argomentazioni, queste, che la Corte ha considerato né utili per valutare la credibilità della ricorrente[22], né pertinenti, né, tantomeno, determinanti per giungere ad una sentenza[23].

Simile conclusione, indipendentemente dal merito della decisione circa l’assoluzione degli imputati, ha determinato una violazione degli obblighi positivi in capo alle autorità nazionali scaturenti dall’articolo 8 CEDU, che impone di proteggere le vittime non solo con riguardo alla loro integrità fisica, ma anche alla loro immagine, dignità e vita privata. In un passaggio particolarmente significativo, la Corte ha evidenziato come la facoltà dei giudici di esprimersi liberamente nel formulare le proprie decisioni – quale espressione della discrezionalità e dell’indipendenza dei giudici – trova necessariamente un limite nell’obbligo, appunto, di tutelare le vittime e la loro immagine[24].

Secondo i giudici, simili affermazioni non sono occasionali ma, al contrario, rappresentano una serie di pregiudizi e stereotipi sul ruolo delle donne assai radicati nella società italiana e che rappresentano un ostacolo alla protezione delle vittime di violenza di genere[25].

I pregiudizi sono duri a morire

La Corte, che ha riconosciuto a favore della ricorrente un risarcimento per danni morali di circa 12mila euro, ha concluso la sua pronuncia invitando le autorità italiane a non promuovere, neppure implicitamente, stereotipi di genere, minimizzando le violenze contro le donne ed esponendo le vittime ad episodi di victim blaming.

Un invito che, però, rischia di rimanere inascoltato.

La questione di genere è un tema ancora aperto nel dibattito pubblico e politico italiano, dove non mancano episodi di esplicito sessismo e misoginia, anche da parte di esponenti delle istituzioni. Un problema culturale, come detto, diffuso e radicato e che, come nel caso di specie, è esteso anche alle autorità giudiziarie, che dovrebbero rappresentare, almeno teoricamente, baluardo di equità ed uguaglianza.

In questo senso, l’adeguamento agli standard europei ed internazionali e la definizione di protocolli più stringenti nello svolgimento di processi su casi di violenza di genere sono un passo importante nel garantire maggiori tutele e protezione alle vittime.

D’altra parte, è difficile immaginare che un simile retaggio culturale possa essere cancellato con il semplice utilizzo di norme o best practices giudiziarie. Diversi studi, infatti, evidenziano come la composizione di genere dei collegi giudicanti incida in maniera apprezzabile sull’esito dei giudizi inerenti a casi di violenza e discriminazione di genere[26]: nei sex discrimination cases la probabilità che un giudice donna voti a favore dell’attore supera il 60%, mentre la probabilità del voto favorevole da parte di un giudice uomo è inferiore al 38%[27]. Ma vi è di più: l’inserimento di un giudice donna in un panel composto da soli giudici uomini può far aumentare dell’85% le probabilità che anche i giudici uomini votino in favore della ricorrente[28].

Al netto dei dati e delle statistiche (su cui incide anche la tradizione giuridica e culturale del singolo paese), vi è poi un altro tema, quello della legittimità delle decisioni. Un’adeguata sex representation contribuisce ad infondere fiducia nei consociati e nelle parti del procedimento, che, in casi legati a discriminazione e violenza di genere, considerano collegi equamente composti come “normatively legitimate to rule”; una legittimazione, dunque, metagiuridica. È infatti fuori di dubbio che giudici uomini e giudici donne decidano diversamente, in quanto portatori di diverse sensibilità ed inclinazioni: l’equa rappresentanza di entrambi i sessi è necessaria per giungere ad una decisione priva di pregiudizi[29]. Al contrario, un collegio in cui uno dei due sessi sia sottorappresentato o assente è “inherently biased” e non godrà di alcuna fiducia e riconoscimento. Una questione che può essere riassunta con la massima “There can be no fair trial before a biased bench[30].

Nonostante le inevitabili difficoltà, una più accorta composizione dei collegi e una preparazione giuridica più gender-oriented sono necessari perché le vittime di violenza possano essere adeguatamente protette e tutelate.

 

[1] Corte EDU, J.L. c. Italia, ricorso n. 5671/2016, sentenza 27 maggio 2021 (Prima Sezione).

[2] Camera dei Deputati, 13 settembre 2016 (https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg17/attachments/shadow_newsletterr/file_names/000/000/623/newsletter_155.htm).

[3] Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, 1979 (http://www.cidu.esteri.it/resource/2016/09/48434_f_CEDAWmaterialetraduzione2011.pdf).

[4] Dichiarazione dei Principi Fondamentali di Giustizia per le Vittime di Reato e di Abuso di Potere (A/RES/40/34) del 29/11/19085 (http://www.un-documents.net/a40r34.htm)

[5] Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012 , che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32012L0029&from=IT).

[6] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Istanbul, 11 maggio 2011 (https://web.archive.org/web/20131220221333/http://www.lavoro.gov.it/ConsiglieraNazionale/LM/AREAINTERNAZIONALE/Documents/2011-05-11%20Convenzione%20Istanbul%20violenza%20donne.pdf).

[7] Corte EDU, Odièvre c. Francia, ricorso n. 42326/98, sentenza 13 febbraio 2003, §42; Corte EDU, Glass c. Regno Unito, ricorso n. 61827/00, sentenza 9 marzo 2004, §§74-83; Corte EDU, Sandra Janković c. Croazia, ricorso n. 38478/05, sentenza 5 marzo 2009, §45.

[8] Corte EDU, A, B e C c. Irlanda, ricorso n. 25579/05, sentenza 16 dicembre 2010, §245; Corte EDU, Airey c. Irlanda, ricorso n. 6289/73, sentenza 6 febbraio 1981, §33; Corted EDU, McGinley e Egan c. Regno Unito, ricorsi nn. 1825/93 e 23414/94, sentenza 28 gennaio 2000, §101; Corte EDU, Roche c. Regno Unito, ricorso n. 32555/96, sentenza n. 19 ottobre 2005, §162.

[9] Corte EDU, X e Y c. Paesi Bassi, ricorso n. 8978/80, sentenza 26 marzo 1985, §27; Corte EDU, M.C. c. Bulgaria, ricorso n.  39272/98, sentenza 4 dicembre 2003, §150.

[10] Tale obbligo è però una mera obbligazione di mezzi e non di risultato, si veda Corte EDU, C.A.S. e C.S. c. Romania, ricorso n. 26692/05, sentenza 20 marzo 2012, §72; Corte EDU, M.P. e altri c. Bulgaria, ricorso n. 22457/08, sentenza 15 novembre 2011, §§109-110; Corte EDU, M.C. c. Bulgaria, ricorso n. 39272/98, sentenza 4 dicembre 2003, §152.

[11] Corte EDU, C.A.S. e C.S. c. Romania, cit., §72.

[12] Corte EDU, Y c. Slovenia, ricorso n. 41107/10, sentenza 28 maggio 2015.

[13] Ibid., §§114-116 (traduzione su Guida all’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, Diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, .

[14] Che spazia dall’ambito giuridico a quello sociologico e psicologico, a partire da Ryan W., Blaming the victim, Vintage Books, 1976, Pennington L., Everyday Victim Blaming: Challenging Media Portrayals of Domestic and Sexual Violence and Abuse, EVB Press, 2015, e Raphael J., Rape Is Rape: How Denial, Distortion, and Victim Blaming Are Fueling a Hidden Acquaintance Rape Crisis, Chicago Review Press, 2013.

[15] A partire dalla legge che ha introdotto nel nostro ordinamento la fattispecie del femminicidio (Legge n. 119/2013) e la recente legge sul c.d. “Codice Rosso” (Legge n. 69/2019), peraltro criticata per la sua scarsa efficacia.

[16] Concluding observations on the seventh periodic report of Italy, 24 luglio 2017, §25 (https://undocs.org/en/CEDAW/C/ITA/CO/7)

[17] Ibid., §27.

[18] Corte EDU, J.L. c. Italia, cit., §121, vds. nota 15.

[19] Ibid., §§123-124.

[20] Ibid, §§126–133, con un esito sostanzialmente opposto rispetto alle conclusioni ricavate in Y c. Slovenia.

[21] Ibid., §136.

[22] Ibid, §138.

[23] Ibid, §137.

[24] Ibid, §139.

[25] Ibid, §140.

[26] PERESIE J., Female Judges Matter: Gender and Collegial Decision-making in the Federal Appellate Courts, Yale Law Journal, Volume 14, n. 7, 2005, pp. 1776-1778: in particolare si pone l’attenzione al dato che la presenza di un giudice donna nel collegio giudicante aumenta “more than doubled the probability that a male judge ruled for the plaintiff in sexual harassment cases (increasing the probability from 16% to 35%) and nearly tripled this probability in sex discrimination cases (increasing it from 11% to 30%)”; FARHANG S., WAWRO G., Indirect influence of Gender on the U.S Court of Appeals: Evidence from Sexual Harassment law, Columbia University, Working Paper, 2012, p. 26 e ss; ALLEN D. W., WALL D. E., Role Orientations and Woman State Supreme Court Justice, 77 Judicature 156, 159-65 (1993): questo studio è stato condotto su un numero indefinito di casi riguardanti 18 differenti aree del diritto, decisi da 21 differenti Corti supreme fra il 1975 e 1988.

[27] BOYD L., EPSTEIN L., MARTIN D. A, Untangling the casual effects of sex in Judging, American Journal of Political Science, vol. 54, issue 2, 2010, pp. 401-402: lo studio dimostra, quindi, che giudici uomini e giudici donne decidono casi simili in modo diverso (c.d “individual effects”).

[28] BOYD L., EPSTEIN L., MARTIN D. A, op. cit., p. 406: “The presence of a female on the panel actually causes male judges to vote in a way they otherwise would not in favor of the plaintiff” il c.d. “panel effects”. Si sottolinea che questo studio analizza i risultati di 13 diverse aree del diritto, ma che esclusivamente in quella della sex discrimination si notano fluttuazioni percentuali molto elevate. Si conclude, quindi, che la presenza di giudici donne non ha, in quest’ambito, solo una forte implicazione simbolica, ma anche pratica.

[29] GROSSMAN N., Sex on the Bench: Do Woman Judges Matter to the Legitimacy of International Courts?, Chicago Journal of International Law, Vol.12, n.2, art. 9, pp. 651. Nello specifico lo studio ha ad oggetto la legittimazione delle Corti internazionali. Questa difesa non vede ragione di non poterlo applicare anche alle corti nazionali, per le quali il problema della legittimazione è forse ancora più delicato; FALLON R. H. JR., Legitimacy and the Constitution, Harvard Law Review, pp. 1787-1795 (2005). WALD P. M., Six Not-So-Easy-Pieces: One Woman’s Judge’s Journey to the Bench and Beyond?, 36 Università di Toledo Law Review pp. 979-989 (2005), si portano all’attenzione di questa Ecc.ma Corte le parole del giudice Patricia Wald, già giudice federale americano e giudice presso il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia: “Io penso che essere una donna ed essere trattata dalla società come una donna può essere un elemento vitale dell’esperienze di un giudice. Ciò può modificare la lente attraverso la quale lei analizza i problemi e le soluzioni. Un giudice è la somma delle sue esperienze, e se lei ha sofferto svantaggi e discriminazioni in quanto donna, è capace di essere sensibile alle sottili espressioni o al paternalismo”; HALE B., HUNTER R., A Conversation with Baroness Hale, Feminist Legal Studies Vol. 16, pp. 237-245 (2008), la Baronessa Hale, fino al 2009 il solo giudice donna della Corte Suprema inglese, ha dichiarato che condurre una vita da donna ha fatto la differenza nelle sue decisioni “in some areas (omissis) the most obvious being child-bearing and sexuality”.

[30] GROSSMAN N., op. cit., pp. 652 – 655.

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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