Ricorso per Cassazione penale: il “test di ammissibilità”
Il vaglio di specificità e decisività dei motivi è una delle maggiori barriere di ammissibilità del ricorso per Cassazione. Una breve analisi del c.d. “test di ammissibilità”.
Il ricorso per Cassazione è un “affare” serio poiché provoca la riapertura della iurisdictio e, in quanto tale, serie devono essere anche le pretese del ricorrente che tramite esso vengono fatte valere. Il ricorso è, non a caso, l’atto più complesso dell’intero sistema processuale e numerosi sono gli ostacoli disseminati lungo la sua via: la scrittura dell’atto di impugnazione è senz’altro uno di quelli.
In un precedente articolo si è trattato di due “selettori” dell’impugnabilità soggettiva: l’uno, automatico, è la legittimazione ad impugnare; l’altro, non automatico, è l’interesse a ricorrere. Superato questo primo scoglio, però, il ricorso per Cassazione non è per questo solo ammesso al “test di fondatezza” da parte del giudice di legittimità. Prima è sottoposto ad un “test di ammissibilità” affidato alla Settima Sezione Penale, la c.d. Sezione-filtro.
Il test di ammissibilità si ricava dall’art. 581 c.p.p., disposizione generale sulle impugnazioni cui è affidato il compito di disciplinare la forma dell’atto di impugnazione, che dispone:
«L’impugnazione si propone con atto scritto nel quale sono indicati il provvedimento impugnato, la data del medesimo, il giudice che lo ha emesso, e sono enunciati:
- I capi o i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione;
- Le richieste;
- I motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta».
Il ricorrente, allora, dovrà dimostrare la decisività, specificità e non novità (salve le eccezioni dell’art. 609 c.p.p.: questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello) dei motivi di ricorso. Un’impugnazione basata su motivi aspecifici o non decisivi è evidentemente un’impugnazione poco seria e molto probabilmente infondata.
Quanto al primo criterio di ammissibilità, la specificità, esso è funzionale all’individuazione delle critiche rivolte alla sentenza impugnata e a dimostrare la serietà dell’impugnazione, atteso che una contestazione aspecifica è evidentemente poco seria poiché dimostra l’incapacità del ricorrente di indicare al giudice ad quem i vizi della decisione denunziata.
In base al dettato codicistico, un motivo di ricorso è specifico quando individua:
- l’oggetto dell’impugnazione (i capi o i punti della decisione);
- la motivazione (le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta);
- la conclusione (le richieste).
La specificità è, ad ogni modo, un concetto (forse) eccessivamente elastico che dà adito ad interpretazioni soggettive, poiché ciò che è specifico per un giudice può non esserlo per un altro. Problemi pratici sorgono, così, nell’applicazione di questo criterio di ammissibilità, dato che sempre più spesso la Suprema Corte cade nella tentazione di utilizzarlo come criterio di giustificazione per respingere o ammettere ricorsi sulla base delle sue convinzioni circa la “giustezza” della sentenza – il che è inaccettabile per un giudice che dovrebbe guardare solo al diritto, e ancor più per la Sezione-filtro che non si occupa della fondatezza del ricorso, ma del vaglio di correttezza formale e logica dell’atto di impugnazione.
L’aspecificità può assumere vari aspetti, e compito della Sezione-filtro è, tra l’altro, riconoscerla in tutte le sue sfaccettature, tenendo come parametro la sentenza-tipo della Corte di Cassazione: come afferma Francesco Mauro Iacoviello, «il ricorso è specifico quando il motivo potrebbe essere recepito come un pezzo della sentenza della cassazione. Cioè […] quando si dice: “se fosse vero tutto quello che è scritto lì e se non c’è nient’altro, il ricorso andrebbe accolto”». L’atto di impugnazione, cioè, andrebbe scritto come fosse una sentenza del giudice di legittimità – ma dal punto di vista del ricorrente – con piena aderenza alla decisione impugnata e con riferimento alle informazioni fattuali e alle argomentazioni in essa utilizzate, sviluppando un nuovo percorso logico sulla base di esse. Con la conseguenza che è aspecifico il motivo generico e privo di concretezza – poiché non fa riferimento alcuno agli elementi fattuali e agli argomenti adoperati nella decisione impugnata oppure, se anche un riferimento c’è, manca un’argomentazione logica che li ponga in relazione – , così come aspecifico è il motivo che, al contrario, pecca di eccessività quanto ad informazioni e argomenti senza un collegamento logico, o il motivo incompleto poiché non attacca tutti i passaggi logici su cui si regge la decisione impugnata – per cui, se pure fosse fondato, non sarebbe sufficiente a sostanziare l’efficacia demolitoria dell’impugnazione – .
Il problema dell’aspecificità si intreccia inevitabilmente con il principio dell’autosufficienza dei motivi di ricorso – mutuato dalla giurisprudenza civile che, a sua volta, lo trae dall’art. 360 n. 5 c.p.c. (per la recezione e applicazione del principio in sede penale, cfr. Cass. penale 22 aprile 20088, n. 240123) – , in base al quale sul ricorrente grava un onere di allegazione degli elementi di fatto posti a fondamento della sua pretesa. Il principio si rivela funzionale a rassicurare il giudice dell’impugnazione della verità dei fatti di cui si discute e ad alleggerire il suo carico di lavoro, evitandogli una dispendiosa (di energie) ricerca delle informazioni negli atti processuali.
Quanto all’altro requisito di ammissibilità del ricorso per Cassazione, la decisività del motivo, esso è agevolmente ricavato dallo stesso art. 581 c.p.p., seppure il legislatore non lo nomini espressamente. Se, infatti, i motivi di ricorso sorreggono le richieste del ricorrente e, trattandosi di un giudizio di cassazione, la richiesta è tesa all’annullamento di un capo di sentenza (inteso come “statuizione autonoma del dispositivo”) – ma il discorso si applica anche all’appello, atteso che l’art. 581 c.p.p. è norma di carattere generale – , allora il motivo deve necessariamente colpire un punto decisivo della decisione impugnata (fermo restando che per “punto” della sentenza si intende il “passaggio logico-giuridico” posto alla base del singolo “capo”), nel senso che il punto deve essere decisivo per l’annullamento della sentenza.
Trattandosi di un requisito di ammissibilità, è onere del ricorrente dimostrare la decisività del motivo. Se, però, la decisività dei motivi riguardanti vizi insanabili degli atti di impulso processuale – i quali si trasformano in vizi della sentenza – è in re ipsa, lo stesso non si può dire per quelli concernenti i vizi degli atti di acquisizione probatoria, per cui si impone una “prova di resistenza”: tali motivi sono decisivi solo se i vizi minano alla struttura logica della decisione stessa, per cui in mancanza della prova la sentenza non regge.
Si pongono, in relazione dalla prova di resistenza, due ordini di problemi. In primis, non è chiaro se la Cassazione possa, d’ufficio, ricavare la decisività del motivo interpretando l’atto di ricorso qualora il ricorrente non affronti espressamente la questione. Tendenzialmente si ammette tale possibilità in virtù del principio di conservazione degli atti processuali.
In secundis, non minori problemi pone la questione se la decisività debba essere una qualità del singolo motivo o si tratti di una decisività globale, atteso che generalmente la sentenza poggia su una pluralità di prove tra loro collegate. La risposta in un senso piuttosto che in un altro comporta conseguenze sul piano dell’equità, considerando che la negazione del concetto di decisività globale avrebbe come conseguenza l’inammissibilità di prove che, da sole, non sarebbero in grado di sorreggere la decisione ma che, insieme, risultano decisive. Ma, dall’altro lato, una valorizzazione della decisività globale diluisce «la decisività nella mera rilevanza» (IACOVIELLO). Una soluzione proposta è quella di «aggiornare costantemente, in corso d’opera, il giudizio di decisività», eventualmente, nel caso di una pluralità di prove coordinate, valutando prioritariamente la fondatezza del motivo concernente una delle prove e poi la sua decisività rispetto alle altre prove contestate (IACOVIELLO).
Superato anche il test di ammissibilità, finalmente il ricorso potrà essere sottoposto al test di fondatezza, al cui termine verrà adottata una sentenza di accoglimento o di rigetto.
Fonti: “La Cassazione Penale”, F. M. Iacoviello.
Raccontarsi in poche righe non è mai semplice, specialmente laddove si intende evitare l’effetto “lista della spesa”. Cosa dire di me, dunque, in questa piccola presentazione per i lettori di “Ius in itinere”? Una cosa è certa: come insegnano le regole di civiltà e buona educazione, a partire dal nome non si sbaglia mai.
Mi chiamo Laura De Rosa e sono nata nella ridente città di Napoli nel 1994. Fin da bambina ho coltivato la mia passione per la scrittura, che mi ha portato a conseguire col massimo dei voti nel 2012 il diploma classico presso il liceo Adolfo Pansini. Per lungo tempo, così, greco e latino sono stati per me delle seconde lingue, tanto che al liceo rimproveravo scherzosamente la mia professoressa di greco accusandola del fatto che a causa sua parlassi meglio delle “lingue morte” piuttosto che l’inglese. Tuttavia, ciò non ha impedito che anche io perdessi la mia ignoranza in proposito e oggi posso vantare un livello B2 Cambridge ed una forte aspirazione al C1. Parlo anche un po’ di spagnolo e, grazie al programma Erasmus Plus che mi ha portato nella splendida Lisbona, ora posso dire con fierezza che il portoghese non è più per me un mistero.
Sono cresciuta in un ambiente in cui il diritto è il pane quotidiano ed ho sempre guardato a questo mondo come a qualcosa di familiare e allo stesso tempo estraneo, perché talvolta faticavo a comprenderlo. Approcciata agli studi legali, invece, la mia visione delle cose è cambiata e mi sono accorta come termini che prima mi apparivano incomprensibili e lontani invece rappresentano la realtà di tutti giorni, anzi ci permettono di vedere e capire questa realtà. Ho affrontato, nel mio percorso universitario, lo studio del diritto penale con uno spirito critico mosso da queste considerazioni e sono giunta alla conclusione che questo ramo è quello che, probabilmente, più di tutti gli altri rappresenta l’uomo. Oggi sono iscritta all’ultimo anno della laurea magistrale presso l’Università Federico II di Napoli e, nonostante non ci sia branca del diritto che manchi di destare la mia curiosità, sono sempre più convinta di voler dare il mio contributo all’area penalistica. L’esser diventata socia di ELSA sicuramente ha rappresentato per me un’ottima opportunità in questo senso.
Scrivere per un giornale non è, per me, un’esperienza nuova. La mia collaborazione con “Ius in itinere” ha però un sapore diverso: nasce dal desiderio di mettermi in gioco come giurista, scrittrice e membro della società.
Il diritto infatti, come l’uomo, vive e si sviluppa. E come l’uomo ha un animo, aspetto da tenere sempre presente quando ci si approccia a studi giuridici. Mia volontà è dare un contributo a questo sviluppo nell’intento e nella speranza di collaborare ad un diritto più “giusto” e più “umano”. Oggi nelle vesti di scrittrice, un domani in un ruolo ancor più attivo.
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