Strategie di contrasto al Covid-19 e knowledge sharing: una missione possibile per le “buone prassi” in tema di sicurezza ed igiene sul lavoro
A cura di Nicola Spadafora e Lorenzo Maratea, Studio Legale Tonucci & Partners
La situazione drammatica vissuta dal nostro Paese nella gestione dell’emergenza legata al Covid-19 ha fra le sue tante implicazioni una circostanza che assume rilievo ai fini della normativa prevenzionistica e cioè che a molti imprenditori e lavoratori è e sarà richiesto di operare nella consapevolezza del rischio di contagio da COVID-19. Il tavolo fra Governo e Parti Sociali ha dato luogo ad un Protocollo, quello del 14 marzo 2020 che traccia alcune linee guida (facoltà di misurazione della temperatura corporea all’ingresso dei luoghi di lavoro, misure di distanziamento et cetera), ma non fornisce soluzioni operative in grado di coprire in modo esauriente l’ampia gamma di rischi di contagio connessi alle diverse lavorazioni[1].
Il tema della sicurezza, già ordinariamente scottante, è ora in primissimo piano, unitamente a quello dell’igiene e della tutela della salute sui luoghi di lavoro. Pare appena il caso di notare che il COVID-19 risulta perfettamente coerente con la definizione di “agente biologico” di cui all’art. 267 del d.lgs. 81/2008: “qualsiasi microrganismo anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni” e questo suscita la convinzione che, proprio sul terreno del Testo Unico, vada cercata una chiave di lettura operativa per migliorare la risposta del nostro ordinamento alla minaccia rappresentata dal virus[2].
Come noto, il d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81 (così come modificato dal d.lgs. n. 106 del 2009 e dal d.lgs. n. 151 del 2015) è la fonte principale in tema di sicurezza sul lavoro. Nelle pieghe di un articolato complesso è presente una norma che, nel quadro attuale, suscita interesse: si tratta della lettera v) dell’art. 2[3].
La disposizione prevede la possibilità per i datori di lavoro di elevare proprie “soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la normativa vigente e con le norme di buona tecnica” al rango di “buone prassi”. Ciò si verifica quando il soggetto pubblico, esaminata la soluzione escogitata dalla singola impresa, la ritiene proficua, la valida all’esito di un’istruttoria tecnica e ne cura la pubblicizzazione[4].
La buona prassi costituisce, dunque, il momento in cui un’esperienza individuale (quella di un’impresa che adotti una misura efficace nel ridurre un rischio) diviene patrimonio collettivo, giovando ad una pluralità di soggetti.
Il tema della sicurezza sul lavoro – tema già ordinariamente critico per un sistema come quello italiano che non riesce a contrastare il fenomeno delle morti bianche – esige ora soluzioni nuove, perché nuova e per molti versi ignota è la minaccia rappresentata da COVID-19.
Un’idea potrebbe essere quella di dare nuova vita alla lettera v) dell’art. 2 del d.lgs. 81 del 2008 e semplificare e velocizzare i meccanismi (a) di trasmissione delle esperienze che nei prossimi giorni le imprese dovranno maturare sul fronte del contrasto alla diffusione dell’epidemia (b) di validazione delle stesse e di (c) diffusione.
Le imprese e i lavoratori – pur travolti dai risvolti negativi di un’epidemia economicamente disastrosa – hanno bisogno di condividere il più possibile le soluzioni che si rileveranno vincenti ed effettivamente in grado di generare un apporto in termini di riduzione del rischio di contagio.
Sarebbe proficuo se lo spirito di solidarietà nazionale riuscisse a sprigionarsi non solo sui balconi, come pure sta lodevolmente avvenendo, ma anche in termini di condivisione di pratiche proficue; parlo delle misure di distanziamento fra gli addetti presenti sui luoghi di lavoro, delle regole di afflusso e deflusso dai luoghi di lavoro, delle pratiche di igienizzazione dei siti, della gestione dei casi di sospetto contagio. Parlo anche, banalmente, di tecniche automatiche di rilevazione della temperatura corporea, profilo questo che, peraltro, suscita non pochi problemi in punto di normativa privacy. Basti considerare che il Garante Privacy con la comunicazione del 2 marzo 2020 non ha esitato a dire che “i datori di lavoro devono […] astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera extra lavorativa”.
La posizione del Garante Privacy, così dissonante con i contenuti del Protocollo del 14 marzo 2020 rende evidente che sotto i colpi del Covid-19 si stanno allargando le prerogative dei datori di lavoro privati. Questo ampliamento può operare anche in un campo leggermente diverso da quello meramente gestionale del rapporto di lavoro (si pensi alle previsioni emergenziali sull’assegnazione di ferie forzate da parte dei datori) e cioè in quello della produzione di prassi utili alle altre imprese ed ai lavoratori e ciò a condizione che il soggetto pubblico si riservi ed assolva (nei tempi assolutamente serrati imposti dal contagio e della sua diffusione) la funzione di verificare la bontà di tali prassi e semplificando al massimo i meccanismi ed i criteri di trasmissione delle esperienze.
Si tratta di immaginare una sinergia fra soggetto pubblico e privato che veda il privato effettivamente attivo in una logica di responsabilità sociale ed il pubblico, attivo al suo fianco, nel certificare prima e nel diffondere subito dopo la “buona prassi”[5].
Un decreto legge potrebbe dettare regole semplici affinché gli imprenditori possano facilmente esporre il contenuto della pratica; per esempio, l’upload di video rappresentativi dell’esperienza compiuta dalla singola impresa potrebbe rappresentare una via immediata di trasmissione della soluzione adottata dall’impresa e ritenuta “buona”; il caricamento su una piattaforma dedicata, collocata sul sito dell’INAIL potrebbe costituire un meccanismo adeguato. Si potrebbe pensare a una modifica, in pari tempo, degli assetti degli organi che oggi validano le prassi effettivamente buone (la Commissione Consultiva Permanente e l’INAIL, quale erede del “soppresso” ISPESL[6]) e le trasmettono affinché possano divenire patrimonio comune. Pare appena il caso di dire che si potrebbe pensare al coinvolgimento di figure di primo piano in ambito infettivologico ed epidemiologico[7]. Non sarebbe scandaloso pensare a forme di reward per le imprese effettivamente in grado di arricchire il patrimonio di conoscenze attualmente disponibili[8].
Vale la pena riflettere su misure di questo genere; nell’“ora più buia” non è assurdo supporre che una risposta possa prevenire da una nuova e rilanciata accezione della partnership pubblico-privato e da quegli strumenti di soft law, tante volte dimenticati, che possono generare conoscenza, il valore immateriale di cui oggi si sente più bisogno.
[1] Ci si riferisce al “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto da Governo e parti sociali il 14 marzo 2020.
[2] Per una ricognizione del Testo Unico, si rinvia a F. Bacchini, Il c.d. Testo Unico sulla sicurezza: sguardo d’insieme e prime riflessioni in Diritto delle Relazioni Industriali, 2, 2008, pag. 2112.
[3] La norma definisce le “buone prassi” come segue: “soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la normativa vigente e con le norme di buona tecnica, adottate volontariamente e finalizzate a promuovere la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro attraverso la riduzione dei rischi e il miglioramento delle condizioni di lavoro, elaborate e raccolte dalle regioni, dall’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL), dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e dagli organismi paritetici di cui all’articolo 51, validate dalla Commissione consultiva permanente di cui all’articolo 6, previa istruttoria tecnica dell’ISPESL, che provvede a assicurarne la più ampia diffusione”.
[4] La disposizione fa riferimento ad una pluralità di soggetti pubblici: ai fini dell’elaborazione e della raccolta, il testo indica le regioni, l’ISPESL (ora soppresso), l’INAIL e gli organismi paritetici di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 81/2008. Ai fini della validazione il decreto legislativo indica la Commissione consultiva permanente di cui all’art. 6 (d.lgs. n. 81/2008) ed il soppresso ISPESL.
[5] Sul tema della responsabilità sociale di impresa, si rinvia ad A. Sitzia, D. Sega, Le “dimensioni” della responsabilità sociale dell’impresa e le fonti di regolazione: questioni in materia di impresa, lavoro e sicurezza in Diritto delle Relazioni Industriali, 3, 2011, pag. 673.
[6] L’ISPESL è stato soppresso dall’art. 7 del D.L. n. 78 del 31 maggio 2010 (conv. nella Legge n. 122 del 2010).
[7] L’art. 6 del d.lgs. n. 81 del 2008 disciplina dettagliatamente la composizione della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro e prevede, al comma 4, la facoltà per la stessa di avvalersi della “consulenza” di altri “istituti pubblici” e della “partecipazione di esperti nei diversi settori di interesse”.
[8] La possibilità che l’impresa goda della riduzione dei premi e dei contributi dovuti all’INAIL in ragione della correttezza del proprio operato sul fronte anti-infortunistico è comprovato dal dettato dell’art. 1, comma 128 della Legge n. 147 del 2013.