Le infrastrutture in Italia: semplificazione e impatto economico
Oggi si tende a sottovalutare il tema della semplificazione senza comprendere che semplificare non significa ridurre le tutele soprattutto in materia di ambiente e di interessi sensibili. Semplificare significa conservare le tutele e rispettare la complessità sempre maggiore rendendo però allo stesso tempo le regole fruibili, applicabili, garantendo la tutela ma evitando che sia eccessiva.
Semplificare, però, ad oggi appare complicato in quanto vi sono delle resistenze. Basti pensare, ad esempio, alla sindrome Nimby e al Nimby forum dove sono descritte tutte le opere finanziate e non realizzate, a causa dei comitati civici che si sono opposti e hanno espresso parere sfavorevole. Dunque, semplificare è complicato ma se non si attua questo processo, i diritti fondamentali dei cittadini sono impressi sulla Carta costituzionale perdendosi poi nella tortuosa burocrazia. La semplificazione è un aspetto cruciale per l’economia ed è un elemento di competitività per il Paese.
Dunque è fondamentale vincere le resistenze e perseguire questo obiettivo. In merito al tema delle infrastruttre, la semplificazione è il vero punto di equilibrio in quanto aiuta a “fare” le infrastrutture, perché semplificando si ottengono tempi più rapidi e procedure più efficaci per la realizzazione delle opere pubbliche che è quello che serve per la crescita ma, al tempo stesso, il processo di semplificazione garantisce la tutela degli interessi più deboli, spesso minati dalle finte garanzie, le cosiddette “garanzie formali” le quali, sovente, rappresentano una perdita di tempo e non proteggono in concreto gli interessi da tutelare. “Semplicità significare sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo”[1].
E’ necessario quindi aggiungere le tutele ma lasciare l’essenziale. In quest’ottica, la semplificazione ha un ruolo centrale tra infrastrutture e ambiente, chiaramente se il processo fosse attuato. Ad oggi, invece, a causa delle resistenze presenti sia nell’ordinamento che tra gli operatori, alcuni istituti giuridici molto noti come ad esempio l’autotutela, il silenzio assenso della pubblica amministrazione, la conferenza dei servizi, paralizzano la pubblica amministrazione. Gli amministratori dovrebbero essere pagati per agire e non per rimanere in silenzio.
Chiaramente il problema non è sempre nella legge, soprattutto quando, la stessa legge, in alcune parti d’Italia funziona, facendo riferimento alla conferenza dei servizi, per la realizzazione delle infrastrutture e, in altre zone del Paese non funziona. Il problema va ricercato nella pubblica amministrazione che deve dotarsi di buoni piloti amministratori in grado di recuperare l’esercizio della discrezionalità amministrativa.
Fra la legge e il giudice dovrebbe esserci un’amministrazione in grado di riempire lo spazio, invece l’amministrazione ha perso il coraggio di esercitare lo spazio tra la legge e il giudice e si finisce per amministrare per silenzi, meccanismi automatici, per leggi-provvedimento dove decide la legge o si amministra per sentenza, quindi si realizzano opere rimettendo la decisione al TAR. Spesso si afferma che l’Italia non ha una politica ambientale, non ha una politica dei porti, non ha una politica infrastrutturale e il Paese appare privo di qualsiasi progettazione e di qualunque capacità di pianificazione.
Sembriamo vivere nel regno del contingente, del provvisorio e dell’occasionale. Queste critiche, però, non possono essere riferite al piano delle infrastrutture perché in Italia sono stati messi in atto una serie di strumenti di pianificazione, progettazione e programmazione delle grandi opere pubbliche che dal 2001 si sono susseguiti. La legge obiettivo n.443 del 2001 introdusse il programma infrastutturale strategico nel quale venivano evidenziate le grandi opere che si progettava di realizzare su tutto il territorio nazionale.
Quell’esperienza si rivelò fallimentare nonostante i tentativi anche creativi della Corte Costituzionale di ricondurre a ragione, a razionalità il Titolo V della Costituzione che aveva introdotto proprio in materia di infrastrutture la sussidiarietà “ascendente”. Nonostante gli sforzi, questa legge obiettivo ha rivelato tutti i suoi limiti, non c’era una programmazione di lungo periodo, non c’era una previsione di analisi costi-benefici. Vi era una sorte di libro dei sogni che ci faceva immaginare il Ponte sullo stretto, raddoppio Roma-Firenze e quant’altro senza, però, una programmazione finanziaria di queste opere che le rendesse utili. Poi il d.lgs 50/2016[2], dopo aver fatto tesoro della cattiva esperienza della legge obiettivo, l’ha tenuta provvisoriamente in funzione introducendo significative innovazioni.
Nell’art.201, in particolare, si è previsto il piano generale dei trasporti e della logistica e poi è stato inserito anche il documento pluriennale di pianificazione che è di competenza specifica del Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti. Su questi generali strumenti pianificatori e programmatori si innesta poi la selezione di priorità che è definita negli allegati del documento del DEF.
L’allegato DEF del 2015 individuava 25 opere da realizzare per un valore complessivo di 71 miliardi, l’allegato DEF del 2017 ha definito il sistema nazionale delle infrastrutture, della logistica e dei trasporti un centro importante operando una selezione delle priorità, l’allegato DEF del 2018 segna gli stati di attuazione. Se prendiamo in considerazione l’allegato nel panorama normativo non possiamo certamente concludere che in Italia manca una programmazione, una pianificazione delle grandi opere pubbliche.
Non possiamo certo affermare che non c’è una politica delle infrastrutture però nonostante questo sforzo programmatorio e pianificatorio che coinvolge le amministrazioni più qualificate, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti dovrebbe essere l’amministrazione avente potere di proposta che identifica nella consultazione con gli stakeholders, con i portatori di interesse e nella sintesi politica del CIBE, del MEF le sequenze compresse attraverso cui si snoda l’attività in grado di definire un modello rispondente alle esigenze del reale.
Perché allora il modello non funziona? Perché siamo bloccati, non a caso è stato istituito un apposito programma, un apposito database delle opere incompiute. E’ iniziato un processo nella direzione della rimozione ed eliminazione dei blocchi che purtroppo sussistono, attraverso una consultazione pubblica con il Ministero delle Infrastrutture, promotore dell’iniziativa.
La consultazione è stata attivata online, con un protocollo informatico, attraverso una piattaforma accessibile a tutti e che ha riscosso successo. Da questa prima analisi non compiuta dall’alto, secondo una sorta di presupposizione di onniscienza che a volte può tentare l’amministratore italiano, formatosi sul mito napoleonico, che i bisogni devono essere evidenziati e selezionati a livello centrale e che poi la macchina amministrativa deve calare questi bisogni sulla realtà, all’opposto di quanto avviene nell’esperienza americana dove sono i cittadini a condizionare la formazione delle scelte politiche.
Dalla distillazione di questa consultazione è emerso quanto siano umilianti le percentuali sulla regolazione da parte delle linee guida AIR e sul soft law. Ed è in questo senso che la semplificazione svolge un ruolo centrale e che ha un ostacolo principale: la semplificazione non sarà realizzata se non eliminiamo la responsabilità, se non garantiamo le stesse forme di protezione che hanno i magistrati nell’esercizio della loro funzione indipendente.
La direttiva europea 2014 che ha riformato la direttiva sull’impatto ambientale aveva l’obiettivo ben preciso di introdurre nella regolazione ambientale la smart regolation e cioè quella regolazione non impegnativa. Questo è il tema di fondo della direttiva dove si parla di qualità, di efficienza, di celerità della questione ambientale. Lo stesso legislatore italiano sembra aver preso sul serio questo obiettivo. La direttiva pone l’accento sulla quantità del corpo amministrativo che deve essere competente e obiettivo.
Si fa l’ipotesi in cui, secondo la direttiva europea, un soggetto cosiddetto committente o proponente di progetto che deve essere sottoposto a valutazione di impatto coincida con l’autorità competente, cioè con l’autorità che guida il procedimento, cosa che può verificarsi proprio nell’ambito delle infrastrutture pubbliche quando appunto ci sia una coincidenza. In questo senso la direttiva dispone che sia garantita un’adeguata separazione funzionale tra le funzioni che si occupano della proposta del progetto e tra le funzioni che dovrebbero valutare il progetto.
La direttiva europea delinea un quadro dal punto di vista normativo abbastanza semplice ma che necessita di un’amministrazione di qualità. Un’amministrazione che non soffra di paure in grado di dialogare con il proponente, di collaborare senza temere che poi si possa affermare che lo abbia fatto per altre ragioni, per altri interessi. Questo fa sì che la parte più importante di queste norme non è quella normativa, del recepimento ma la parte più importante è proprio quella implicita e cioè che l’amministrazione sia in grado di applicare una regolazione intelligente.
E’ tangibile la difficoltà che emerge nel coordinamento tra infrastrutture e impatto ambientale spesso a causa della impossibilità di individuare criteri logici e regolativi. In Italia è necessario oggi predisporre un piano straordinario infrastrutturale ponendo l’attenzione al Sud rispettando i principi fondamentali di organizzazione, coordinamento e partecipazione[3] nell’ottica di uno sviluppo sostenibile[4].
[1] John Maeda, Le leggi della semplicità, 2006, Mondadori Bruno editore.
[2] https://www.codiceappalti.it/documenti/CodiceAppalti.it_Ultimo_aggiornamento.pdf
[3] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014L0052&from=EN
[4] In economia, la distinzione fra crescita e sviluppo è piuttosto precisa. Con il termine sviluppo si intendono l’insieme delle modifiche che sono necessarie per passare da un’economia agricola pre-capitalista ad una capitalista industriale. Le modifiche non sono quindi solo di tipo quantitativo (crescita del prodotto lordo), ma anche di tipo qualitativo, in un certo senso si può dire che lo sviluppo è l’insieme delle trasformazioni che tendono ad omologare l’economia e la società di un paese arretrato (che infatti si definisce sottosviluppato) al resto del mondo sviluppato. Con il termine crescita si intende, invece, l’incremento, misurato su base annua, del prodotto interno lordo (PIL) di un Paese che ha già realizzato la transizione verso un’economia industriale. Mentre la crescita, quindi, dovrebbe avere essenzialmente caratteristiche quantitative, lo sviluppo dovrebbe averne anche di qualitative, questo per quanto concerne l’economia. Nell’accezione più corrente il termine sviluppo, che sembra essere stato adottato anche dalla Commissione ONU, si coglie essenzialmente nella nozione di cambiamenti qualitativi connessi all’idea di sviluppo e lo si applica indifferentemente sia ai paesi sviluppati che a quelli in via di sviluppo. Si ipotizza, in sostanza, che non esiste una, ma più modalità di sviluppo e che quindi lo sviluppo stesso possa essere “aggettivato” e “qualificato”. Per approfondimenti, vedi: M. BRESSO, Per un’economia ecologica, 1994, Roma, 432.
Si occupa di politiche pubbliche presso la Luiss Guido Carli.