lunedì, Ottobre 7, 2024
Di Robusta Costituzione

Tutto a portata di click: quando il diritto all’informazione deve arrendersi dinanzi al diritto all’oblio

Cass. Civ., Sez. I, Ord. (ud. 26-02-2021) 31-05-2021, n. 15160

 Il diritto di ogni persona all’oblio, strettamente collegato ai diritti alla riservatezza e all’identità personale, deve essere bilanciato con il diritto della collettività all’informazione, sicché, anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 17 Regolamento (UE) 2016/679, qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la deindicizzazione dell’articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai dati personali di tale soggetto, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa ledere il diritto di quest’ultimo a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica, diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate. (Nel caso di specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che, solo in ragione del carattere non troppo risalente dell’informazione, aveva negato a un imprenditore, noto esclusivamente a livello locale, il diritto alla menzionata deindicizzazione, in relazione ad un articolo pubblicato sul web, ove era stato riportato il contenuto di intercettazioni telefoniche di terzi, che riferivano di una presunta vicinanza di tale imprenditore a clan mafiosi, non confermata dall’apertura di alcuna indagine nei confronti di quest’ultimo).

 

 Sommario: 1. Il caso – 2. La contestualizzazione delle questioni sottese al caso in esame – 3. Le situazioni giuridiche in rilievo – 4. Il bilanciamento operato dalla Corte e i possibili rimedi per attuare l’oblio.

  

  1. Il caso

A seguito di un’indagine giudiziaria di rilievo nazionale sulla ‘ndrangheta, salirono agli onori della cronaca, tra il 2013 e il 2014, alcuni collegamenti tra persone di spicco della società civile e clan calabresi. Nello specifico, furono pubblicati online degli articoli giornalistici, che recavano il contenuto di talune intercettazioni telefoniche. In una di queste, si faceva riferimento all’amministratore unico di una società, sita a Vibo Valentia, come persona in grado di far da tramite con membri delle Istituzioni, al fine di ottenere dei favori nella realizzazione dei piani criminosi, che i soggetti intercettati stavano predisponendo.

Il soggetto che veniva menzionato nelle conversazioni, ritenendo la pubblicazione online delle stesse come diffamatoria nei propri confronti e, di conseguenza, incidente, in chiave negativa, anche sull’affidabilità della società che amministrava, ritenne opportuno presentare reclamo all’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali (c.d. Garante Privacy), in base a quanto previsto dall’art. 140-bis del Codice Privacy[1] e dall’art. 77 GDPR[2]. In particolare, avanzò la richiesta di deindicizzazione di talune pagine web dai motori di ricerca, rimedio consistente nella dissociazione tra il proprio nominativo e i risultati di una ricerca, in modo tale da evitare che il mero inserimento di un dato nome e cognome all’interno della barra di un motore di ricerca consenta di accedere rapidamente non solo al sito sorgente, ma soprattutto alle numerose copie cache del sito originale, create dallo stesso motore di ricerca[3]. In effetti, i motori di ricerca operano una selezione di contenuti, originati dai siti sorgente, e li mettono a disposizione degli utenti, i quali possono reperirli attraverso l’utilizzo delle query di navigazione, nel cui ambito vengono riuniti più link che presentano, per l’appunto, elementi analoghi tra loro[4]. Di tal guisa, si può ben comprendere la facilità con cui, mediante l’indicizzazione, sia possibile riunire svariati articoli online sotto il richiamo a parole chiave, anche di significato negativo, a mo’ di catalogazione mediante etichettatura. Inoltre, il soggetto richiese la cancellazione di determinati URL dal risultato del motore di ricerca.

Ad ogni modo, nel caso di specie, il Garante Privacy rigettò l’istanza, in quanto ritenne che le notizie fossero state riportate sui siti internet in maniera tale che, dal testo degli articoli giornalistici, non risultasse l’imputazione di alcuna condotta illecita nei confronti del soggetto menzionato. Inoltre, il Garante rilevò che le notizie fossero ancora recenti all’epoca in cui venne presentato il reclamo per la deindicizzazione e che, in aggiunta, le stesse rivestissero un interesse pubblico per il rilievo nazionale della vicenda[5].

Vistasi declinata la propria richiesta, in un secondo momento, con deposito effettuato il 31 luglio 2015, presso il Tribunale di Milano, il soggetto propose ricorso avverso il suddetto provvedimento del Garante Privacy, ai sensi dell’art. 10, co. 3, D.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, chiedendone l’annullamento. Il Tribunale adito, però, rigettò l’istanza nel merito, con la sentenza 17 maggio 2016, n. 5640, sulla scorta di argomentazioni analoghe a quelle utilizzate dal Garante Privacy, ovverosia:  il rilievo pubblicistico del ricorrente, la mancata imputazione allo stesso di fatti illeciti e l’insussistenza di un arco temporale sufficiente per la maturazione del diritto all’oblio[6].

Così, risultato soccombente anche in sede giudiziaria, il medesimo soggetto decise di adire la Corte Suprema di Cassazione[7], mediante il ricorso 26236/2016, nei confronti di Google Italy S.r.l., di Google Inc. e del Garante Privacy. In primo luogo, lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 102 c.p.c., da parte del Tribunale di Milano, per aver accolto l’eccezione di difetto di legittimazione passiva proposta da Google Italy S.r.l., in quanto Google Inc. figurerebbe il solo titolare del servizio di Google Web Search. In secondo luogo, il ricorrente sostenne la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 7, 11, 99, 102, 150, 152 D.lgs. 196/2003 e dei principi elaborati dalla giurisprudenza nazionale ed europea in materia di riservatezza. Infine, il Tribunale di Milano sarebbe incorso, nell’ottica del ricorrente, in vizi che avrebbero inficiato la motivazione del provvedimento.

 

  1. La contestualizzazione delle questioni sottese al caso in esame

Il caso di specie rispecchia appieno le dinamiche peculiari di una società connotata da una rete capillare di informazioni, facilmente accessibile alla stragrande maggioranza delle persone, che vi ricorre per la rapidità con cui giunge al risultato desiderato e per l’esiguo impatto sui costi monetari. Di certo, il costo contenuto, richiesto per l’accesso alle innumerevoli informazioni, va, comunque, compensato con una rinuncia all’idea di una garanzia totalizzante sulla protezione dei nostri dati, in grado di ripararci dalle intrusioni, di vario genere, alla propria sfera personale. Ancora oggi, spesso, non ci si rende conto del valore – non soltanto economico- dei dati che disseminiamo lungo le maglie sterminate della Rete (alle volte incautamente, altre per necessità)[8].

Tutto sommato, però, l’illusione di padroneggiare così facilmente il “Sapere”, disponendo di una risposta ad ogni quesito o conoscendo tanto di tutti, non garantisce, in sé e per sé, un’affidabile capacità di sceverare il grano dal loglio, l’informazione pertinente da quella irrilevante od erronea, tale da poter elaborare un pensiero adeguato[9]. In effetti, può accadere che la capacità di giudizio di ciascun individuo venga offuscata dalla profilazione[10], attuata dagli algoritmi, mediante sistemi predittivi di deep learning, capace di convogliare, in modo mirato, le informazioni ad ogni singolo utente, sulla base delle preferenze riscontrate durante la stessa navigazione su Internet[11].

Accanto alla questione concernente la necessità di assicurare una corretta informazione[12], anche attraverso l’utilizzo della Rete[13], si pone, al contempo, l’esigenza di tutelare i diritti dei singoli individui dall’indebita circolazione di elementi relativi alle proprie vicende private[14]. A ben vedere, questi due aspetti si compenetrano reciprocamente nel concorrere a modellare un sistema diretto ad individuare la giusta informazione, il che passa anche e soprattutto attraverso l’aggiornamento e l’eliminazione degli elementi inesatti, desueti o inappropriati[15]. In questo quadro, un ruolo preminente di intermediazione è svolto da una ristretta cerchia di soggetti, unici detentori della tecnologia necessaria a produrre e selezionare i dati, al punto che alle interazioni di molti si contrappone l’intermediazione di pochi: questi intermediari digitali sono i motori di ricerca e i provider che gestiscono i siti, le piattaforme sociali (c.d. social), i blog, ecc.[16] In teoria, numerosi sono i potenziali rischi a cui ciascun utente della Rete potrebbe facilmente andar incontro, per via delle caratteristiche proprie dell’informazione digitale, le quali la rendono, di fatto, universale e perenne, ossia sconfinata nello spazio e nel tempo[17].

Proprio nel contesto della cosiddetta società dell’informazione, sinora tratteggiata a grandi linee, si inserisce il caso sottoposto alla Suprema Corte di Cassazione.

 

  1. Le situazioni giuridiche in rilievo

Fatta una panoramica sul contesto, che fa da sfondo al caso in esame, è ora giunto il momento di porre l’attenzione sulle diverse situazioni giuridiche soggettive lambite, in maniera tale da categorizzarle nel dettaglio.

In linea generale, è quasi superfluo rammentare come il rapporto tra l’informazione pubblica e la privacy sia sempre stato foriero di attriti, sin dalla diffusione della carta stampata[18]. L’avvento degli strumenti tecnologici e delle reti informatiche ha, dunque, contribuito ad ingigantire questo terreno di scontro, per via della notevole pervasività e capillarità di tali mezzi[19].

In questo ambito gli interpreti son chiamati, come vedremo in seguito, ad intraprendere un iter logico-giuridico, per valutare quale dei due interessi sia maggiormente meritevole di tutela nel caso concreto, considerata l’impraticabilità di affidarsi ad una regola generale preventiva, valevole per tutti i casi in astratto, che, di converso, implicherebbe sic et simpliciter un sacrificio aprioristico di diritti, pur sempre tutelati a livello costituzionale. Da un lato, infatti, l’informazione giornalistica ricopre un ruolo fondamentale per renderci cittadini partecipi ed attivi nel progresso politico, economico e sociale. D’altro canto, però, l’attività d’informazione ha a che fare con dati, nomi e riferimenti personali, il che porta con sé il temibile rischio di arrecare nocumento alla biografia altrui, in particolar modo quando si oltrepassano quei limiti da tener conto per una corretta informazione. Sotto questo profilo, dunque, i riferimenti concernenti le persone sono suscettibili di ledere vari diritti inviolabili, i quali, sebbene non espressamente citati dal testo della Costituzione o di altre leggi ordinarie, rientrano, comunque, nel novero dei diritti della personalità[20], desumibili, in via interpretativa, sia dalle fonti interne che sovranazionali[21]. A riguardo, non si può prescindere dal riferimento all’art. 2 Cost., inarrestabile fucina di nuove situazioni protette, via via che l’evoluzione della coscienza sociale porta in auge nuovi bisogni di tutela, anche in virtù del progresso tecnologico e scientifico[22].

L’attribuzione all’art. 2 Cost. del carattere di clausola generale di garanzia della persona, aperta, cioè, all’accoglimento di nuove situazioni meritevoli di protezione[23], richiede necessariamente di operare dei bilanciamenti tra gli opposti interessi, in quanto son tutti parimenti riconducibili alla tutela della persona[24].

Orbene, nel caso in esame, come enunciato dalla stessa Corte, si assiste ad un contrasto tra alcuni profili, che caratterizzano il diritto della personalità ex art. 2 Cost., ed una serie di diritti rientranti nella libertà di manifestazione del pensiero, la quale trova tutela nell’art. 21 Cost.

Dal punto di vista del soggetto, che si è ritenuto leso dalla indicizzazione, avvenuta con l’accostamento del suo nominativo a taluni articoli giornalistici su fatti del passato, negativi per la sua reputazione, si pone la necessità di assicurare un’immagine sociale della persona adeguata al contesto temporale a cui si fa riferimento, soprattutto per garantire una congrua informazione al pubblico dei destinatari[25]. In particolare, per far fronte a questa evenienza, si deve far perno su due autonomi, eppur connessi, diritti, entrambi rientranti nell’alveo dell’art. 2 Cost.: questi sono a) il diritto alla riservatezza e b) il diritto all’identità personale, da intendere anche nella contemporanea accezione di identità digitale.

In sintesi:

 

  1. il diritto alla riservatezza, sorto in passato come “right to be let alone”[26], viene oggi inteso quale libertà di verificare la diffusione e il trattamento di dati personali[27], col duplice proposito di porre, da un lato, un freno alle indebite ingerenze sulla sfera personale, appartenete a ciascun individuo, e di controllare, d’altro lato, il modo in cui avviene l’edificazione della biografia di ognuno, mediante la diffusione delle relative informazioni[28]. Sul piano normativo, il diritto ad un trattamento rispettoso della propria sfera personale è sancito all’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il quale indica anche le modalità in cui il trattamento debba concretamente avvenire[29], mentre la protezione della propria vita privata e familiare (ossia di ciò a cui facciamo comunemente riferimento col termine privacy) è garantita dall’art. 7 della stessa Carta[30].
  2. Sempre sulla base dell’art. 2 Cost.[31], è stato successivamente elaborato il diritto all’identità personale, la cui natura è, tuttavia, ben distinta da quella del diritto alla riservatezza[32], seppur ne abbia seguito le orme e ne condivida il fondamento giuridico[33]. Sebbene l’art. 1 del Codice Privacy faccia espresso riferimento al «rispetto della dignità umana»[34], tuttora il contenuto del diritto all’identità personale non trova definizione in alcun testo normativo. Così, è necessario risalirne per il tramite delle riflessioni dottrinali[35] e delle decisioni giurisprudenziali[36]. A proposito, il comun denominatore delle innumerevoli definizioni sembrerebbe posarsi sul sentimento che ciascun individuo nutre di se stesso, per come è via via maturato nel tempo, mediante il singolare approccio alla vita che ognuno realizza con la propria matrice ideologica, il che rende l’individuo una personalità unica nel proprio genere. In ogni caso, bisogna specificare che, alla consapevolezza interiore di sé, deve, comunque, seguire la corretta rappresentazione di sé all’esterno, sempre in linea con i comportamenti e le condotte palesati dalla persona rappresentata[37], in maniera tale da farla sentire pienamente connotata nella vita di relazione con gli altri[38]. A questo punto, c’è comunque da sottolineare che l’interesse ad essere se stessi, congiunto a quello di non vedersi posti in cattiva luce, trova tutela in quanto tale, indipendentemente, cioè, dagli effetti, positivi o negativi, arrecati sull’onore e sulla reputazione ad opera di un travisamento circa gli aspetti della personalità: di conseguenza, anche un travisamento migliorativo potrebbe presentarsi come illegittimo[39].

 

Come anticipato, i diritti in parola, anche se distinti sul piano concettuale, si fondono quando ci si trova ad operare nell’ambito del corretto trattamento dei dati personali, per il cui soddisfacimento è, al contempo, necessario garantire un margine di riserbo ed una rappresentazione corrispondente alla realtà[40]. Questa contingenza è, a maggior ragione, riscontrabile nel contesto digitale odierno, in cui gli utenti della Rete, a volte volontariamente, altre volte in modo del tutto inconsapevole, concorrono a creare varie rappresentazioni virtuali del proprio essere, le quali si possono palesare molto eterogenee tra loro, proprio per la potenzialità, tipica degli strumenti informatici, di stratificare dati su dati riguardanti le persone, spesso senza alcuna verifica preventiva da parte dei soggetti idonei ad effettuare un’apposita cernita[41]. Per tale ragione, diviene ancor più pregnante assicurare una specifica tutela nei confronti del diritto all’identità digitale, il quale prevede, in particolare, un aggiornamento continuo di quei dati che risultano pertinenti a qualificare ciascun individuo nella sua totalità, per far sì che vengano rimossi quegli elementi che, di converso, hanno perso la loro finalità caratterizzante verso uno specifico soggetto, sebbene l’abbiano avuta in passato[42]. Non a caso, l’art. 9 della Dichiarazione dei diritti in Internet stabilisce che «ogni persona ha diritto alla rappresentazione integrale ed aggiornata delle proprie identità in rete», cosicché, come previsto dallo stesso articolo, «l’uso di algoritmi e di tecniche probabilistiche deve essere portato a conoscenza delle persone interessate, che in ogni caso possono opporsi alla costruzione e alla diffusione di profili che le riguardano»[43]. In tal modo, si può far pulizia di quei dati inutili, e spesso fuorvianti, che altrimenti la Rete continuerebbe ad accumulare e riproporre indebitamente ai suoi utenti[44]. Cosicché, l’oblio diviene lo strumento fondamentale per rivendicare il diritto a vedere rappresentata la propria identità al passo con i tempi, soprattutto quando si siano verificati, nel frattempo, notevoli mutamenti sul proprio essere, che potrebbero aver reso inattuali alcuni tratti identitari, tipici di periodi della vita ormai trascorsi[45].

Nel caso in commento, in aggiunta alle esigenze del soggetto menzionato negli articoli giornalistici, è rinvenibile, sulla sponda opposta, l’interesse dei media a fornire le informazioni al pubblico, a cui fa da contraltare, per l’appunto, l’interesse della collettività a ricevere le informazioni, che rientra nel profilo, per così dire, passivo della libertà di informazione.

Il diritto di cronaca giornalistica è tutelato, e allo stesso tempo limitato, dall’art. 21 Cost., in quanto si presenta come un corollario della libertà di stampa, la quale appartiene, a sua volta, al più ampio genus della libertà di manifestazione del pensiero. L’attività di dare informazioni non è, comunque, fine a se stessa, bensì è strumentale all’interno del processo di creazione di una pubblica opinione, per cui sarebbe impossibile, in un contesto democratico, per di più improntato sul principio di eguaglianza, immaginare una stampa avulsa da una sfera di garanzia, prevista anche a beneficio dei destinatari per cui la stessa stampa esiste ed opera. Così, pur nel silenzio dell’art. 21 Cost., il diritto ad essere informati è del pari desunto, in via interpretativa, ad opera della giurisprudenza costituzionale, dalla disposizione dello stesso articolo[46]. Inoltre, esso trova espresso riferimento in atti normativi sovranazionali: difatti, l’art. 10, co. 1, CEDU sancisce che «ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera […]»; ne fa eco l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, a mente del quale «ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere»; lo stesso principio è posto nell’art. 11, co. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per cui «ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera».

Ad ogni modo, nel perimetro di una democrazia pluralista e digitalizzata, in cui circolano legittimamente una miriade di dati di matrice diversa, il punto focale parrebbe non esser più semplicemente il diritto a ricevere delle informazioni tout court, bensì il diritto di accedere a notizie veritiere, imparziali ed aggiornate, frutto cioè di un giornalismo responsabile[47]. In particolare, una corretta informazione è rinvenibile laddove sussistano alcune condizioni essenziali, grazie alle quali è possibile preservare l’onore, la reputazione e la dignità delle persone menzionate, al punto tale da consentire al diritto di cronaca di assumere i connotati di esimente[48], al pari del diritto di critica e di satira. Tali condizioni rientrano nel c.d. Decalogo del buon giornalista, che è stato formulato dalla giurisprudenza[49], proprio al fine di tratteggiare dei criteri specifici da tener conto in occasione del bilanciamento tra i diritti dei soggetti coinvolti nelle notizie e diritto di informazione, ivi compresi quei casi in cui si palesino i margini per il diritto all’oblio. Questi requisiti consistono nella verità della notizia, nella continenza espositiva, nell’utilità sociale dell’informazione, nella sua essenzialità ed attualità[50]. Un riferimento generico a tali condizioni è presente all’art. 137, co. 3, del Codice Privacy, con riguardo al trattamento dei dati «effettuato nell’esercizio della professione di giornalista» (lett. a), art. 136) e «finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione anche occasionale di articoli» (lett. c), art. 136). In aggiunta, l’art. 139 affida ad un corpo normativo, predisposto dal Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti e allegato al Codice Privacy, l’individuazione di «regole deontologiche relative al trattamento dei dati di cui all’articolo 136, che prevedono misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda quelli relativi alla salute e alla vita o all’orientamento sessuale»[51].

Allo stesso tempo, nel mezzo tra la notizia e i fruitori del servizio informativo, si posizionano degli intermediari, che prestano anche ulteriori servizi, in aggiunta alla semplice catalogazione[52]. In effetti, l’uso preponderante dei motori di ricerca, per ottenere aggiornamenti costanti e in tempo reale sull’attualità, induce a porre l’attenzione sul trattamento dei dati, forniti da terzi sui siti Internet, che vengono poi raccolti e trattati nei server dei motori di ricerca. In proposito, bisogna rimarcare che «il trattamento di dati personali svolto nel contesto delle attività di un motore di ricerca è cosa diversa e ulteriore rispetto al trattamento svolto dagli editori di siti terzi»[53]. Difatti, il motore di ricerca, come già scritto, fa solo da intermediario per giungere alla notizia, ma non contribuisce a creare la notizia medesima. Ciononostante, l’evoluzione normativa e la giurisprudenza propendono sempre di più verso una responsabilizzazione dei motori di ricerca, per far sì che, in una realtà eterea senza confini, com’è quella virtuale, trovino, comunque, soddisfacimento sia gli interessi degli utenti che gli interessi dei soggetti nominati sui siti[54].

In conclusione, preme ribadire che il diritto alla riservatezza e all’identità personale aggiornata, da un lato, e il diritto di informazione e di cronaca, dall’altro, sono diritti fondamentali di pari rango costituzionale. Ne consegue che è inammissibile predeterminarne una gerarchia fissa, mediante la quale enucleare, una volta per tutte, quale tra questi diritti possa ritenersi predominante rispetto agli altri, con un ragionamento semplicistico in termini di assolutezza[55]. Ne discende la necessità di operare, caso per caso, un bilanciamento giudiziale sulla base di tutte le circostanze significative[56], il quale, sebbene consenta di esaltare, di volta in volta, le peculiarità del singolo caso, non può, del resto, esonerare dal rischio di creare alcune difformità tra le varie decisioni[57].

 

  1. Il bilanciamento operato dalla Corte e i possibili rimedi per attuare l’oblio

 Fatte le debite premesse sugli interessi coinvolti nel caso di specie, è giunto il momento di porre l’attenzione sul ragionamento che la Corte ha effettuato per giungere alla decisione.

Nella situazione in esame, come del resto acclarato in motivazione, «il diritto all’oblio […] si traduce nell’esigenza di evitare che la propria persona resti cristallizzata ed immutabile in un’identità legata ad avvenimenti o contesti del passato, che non sono più idonei a definirla in modo autentico o, quanto meno, in modo completo»[58]. Facendo riferimento al Decalogo del buon giornalista, si è, dunque, in presenza di un’ipotesi in cui spicca il criterio dell’attualità della notizia[59], peraltro fornita legittimamente in passato, la quale, oltre a persistere nelle maglie della Rete, viene continuamente riproposta, ogniqualvolta il nominativo del soggetto coinvolto sia digitato nel motore di ricerca. Talché, come ricorda la Corte sul punto, il diritto all’oblio consente di sottrarre la persona dal rischio di «subire gli effetti pregiudizievoli della ripubblicazione, a distanza di tempo, pur legittimamente diffusa in origine, ma non più giustificata da nuove ragioni di attualità»[60].

Nello specifico, il rimedio che la Corte ha debitamente preso in esame, per il caso di specie, consiste nella de-indicizzazione, per via del fatto che «l’interesse all’indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto all’esigenza di tutela dell’identità personale, nel senso dinamico»[61], di cui ci si è soffermati nel precedente paragrafo.

In termini generici, quando si discorre di diritto all’oblio[62], si intende riferirsi ad una finalità che si può ottenere con l’ausilio di diversi ed autonomi rimedi, di natura sia inibitoria che risarcitoria ex art. 82 GDPR. Tra i primi rientra la de-indicizzazione (c.d. delisting), la quale permette di dissociare un nominativo da determinati risultati di ricerca e da alcune parole chiave (negative, nel caso in esame), che sono state connesse col nominativo, su intervento dello stesso intermediario, proprio per facilitare la ricerca: si suole, così, discorrere di diritto a non essere trovato facilmente[63]. La relativa istanza va presentata su iniziativa del soggetto leso, direttamente all’indirizzo del gestore del motore di ricerca, il quale ne è responsabile verso l’istante, considerato che, in caso di inottemperanza della richiesta, potrà vedersi convocare dinanzi al Garante Privacy e, se del caso, citare in giudizio[64].

Ora, la questione dirimente diviene l’individuazione di quei criteri atti a determinare con plausibile certezza le circostanze di fatto in cui si possa procedere all’oblio. In ottica di bilanciamento, ad esclusione delle ipotesi di illiceità di una notizia o di illegittimità per aver oltrepassato lo scopo informativo, si è soliti, ormai, sostenere in giurisprudenza che il diritto di cronaca e il correlato diritto ad accedere alle informazioni prevalgano sull’oblio, allorquando siano riscontrabili i seguenti requisiti: a) la sussistenza di un interesse, specifico ed attuale, idoneo ad alimentare il dibattito pubblico, per ragioni storiche, scientifiche, sanitarie o riguardanti la sicurezza nazionale; b) l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, in virtù della posizione rivestita nella vita pubblica, segnatamente in ambito economico o politico; c) la circostanza per cui non sia ancora trascorso un congruo lasso temporale da  un fatto esposto in precedenza, tale da poter ritenere plausibile che sia intervenuto, nel frattempo, un cambiamento personale, non più corrispondente alla passata costruzione identitaria[65].

Pertanto, la Corte Suprema di Cassazione arriva ad asseverare che la sentenza del Tribunale «non si sottrae […] alla censura […] di vizio di motivazione, apparendo la decisione in esame anche fortemente carente sul piano motivazionale. E invero […] la notorietà del C., peraltro esclusivamente a livello locale, è stata utilizzata dal Tribunale fondandosi su elementi, come le attività filantropiche e di beneficenza che, ben al contrario, avrebbero dovuto essere logicamente valorizzati ai fini di escludere la necessità del permanere dell’indicizzazione dei documenti in questione, che mettevano in luce – senza alcun positivo elemento di riscontro – aspetti della personalità del soggetto interessato in contrasto con le qualità del medesimo emerse in giudizio. Al riguardo, il Tribunale si è, altresì, limitato a considerare esclusivamente il diritto all’oblio […] sotto il mero profilo temporale, non ponendolo in raccordo con il diritto alla riservatezza e con quello all’identità personale, al quale è strettamente collegato, e comunque non tenendo conto – del tutto incongruamente – che le intercettazioni, dalle quali gli articoli avevano desunto la fonte delle notizie riferite, risalivano comunque a cinque anni prima della decisione assunta»[66]. Inoltre, secondo la Corte di Cassazione, il Tribunale di merito «pur considerando la domanda di cancellazione “sproporzionata ( ) rispetto all’obiettivo perseguito dal ricorrente che si sostanzia nell’eliminazione dell’automatica emersione degli articoli all’inserimento del suo nome”, non ha poi contraddittoriamente ed incongruamente – considerato la non essenzialità, ai fini dell’interesse pubblico alla conoscenza di fatti criminosi commessi nella realtà calabrese, del permanere dell’indicizzazione degli URL, partendo dal nome dell’interessato, combinato con termini come “ndrangheta”, “massoneria”, “boss”. Tanto più che dalla riproduzione degli articoli contenuta nella sentenza impugnata, non si evince – sebbene i fatti ivi riportati siano stati accertati come veritieri – alcun coinvolgimento concreto ed effettivo del C. in procedimenti penali per fatti di criminalità organizzata»[67]. Orbene, la Corte accoglie il secondo motivo del ricorso, cassa la sentenza del Tribunale di Milano e dispone il rinvio della causa allo stesso Tribunale in diversa composizione, affinché riesamini il caso sulla base dei principi illustrati dalla Corte nell’ordinanza in commento.

Giunti alla fine, per ragioni di completezza espositiva, preme notare come la de-indicizzazione non sia priva di conseguenze avverse nei confronti dei motori di ricerca, soprattutto a livello economico, e, altresì, nei riguardi della collettività, che si vede contrapporre un argine al suo diritto di ottenere informazioni[68]: si comprende bene come sia delicato, ogni volta, bilanciare i contrapposti interessi in gioco[69]. Inoltre, la de-indicizzazione non sempre risulta un rimedio effettivo sul piano materiale, considerata la difficoltà di eseguirla al di fuori dei confini europei[70] e visto che non implica la cancellazione dei dati sui siti sorgente, in quanto si riduce a limitarne l’accesso alla stragrande maggioranza degli utenti[71].

 

 

 

[1] Art. 140-bis, co. 1, Codice Privacy: «Qualora ritenga che i diritti di cui gode sulla base della normativa in materia di protezione dei dati personali siano stati violati, l’interessato può proporre reclamo al Garante o ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria».

[2] Art. 77, co. 1, GDPR: «Fatto salvo ogni altro ricorso amministrativo o giurisdizionale, l’interessato che ritenga che il trattamento che lo riguarda violi il presente regolamento ha il diritto di proporre reclamo a un’autorità di controllo, segnatamente nello Stato membro in cui risiede abitualmente, lavora oppure del luogo ove si è verificata la presunta violazione».

[3] Le copie cache permangono autonomamente sul Web, nonostante l’eventuale modificazione o cancellazione dei dati riportati sui siti sorgente: tale fenomeno comporta la permanenza di questi dati e la difficoltà nell’assicurare una corretta circolazione.

[4] La creazione dei contenuti è un’attività distinta dalla selezione ed indicizzazione operata dai motori di ricerca, cosicché ciascuna di tali attività configura un autonomo trattamento di dati. Per tale ragione, l’aggiornamento di una notizia può essere chiesto unicamente al sito sorgente, mentre al motore di ricerca può essere richiesta la sola deindicizzazione. Di questa tematica si è occupato il Garante per la Protezione dei Dati Personali, nel provvedimento del 18 gennaio 2006, doc. web 1242501. Per approfondimenti, si rinvia a A. Palmieri e R. Pardolesi, Dal diritto all’oblio all’occultamento in rete: traversie dell’informazione ai tempi di Google, in Nuovi Quaderni del Foro Italiano, 2014, 14; G.M. Riccio, L’esordio del diritto all’oblio nella giurisprudenza italiana, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2016, pag. 275.

[5] Garante per la Protezione dei Dati Personali, provvedimento 4 giugno 2015, n. 335, doc. web n. 4172122, in Massimario 2015-2016: «Deve essere dichiarata l’infondatezza della richiesta di rimozione, dai risultati rinvenibili mediante motore di ricerca generalista, degli Url relativi ad articoli di stampa nei quali si riportino brani di intercettazioni telefoniche in cui alcuni soggetti indagati menzionano il reclamante come persona appartenente alla massoneria e come un “imprenditore influente, in grado di attivare meccanismi clientelari e che deve la sua autorevolezza ed influenza a legami di parentela a dir poco scomode”; in tale ipotesi, infatti, l’interesse pubblico deve essere ritenuto senza dubbio sussistente, in quanto le informazioni in questione riguardano comunque un’importante indagine giudiziaria, di ampio rilievo in ambito nazionale, peraltro tuttora in corso al momento della pronuncia».

[6] Si veda G. Cirillo, La deindicizzazione dai motori di ricerca tra diritto all’oblio e identità personale (Nota a Trib. Milano, 17 maggio 2016, n. 5640), in NGCC, 6, 2020, pagg. 1242-1248.

[7] In effetti, ai sensi dell’art. 10, co. 6, D.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, «la sentenza che definisce il giudizio non è appellabile […]».

[8] A riguardo, si possono citare le osservazioni contenute nell’Indagine conoscitiva congiunta. Linee Guida e Raccomandazioni di Policy, pubblicata a luglio del 2019, a seguito dell’elaborazione da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, del Garante per la protezione dei dati personali e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato: «La disponibilità in capo ai grandi operatori digitali, attivi su scala globale, di enormi volumi e varietà di dati (personali e non personali, strutturati e non strutturati) e della capacità di analizzarli ed elaborarli ha dato luogo a inedite forme di sfruttamento economico del dato e della sua valorizzazione ai fini della profilazione algoritmica legata a diversi scopi commerciali, generando nuove concentrazioni di potere, inteso non solo come “potere di mercato”, ma più in generale come potere economico e potere tout court, interessando i diritti fondamentali, i profili concorrenziali, il pluralismo e la stessa tenuta dei sistemi democratici. Si tratta pertanto di un fenomeno che merita attenzione da parte di tutte le istituzioni che contribuiscono a definire la governance dei mercati. […] Più complesso appare il tema della protezione del pluralismo informativo nella moderna società digitale, in ragione di nuove dinamiche che, diversamente dagli approcci tradizionali al pluralismo, volti a disciplinare forme di accesso dal lato dell’offerta ai media tradizionali, sembrano riguardare, invece, i comportamenti degli utenti dal lato della domanda, in un quadro di overload informativo e di limitata trasparenza circa l’origine delle informazioni e la loro natura editoriale, nonché circa gli effetti della profilazione sulla selezione dei contenuti proposti agli utenti».  

Sulla monetizzazione dei dati personali, si veda V. Ricciuto, La patrimonializzazione dei dati personali. Contratto e mercato nella ricostruzione del fenomeno, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2018, 4-5, pagg. 689 e ss.; V. Zeno-Zencovich, Do “Data markets” exist?, in mediaLaws – Rivista di diritto dei media, 2019, 2, pag. 23.

[9] Coglie in modo esemplare il punto M. Ainis, Economia digitale e Big Data, 25 ottobre 2017, in www.agcm.it, il quale fa notare come «pensiamo di pensare, ma in realtà ripetiamo come pappagalli i pensieri altrui. O al limite anche i nostri, però amplificati e deformati, senza verifiche».

[10] La definizione di profilazione è rinvenibile nell’art. 4, n. 4, GDPR: «Qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica».

Per rendere l’idea sulla pervasività del fenomeno in parola, è stata utilizzata, in E. Pariser, The Filter Bubble: What The Internet is Hiding From You, New York, 2011, l’espressione di Filter Bubble, ossia una Bolla di filtraggio, costruita intorno alle preferenze espresse durante la navigazione su Internet, in cui ciascun utente finisce per trovarsi ingabbiato.

In dottrina, si rinvia a R. De Meo, Autodeterminazione e consenso nella profilazione dei dati personali, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2013, pagg. 587 e ss.; E. Pellecchia, Profilazione e decisioni automatizzate al tempo della “Black Box Society”: qualità dei dati e leggibilità dell’algoritmo nella cornice della “Responsible Research and Innovation”, in Nuove leggi civili commentate, 2018, 5, pagg. 1219 e ss.; A. Moretti, Algoritmi e diritti fondamentali della persona. Il contributo del Regolamento (UE) 2016/679, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2018, 4, pagg. 799 e ss.; R. Messinetti, Trattamento dei dati per finalità di profilazione e decisioni automatizzate, in N. Zorzi Galgano (a cura di), Persona e mercato dei dati. Riflessioni sul GDPR, Padova, 2019, pagg.  167 e ss.; M. Bianca, La filter bubble e il problema dell’identità digitale, in mediaLaws – Rivista di diritto dei media, 2019, 2, pag. 4.

[11] Nella stessa ordinanza in commento, viene notato come «[…] andrebbe considerato che “la indicizzazione degli articoli riguardanti il soggetto interessato e costituenti l’ossatura della sua biografia telematica avvengono al di fuori di un meccanismo di controllo e selezione, ma sono affidati ad un sistema informatico e per questo neutro e insensibile”».

[12] Secondo l’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, «ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere». Ne fa eco l’art. 10 CEDU, a mente del quale «ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera».

Per un approfondimento sull’informazione digitale, si veda G. Pitruzzella, La libertà di informazione nell’era di Internet, in mediaLaws – Rivista di diritto dei media, 2018, 1, pag. 3.

[13] L’attività di reperire notizie online rientra sotto l’egida del diritto di accesso ad Internet, sancito quale diritto fondamentale della persona all’art. 2, co. 2, della Dichiarazione dei Diritti in Internet, approvata dalla Camera dei Deputati: «Ogni persona ha eguale diritto di accedere a Internet in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e aggiornate che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale».

[14] Come accennato da S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, pag. 404, «l’implacabile memoria collettiva di Internet, dove l’accumularsi d’ogni nostra traccia ci rende prigionieri di un passato destinato a non passare mai, sfida la costruzione della personalità libera dal peso d’ogni ricordo, impone un continuo scrutinio sociale da parte di una infinita schiera di persone che possono facilmente conoscere le informazioni sugli altri. Nasce da qui il bisogno di difese adeguate, che prende la forma della richiesta di diritti nuovi […]».

Ad ogni modo, però, le risposte alle nuove esigenze di tutela devono tener conto dei principi costituzionali, che si palesano spesso in contrapposizione tra loro, per venire incontro ai bisogni di ciascun individuo, il che rende necessario sottoporre gli stessi principi ad un’opera di bilanciamento. Tale concetto viene ribadito in S. Rodotà, Prefazione, in A. Masera e G. Scorza, Internet, i nostri diritti, Editori Laterza, 2016, «da qualche anno si cerca di dare un fondamento solido a quello che viene chiamato “costituzionalismo digitale”. […] È stato così abbandonato un atteggiamento critico o addirittura ostile verso qualsiasi forma di istituzionalizzazione, che sarebbe in contrasto con la natura sostanzialmente libertaria di Internet. […] Internet non è un luogo vuoto di regole. Al contrario, è sempre più regolato da Stati invadenti e imprese prepotenti. […] Siamo di fronte non a un vuoto, bensì a un formidabile pieno di regole. [,,,] Proprio la giusta pretesa di non essere sottoposti a regole restrittive esige la definizione di principi costituzionali che sono esattamente l’opposto di quel tipo di regole, avendo come fine appunto la garanzia di libertà e diritti».

[15] Come nota V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, Milano, 2019, pag. 25, «garantire l’oblio difatti significa contemporaneamente proteggere i beni personali più essenziali dei singoli e contribuire alla correttezza dell’informazione. D’altra parte, se la ricchezza di informazioni costituisce un bene prezioso per l’economia e le imprese, al contrario un eccesso di informazioni rischia di essere causa di costi di gestione inutili ed eccessivi e di inefficienze organizzative. Gestire l’informazione significa quindi anche renderla più mirata, selezionata, utile e quindi economicamente più conveniente, sia dal lato dei privati e dei consumatori, ma anche da quello delle imprese e dei professionisti. Significa altresì eliminare le informazioni non più pertinenti, non più esatte, non aggiornate, non ulteriormente necessarie; in sintesi significa anche garantire l’oblio del dato obsoleto».

[16] Sul punto, cfr. V. Bellomia, ivi, pagg. 19-20. Si consiglia altresì S. Martinelli, Diritto all’oblio e motori di ricerca. Memoria e privacy nell’era digitale, Milano, 2017, pagg. 15 e ss.; ID., Diritto all’oblio e motori di ricerca: il bilanciamento tra memoria e oblio in internet e le problematiche poste dalla de-indicizzazione, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2017, 3, pagg. 565 e ss.; P. Sammarco, Privacy digitale, motori di ricerca e social network: dal diritto di accesso e rettifica al diritto all’oblio condizionato, in E. Tosi (a cura di), Privacy digitale, Milano, 2019, pag. 161.

[17] A tal proposito, si vedano le considerazioni contenute in S. Barbareschi e A. Giubilei, L’equilibrio tra la tutela dei dati personali e la manifestazione del pensiero, in V. Cuffaro, R. D’Orazio, V. Ricciuto (a cura di), I dati personali nel diritto europeo, Torino, 2019, pag. 490, «nella comunicazione tramite “social network”, “blog”, “forum” e simili, dove vige l’interattività tra gli utenti, non sempre si ha la piena consapevolezza su quanto sia determinata la platea dei destinatari. È questa la caratteristica principale dei “mezzi di comunicazione di massa”, che hanno portato con sé una nuova forma di espressione: “la condivisione” […]»; G. Resta, Diritti fondamentali e diritto privato nel contesto digitale, in F. Caggia e G. Resta (a cura di), I diritti fondamentali in Europa e il diritto privato, Roma, 2019, pag. 118, secondo cui gli illeciti commessi assumono sempre di più il «carattere transfrontaliero», mettendo a dura prova il principio di territorialità, cosicché «è possibile incidere “in situ” sul livello di protezione dei diritti di uno spettro indifferenziato di individui, quale che sia il luogo in cui essi si trovino».

[18] Cfr. A. Mantelero, Il diritto all’oblio dalla carta stampata a Internet, in F. Pizzetti (a cura di), Il caso del diritto all’oblio, Torino, 2013.

[19] Secondo S. Martinelli, Il diritto all’oblio nel bilanciamento tra riservatezza e libertà di espressione: quali limiti per i personaggi dello spettacolo? (Nota a Cass., 20 marzo 2018, n. 6919), in Giurisprudenza Italiana, 2019, pag. 1050, «l’espansione è dovuta al fatto che mentre nell’era della carta la notizia, una volta pubblicata, subiva un naturale processo verso l’oblio (molto veloce nel caso della televisione), divenendo un problema solo la nuova pubblicazione, con Internet la regola è la conservazione dell’informazione in modo facilmente accessibile per chiunque; pertanto l’esigenza di dimenticanza può essere posta in essere soltanto attraverso la richiesta di cancellazione o la differente de-indicizzazione, ovvero la cancellazione dai risultati mostrati dal motore di ricerca a seguito di una ricerca per nominativo».

[20] La locuzione diritti della personalità ricomprende tutti quei diritti necessari ad assicurare il pieno sviluppo della personalità umana: quindi, tutelano sia gli interessi dell’individuo nella sua fisicità sia quelli che concorrono a caratterizzare la sfera morale di ciascun individuo nei rapporti con gli altri.

[21] Per uno studio sul riconoscimento dei diritti della persona, si veda quanto aveva sostenuto G. Vassalli, La protezione della sfera della personalità nell’era della tecnica, in Studi in onore di Emilio Betti, V, Milano, 1962, pagg. 31 e ss.

[22] Come sostenuto dalla Corte Suprema di Cassazione, nell’ordinanza in commento, «va premesso che nel disegno personalistico – lo Stato è a servizio della persona, non viceversa – e pluralista prefigurato dalla Costituzione, l’art. 2 non può essere interpretato se non come una norma di apertura, fonte e catalogo – come è stato incisivamente affermato da autorevole dottrina – di una “Costituzione culturale”, e ad essa vanno, pertanto, ricondotti una serie di diritti della persona, sia che essi siano previsti da norme di legge ordinaria, sia che debbano enuclearsi dal sistema, come per i diritti – in considerazione nella vicenda oggetto in esame – all’identità personale ed all’oblio».

In una precedente sentenza, la stessa Corte non ha mancato di notare che «in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana»: si veda Cass. Civ., Sez. Un., sent. 11 novembre 2008, n. 26972, richiamata da Cass. Civ., sent. 11 gennaio 2011, n. 450.

In dottrina, si veda V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, cit., pagg. 61-62, per la quale «[…] il diritto alla riservatezza o diritto alla privacy si è andato progressivamente affermando di pari passo e grazie allo sviluppo delle teorie individualistiche, che hanno posto l’uomo al centro ed a fondamento della società e la sua dignità quale barriera di protezione insuperabile. La strada della individualizzazione per cui la persona giunge ad assumere rilievo in sé e per sé e non solo in quanto parte di una collettività ed a prescindere quindi da ogni riferimento alla “dimensione statale” – strada accidentata che ha condotto al superamento definitivo delle teorie statocentriche ed anti-individualistiche solo dopo la seconda guerra mondiale – si alimenta del riconoscimento del diritto alla riservatezza, inteso in un primo momento storico in termini negativi, quale libertà e garanzia da ogni interferenza proveniente dall’esterno, funzionale agli essenziali bisogni dell’uomo alla conduzione di una libera esistenza ed al libero svolgimento della propria vita di relazione». Quest’ultima è una «necessità addirittura biologica dell’uomo», «un aspetto inalienabile della persona umana», com’è stata definita da A. Cataudella, Riservatezza (diritto alla), I) diritto civile, in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1991, vol. XXVII, pagg. 185 e ss.

[23] Sulle correnti interpretative, sorte dalla formulazione della disposizione di cui all’art. 2 Cost., si rinvia alle considerazioni effettuate in C. Colapietro e M. Ruotolo, Diritti e libertà, Cap. X, in F. Modugno (a cura di), Diritto pubblico, Torino, 2012, pagg. 559-563.

[24] Nell’ordinanza in commento si osserva che «[…] nelle controversie in cui si configura una contrapposizione tra due diritti, aventi entrambi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il cd. criterio di “gerarchia mobile”, dovendo il giudice di volta in volta, ed in considerazione dello specifico thema decidendum, all’individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di un’equilibrata comparazione tra diritti in gioco, colta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico (Cass., 05/08/2010, n. 18279)».

[25] Cfr. G. Finocchiaro, Introduzione al Regolamento europeo sulla protezione dei dati, in Nuove leggi civili commentate, 2017, pagg. 2 e ss.; A. Thiene, Segretezza e riappropriazione di informazioni di carattere personale: riserbo e oblio del nuovo regolamento europeo, in Nuove leggi civili commentate, 2017, pag. 417.

[26] La paternità della locuzione viene concordemente attribuita a S. Warrens e L.D. Brandeis, The right of privacy, in Harvard Law Review, 4, 1890.

[27] La definizione di trattamento è rinvenibile all’art. 4, n. 2, GDPR: «qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione».

La nozione di dato personale è offerta dall’art. 4, n. 1, GDPR: «qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile («interessato»); si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale». Essa può includere ogni informazione in qualunque formato, come quello numerico, alfabetico, grafico, fotografico o acustico: cfr. art. 29 Working Party, Opinion 4/2007 on the concept of personal data, 7.

Sull’evoluzione storica del diritto al trattamento dei dati personali, si rinvia a F. Pizzetti, Privacy e il diritto europeo alla protezione dei dati personali. Dalla Direttiva 95/46 al nuovo Regolamento europeo, I, Torino, 2016, pagg. 10 e ss.

[28] Come notato in V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, cit., pagg. 67-69, «la nuova e tuttora attuale concezione del diritto alla riservatezza, pertanto, lo identifica anche e fortemente con il diritto al controllo delle proprie informazioni personali, in una dimensione necessariamente relazionale in cui l’individuo chiede di autodeterminarsi liberamente e di essere conosciuto e riconosciuto per ciò che effettivamente ed attualmente è. In tale ambito, dallo sviluppo della nozione di riservatezza emerge quello che sarà poi compiutamente identificato ed elaborato quale diritto al rispetto della propria identità personale […] In tal modo, il diritto a mantenere riservati ed inaccessibili ai terzi i propri dati personali cambia pelle e diviene anche il diritto a che le informazioni personali già diffuse presso i terzi rispettino la propria attuale identità, per come è andata evolvendosi nel tempo. Così, il diritto al controllo dei dati personali, collegato indissolubilmente con la libera costruzione della propria identità personale, viene a comprendere anche i dati personali nel loro modificarsi negli anni e le caratteristiche assunte via via dalla persona, eventualmente diverse rispetto a quelle passate. […] La derivazione del diritto al corretto trattamento dei dati dal diritto alla riservatezza e l’intimo legame con il diritto alla identità ne fondano poi la natura di diritto inviolabile costituzionalmente tutelato».

In generale, come affermato in F. Bocchini ed E. Quadri, Diritto privato, Torino, 2018, pag. 329, «il riconoscimento del diritto alla riservatezza ha inteso garantire in modo comprensivo l’intangibilità della intimità della vita privata della persona, la quale, in ultima analisi, solo col rispetto di un sufficiente riserbo su situazioni, comportamenti e vicende che la riguardano può riuscire a svilupparsi in piena libertà e senza intollerabili condizionamenti».

Sul punto, si veda altresì R. Pardolesi, Dalla riservatezza alla protezione dei dati personali: una storia di evoluzione e discontinuità, in Diritto alla riservatezza e circolazione dei dati personali, I, Milano, 2003; G. Marini, La giuridificazione della persona, in Rivista di diritto civile, 2006, pagg. 366 e ss.; S. Niger, Le nuove dimensioni della privacy: dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali, Padova, 2006; G. Visintini, Dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 1, 2019.

In giurisprudenza, merita di essere ricordata, per gli spunti apportati nel dibattito, Cass., sent. 27 maggio 1975, n. 2129, la quale ha ribadito che, riconoscendo l’art. 3 Cost. «la dignità sociale del cittadino, si rende necessaria una sfera di autonomia che garantisca tale dignità»: così, nei limiti di fatto della libertà ed eguaglianza dei cittadini rientrano anche «quelle menomazioni cagionate dalle indebite ingerenze altrui nella sfera di autonomia di ogni persona». Più di recente, si pone in termini analoghi Cass., sent. 25 marzo 2003, n. 4366.

[29] Art. 8 della Carta: «1. Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano.

  1. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica.
  2. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente».

[30] Art. 7 della Carta: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni».

[31] In merito, F. Bocchini ed E. Quadri, Diritto privato, cit., pag. 338, considerano la genesi del diritto alla identità personale come «di una delle più interessanti espressioni di quella creatività della giurisprudenza in materia di diritti della personalità, consentita dalla maturazione della consapevolezza circa le crescenti necessità di tutela della persona, nella prospettiva di globale protezione emergente dall’art. 2 Cost.».

In giurisprudenza, Corte cost., sent. 3 febbraio 1994, n. 13, dichiara che «tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce anche il diritto all’identità personale, […] un bene per se medesimo, indipendentemente dalla condizione personale e sociale, dai pregi e dai difetti del soggetto, di guisa che a ciascuno è riconosciuto il diritto a che la sua individualità sia preservata».

In sede di legittimità, si citano, tra le tante, Cass., sent. 7 febbraio 1996, n. 978; Cass., sent. 24 aprile 2008, n. 10690, in Responsabilità Civile e Previdenza, 1, 2009, pagg. 155 e ss, con Nota di S. Peron.

Per un focus storico sul fondamento del diritto in parola, si rinvia a V. Scalisi, Lesione della identità personale e danno non patrimoniale, in Rivista di diritto civile, 1984, pagg. 433 e ss.; L. Bigliazzi Geri, Impressioni sull’identità personale, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 1985, pagg. 568 e ss.; F. Mastropaolo, Identità personale e manifestazione del pensiero. Strumenti di tutela, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 1985, pagg. 583 e ss.

[32] A titolo esemplificativo, si veda Cass., sent. 22 giugno 1985, n. 3769, in cui viene rimarcata tale differenza: «Il diritto all’identità personale si distingue da quello alla riservatezza: il primo assicura la fedele rappresentazione alla propria proiezione sociale, il secondo, invece, la non rappresentazione all’esterno delle proprie vicende personali non aventi per i terzi un interesse socialmente apprezzabile».

[33] Non a caso, V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, cit., pagg. 78-79, nota che «[…] strettissimo è il collegamento tra diritto alla identità e diritto alla riservatezza, rappresentando sostanzialmente il primo una evoluzione del secondo. Tuttavia, non può certamente dirsi che le due situazioni giuridiche coincidano né che siano espressione del medesimo interesse della persona. L’interesse alla riservatezza riguarda difatti la vita privata dell’individuo, e rappresenta quella che autorevolmente è stata indicata come l’esigenza di “isolamento morale” propria di ogni essere umano; l’interesse all’identità personale, invece, attiene alla piena realizzazione di se stessi ed alla conservazione della giusta rappresentazione del proprio io, di cui l’individuo gode presso la comunità in cui è inserito, attenendo quindi fondamentalmente, almeno in una delle sue due espressioni, alla dimensione pubblica e sociale dell’essere umano. Da questo punto di vista, come rilevato, esse sembrano agire su piani addirittura opposti, avendo il diritto alla identità una indubbia proiezione sociale mentre quello alla riservatezza è circoscritto alla sfera privata ed alla dimensione individuale della persona. Un’altra significativa differenza consiste nel fatto che il diritto alla riservatezza è leso dalla diffusione di fatti veri, concernenti l’individuo, su cui si vuole mantenere il riserbo, mentre quello alla identità personale dalla pubblicazione di fatti falsi, distorsivi della realtà»

[34] Art. 1 del Codice Privacy: «Il trattamento dei dati personali avviene secondo le norme del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, di seguito «Regolamento», e del presente codice, nel rispetto della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali della persona».

Con riguardo alla dignità umana, si segnala Corte cost., sent. 23 luglio 1991, n. 366, secondo cui fondamentale è la garanzia di «quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana».

[35] Recenti contributi sulla tematica in questione sono i seguenti: S. Niger, Le nuove dimensioni, cit., pagg. 79 e ss.; G. Pino, Il diritto all’identità personale. Interpretazione costituzionale e creatività giurisprudenziale, Bologna, 2003; Id., L’identità personale, in Trattato di biodiritto. Ambito e fonti del biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, a cura di S. Rodotà e M. Tallacchini, 2010, pagg. 304 e ss.; G. Finocchiaro, Identità personale (diritto alla), in Digesto, Discipline Privatistiche, Sezione Civile, Torino, 2010, pagg. 721 e ss.; S. Rodotà, Diritto d’amore, Roma-Bari, 2015, pag. 81; M.F. Cocuccio, Il diritto all’identità personale e l’identità “digitale”, in Il Diritto Di Famiglia e Delle Persone, 2016, pagg. 949 e ss.;  

[36] Tra le innumerevoli decisioni, si ritengono di essere ricordate Corte cost., sent. 3 febbraio 1994, n. 13, cit., che definisce il diritto all’identità personale come il diritto «ad essere se stesso, inteso come rispetto dell’immagine di partecipe alla vita associata, con le acquisizioni di idee ed esperienze, con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, ed al tempo stesso qualificano, l’individuo. […] L’identità personale costituisce quindi un bene per sé medesima, indipendentemente dalla condizione personale e sociale, dai pregi e dai difetti del soggetto, di guisa che a ciascuno è riconosciuto il diritto a che la sua individualità sia preservata».

In sede di legittimità, Cass., sent. 22 giugno 1985, n. 3769, cit., afferma che «ciascun soggetto ha interesse, ritenuto generalmente meritevole di tutela giuridica, di essere rappresentato nella vita di relazione, con la sua vera identità, così come questa nella realtà sociale, generale e particolare, è conosciuta o poteva essere conosciuta con l’applicazione dei criteri della normale diligenza e della buona fede soggettiva: ha, cioè, interesse a non vedersi all’esterno alterato, travisato, offuscato, contestato il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale etc. quale si era estrinsecato o appariva, in base a circostanze concrete ed univoche, destinato ad estrinsecarsi nell’ambiente sociale».

[37] Infatti, come nota V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, cit., pag. 75, non si può tutelare «l’opinione intima e variabile che il soggetto ha del proprio, difficilmente identificabile e che mai potrebbe costituire un limite al diritto di informazione altrui». È, dunque, tutelata solo l’immagine individuale che risulta da azioni e comportamenti oggettivi e, ovviamente, corrispondenti alla realtà dei fatti. Sarà, di volta in volta, il giudice a dover valutare se un fatto riportato in modo erroneo rientri tra gli elementi per così dire principali, in virtù del loro rilievo nel caratterizzare una persona, oppure siano degli elementi secondari, inidonei ad individuare specificamente un soggetto.

[38] A riguardo, si veda per tutti quanto sostenuto da R. Tommasini, L’identità dei soggetti tra apparenza e realtà: aspetti di una ulteriore ipotesi di tutela della persona, in Il diritto alla identità personale, a cura di G. Alpa, M. Bessone, L. Boneschi, Padova, 1981, pag. 83, in cui l’identità personale viene definita come «la proiezione immateriale nel sociale del soggetto sotto l’aspetto dei suoi sentimenti, di tutte quelle qualità (positive e negative), delle sue azioni che finiscono con il suo caratterizzarne il tipo di vita». Sul tema, si veda anche V. Zeno-Zencovich, Onore e reputazione nel sistema del diritto civile, Napoli, 1985; A. Fusaro, Nome e identità personale degli enti collettivi. Dal «diritto» all’identità uti singuli al «diritto» all’identità uti universi, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2002, parte II, pag. 57; T. Pasquino, Identità digitale della persona, diritto all’immagine e reputazione, in Privacy Digitale. Riservatezza e protezione dei dati personali e nuovo Codice Privacy, a cura di E. Tosi, Milano, 2019, pag. 100.

[39] Cfr. F. Bocchini ed E. Quadri, Diritto privato, cit., pag. 339, i quali aggiungono che la tutela del diritto all’identità personale, proprio in virtù del proprio carattere autonomo, non va confusa con la tutela del nome (strumento di identificazione nella vita civile), dell’immagine (complesso delle sembianze fisiche del soggetto) e della riservatezza (esigenza, di carattere prettamente negativo, a non vedersi esposti alla conoscenza e curiosità del pubblico dei consociati), nonostante si intrecci spesso con queste ulteriori forme di tutela.

[40] Si veda V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, cit., pagg. 79-80, la quale fa notare che «l’esercizio delle prerogative inerenti la tutela della propria riservatezza consente […] di costruire e manifestare correttamente, nelle relazioni esterne, la propria identità, al riparo da indebite ingerenze e pressioni sociali». Dello stesso tenore, V. Mathieu, Privacy e dignità dell’uomo. Una teoria della persona, Torino, 2004, secondo cui «il diritto alla privacy è un diritto a conservare quel possesso di sé, o riferimento a sé dei propri contenuti, che fa di ciascuno un soggetto personale. Ciò richiede che si resti “padroni” del proprio sentire e responsabili del proprio comportamento». In termini analoghi, si esprime G. Pino, L’identità personale, cit., pag. 317, per cui «la privacy in senso stretto ha l’importante funzione di creare le precondizioni per il libero sviluppo dell’autonomia individuale, al riparo da indebite stigmatizzazioni sociali e pressioni conformistiche. […] Il binomio diritto alla riservatezza/diritto all’identità personale intende dunque assicurare che sia rimessa al soggetto la libertà di mantenere privati oppure di rivendicare pubblicamente questi aspetti della sua identità personale, o anche la possibilità di stabilire liberamente di volta in volta in quali contesti manifestare liberamente il proprio patrimonio culturale, morale, ecc. e in quali invece mantenere tali caratteristiche “coperte”, silenti». Simili considerazioni sono fatte in G. Finocchiaro, Identità personale (diritto alla), cit., pag. 723: «Indubbiamente riservatezza, protezione dei dati personali, identità personale […] costituiscono le facce di un unico prisma. L’identità, che è poliedrica, si declina nella relazione, con il conseguente sorgere dei corrispondenti diritti: diritto alla riservatezza, diritto alla protezione dei dati personali, diritto all’identità personale […]».

[41] Sul punto, sono icastiche le affermazioni di V. Zeno-Zencovich, Perché occorre rifondare il significato della libertà di manifestazione del pensiero, in Percorsi costituzionali, 1, 2010, pag. 72: «Nella società della comunicazione si assiste ad una moltiplicazione della identità con la possibilità – in concreto sfruttata – di essere davvero uno, nessuno, centomila, con nomi diversi, sembianze diverse, interlocutori diversi a seconda delle tante – o poche – sfaccettature della propria personalità». Sono, altresì, paradigmatiche le parole di S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, pag. 173: «Siamo […] in presenza di una identità “dispersa” per il fatto che le informazioni riguardanti la stessa persona sono contenute in banche dati diverse, ciascuna delle quali restituisce soltanto una parte o un frammento dell’identità complessiva. Rischiamo d’entrare nel tempo dell’identità “inconoscibile” da parte dello stesso interessato, dislocata com’è in luoghi non solo diversi, ma di cui è difficile o addirittura impossibile conoscere l’esistenza o ai quali è arduo o impossibile l’accesso. La nostra identità, dunque, è sempre più il frutto di una operazione in cui sono gli altri a giocare un ruolo decisivo, con una presenza continua di elaborazione e diffusione. Si è di fronte a una identità “instabile”, alla mercé, di volta in volta, di umori e pregiudizi o degli interessi concreti di chi raccoglie, conserva, diffonde i dati personali».

[42] Una chiosa paradigmatica dell’intero discorso è data da M. Zanichelli, Il diritto all’oblio tra privacy e identità digitale, in Informatica e diritto, 1, 2016, pag. 24, secondo la quale «il web favorisce una sorta di cristallizzazione che inchioda la totalità e la complessità di una persona a un singolo fatto, a una notizia, a un’informazione, talora semplicemente a un sospetto o a un’ipotesi».

[43] Del resto, come acutamente ribadito in S. Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Roma-Bari, 2004, «il diritto all’identità personale nella società dell’informazione si specifica in due direzioni: come potere di esigere la rappresentazione integrale dell’identità dispersa e come potere di respingere la riduzione della persona alle sole sue informazioni trattate in forma automatizzata».

Sul punto, si veda A. Masera e G. Scorza, internet, i nostri diritti, Bari, 2016, pagg. 43-51, per cui «l’immagine digitale dell’identità di una persona è fallace, perché imprecisa, parziale, magari non aggiornata, oppure costruita sulla base di deduzioni algoritmiche condizionate dalle finalità di una raccolta».

[44] A proposito, V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, cit., pag. 86, sottolinea che «[…] nel caso sia leso il diritto all’identità aggiornata, la lesione deriva dalla ripubblicazione di notizie che, per essere trascorso del tempo, non possono più dirsi vere, essendosi evoluta e modificata la personalità dell’interessato».

[45] In effetti, occorre tener conto della dinamicità che coinvolge ciascun essere umano durante la propria esistenza, dimodoché è probabile poter riscontrare dei mutamenti nel singolo individuo, che sono percepibili all’esterno: per tale circostanza, alcuni Autori hanno contrapposto alla c.d. identità storica una identità dinamica, atta quest’ultima a denotare i possibili cambiamenti personali.

In generale, preme rammentare che persistono delle divergenze di veduta sulla natura del diritto all’oblio. A riguardo, M. Mezzanotte, Il diritto all’oblio. Contributo allo studio della privacy storica, Napoli, 2009, pag. 64, sostiene che, «[…] se nella privacy attuale si tutelano le scelte di vita della persona, in quella che potremmo definire storica si vuole evitare che fatti compiuti a distanza di tempo vengano nuovamente sottoposti al controllo pubblico ed alla riprovazione collettiva. Questo secondo profilo evidenzia ancora di più il carattere “sociale” della riservatezza, che diviene lo strumento per ricostruire l’immagine pubblica di un individuo agli occhi della collettività, senza temere che errori del passato tornino nuovamente a condizionare l’esistenza». Per l’Autore, il diritto all’oblio si sviluppa come un diritto autonomo rispetto a quella della riservatezza e dell’identità personale.

Altri Autori considerano il diritto all’oblio strumentale al diritto all’identità personale: G. Pino, L’identità personale, cit., pag. 303; G. Spoto, Note critiche sul diritto all’oblio e circolazione delle informazioni in rete, in Contratto e Impresa, 4-5, 2012, pagg. 1048 e ss.; M.C. Daga, Diritto all’oblio: tra diritto alla riservatezza e diritto all’identità personale, in Danno e Responsabilità, 2014, pag. 276; M. Tampieri, Il diritto all’oblio e la tutela dei dati personali, in Responsabilità civile e previdenza, 3, 2017, pagg. 1010 e ss.; G. Mina, La tutela del diritto all’oblio (commento a Trib. Milano, 28 settembre 2016 n. 10374), in Danno e Responsabilità, 2017, pag. 374; A. Thiene, Segretezza e riappropriazione, cit., pag. 429; M. Bianca, Memoria ed oblio: due reali antagonisti?, in M. Bianca (a cura di), Memoria versus oblio, Torino, 2019, pagg. 159 e ss. In giurisprudenza, si veda Trib. Milano, 28 settembre 2016, n. 10374, in Danno e Responsabilità, 2017, pagg. 369 e ss.; Trib. Milano, 24 gennaio 2020, n. 4911, in Nuova giurisprudenza civile, 2020, pagg. 1242 e ss., con Nota di G. Cirillo.

Altri ancora collegano il diritto all’oblio a quello alla riservatezza: tra i tanti, si menziona il recente contributo di M. Betzu, Regolare internet. Le libertà di informazione e di comunicazione nell’era digitale, Torino, 2012, pag. 163. In giurisprudenza, si veda Trib. Roma, 3 dicembre 2015, n. 23771, in Foro it., 2016, 1040; in Ridare.it, 17, 2016, con Nota di D. Bianchi; in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica (Il), 2, 2016, pagg. 266 e ss., con Nota di G.M. Riccio.

A tali correnti di pensiero, si aggiunge chi rimarca l’autonomia del diritto all’oblio: M. Rizzuti, Il diritto e l’oblio, in Corriere giuridico, 2016, pag. 1078; R. Senigaglia, Reg. UE 2016/679 e diritto all’oblio nella comunicazione telematica. Identità, informazione e trasparenza nell’ordine della degnità personale, in Nuove leggi civili commentate, 2017, pag. 1032; D. Messina, Il diritto all’oblio tra vecchie e nuove forme di comunicazione, 2017, in www.dimt.it; P. Sammarco, Privacy digitale, motori di ricerca e social network, cit., pag. 182; A. Vesto, La tutela dell’oblio tra intimità e condivisione senza filtri, in mediaLaws – Rivista di diritto dei media, 2, 2019, pagg. 12 e ss.; V. Bellomia, ivi, pagg. 83-86, «[…] ciò che viene indicato comunemente come “diritto all’oblio” rappresenta una moderna evoluzione sia del diritto alla propria identità aggiornata sia del diritto alla privacy, tanto che, a tale ultimo proposito, si è fatto riferimento al diritto alla “privacy storica”. Questa definizione palesa che non si tratta di un nuovo ed autonomo diritto, ma di un peculiare aspetto del diritto alla riservatezza e, aggiungiamo, di quello all’identità personale. […] A nostro avviso non c’è necessità di identificare, in quello che viene generalmente indicato come diritto all’oblio, un ulteriore, nuovo ed autonomo diritto soggettivo, quando esso, più correttamente, può essere inquadrato come una manifestazione dei suddetti diritti alla identità personale ed alla riservatezza, strumentale alla loro piena e compiuta realizzazione, nel caso in cui essi siano lesi dal trascorrere del tempo e non sussistano, nel caso all’esame, altri e prevalenti diritti fondamentali da salvaguardare. […] In altre parole, il diritto all’oblio è un aspetto della riservatezza in quanto il soggetto, con il trascorrere del tempo, in assenza di un pubblico interesse, perdurante o sopravvenuto, alla conoscenza delle informazioni personali che lo riguardano, è come se se ne riappropriasse, anche qualora in passato legittimamente diffuse presso i terzi. In tal modo, il diritto a tenere riservate quelle informazioni torna attuale e degno di protezione. Ed è anche un aspetto del diritto alla propria identità ogniqualvolta la riproposizione di una notizia datata sia idonea a ledere la proiezione sociale del soggetto coinvolto, facendolo apparire con sembianze, idee, comportamenti che, se pure lo avevano qualificato ed “identificato” nel passato, non hanno più tale attitudine, avendo perso di attualità e pertinenza».

Nell’ottica di F. Pizzetti, Il prisma del diritto all’oblio, in F. Pizzetti (a cura di), Il caso del diritto all’oblio, Torino, 2013, pag. 30, il diritto all’oblio «oscilla tra diritto al rispetto della dignità e della identità della persona e del diritto alla riservatezza», aggiungendo, inoltre, che si tratta di una «categoria giuridica complessa, multiforme, polisensa e poliedrica, la cui natura è di volta in volta segnata dalle caratteristiche dei fenomeni ai quali è applicata». Riprende tale opinione S. Martinelli, Il diritto all’oblio nel bilanciamento, cit., pag. 1050, la quale riporta che il diritto all’oblio «[…] oscilla tra il rispetto della dignità e dell’identità della persona e del diritto alla riservatezza, appartenente “alle ragioni ed alle ‘regioni’ del diritto alla riservatezza”, e suo antecedente logico giuridico, ma tuttavia da esso differenziato, caratterizzandosi come una sua espressione particolare e specifica […]».

[46] Costituisce una pietra miliare, per il riconoscimento di tale diritto, Corte cost., 26 marzo 1993, n.112, in Foro it., 1993, I, 1339, con Nota di F. Caringella, nella quale si afferma che «Questa Corte ha da tempo affermato che il “diritto all’informazione” va determinato e qualificato in riferimento ai principi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale».

In dottrina, cfr. V. Zeno-Zencovich, Il “diritto ad essere informati” quale elemento del rapporto di cittadinanza, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 1, 2006, pagg. 1 e ss.; G. Gardini, Diritti di esclusiva su eventi di grande interesse pubblico, brevi estratti di cronaca e diritto di essere informati: un equilibrio ancora instabile, in Giurisprudenza costituzionale, 1, 2012, pagg. 602 e ss.; F. DONATI, L’art. 21 della Costituzione settanta anni dopo, in mediaLaws, 3, 2018; D. De Rada, “Fake news”: tra diritto soggettivo ad essere informati e ricerca di una regolamentazione, in giustiziacivile.com, 5, 2021, pagg. 11-12.

[47] In questo senso si è espressa emblematicamente Corte EDU, 24 gennaio 2017, n. 64746, in Ilpenalista.it, 2017, secondo cui «la Corte sottolinea che, mentre la stampa svolge un ruolo essenziale in una società democratica e il suo dovere è quello di trasmettere informazioni e idee su tutte le questioni di interesse pubblico […], i giornalisti sono comunque soggetti a doveri e responsabilità. La tutela accordata ai giornalisti dall’articolo 10 della Convenzione è infatti subordinata alla condizione che essi agiscano in buona fede al fine di fornire informazioni accurate e affidabili in conformità con i suddetti principi del giornalismo responsabile, con riferimento principalmente ai contenuti raccolti e/o o diffusi con mezzi giornalistici» (§ 36).

In dottrina, si rinvia a G. Pitruzzella, La libertà di informazione nell’era di internet, in G. Pitruzzella, O. Pollicino, S. Quintarelli, Parole e potere: Libertà d’espressione, hate speech e fake news, Milano, 2017, pag. 75; R. Perrone, Fake news e libertà di manifestazione del pensiero: brevi coordinate in tema di tutela costituzionale del falso, in Nomos, 2, 2018, pag. 10; O. Pollicino, La prospettiva costituzionale sulla libertà di espressione nell’era di Internet, in mediaLaws, 1, 2018, pagg.  1-32.

[48] Cfr. M. Cirese, Diritto all’oblio e diritto di cronaca: quali sono i criteri per il bilanciamento?, in Ilfamiliarista.it, 2018 (Nota a Cass., 20 marzo 2018, n. 6919); M. Fiorendi, Diritto all’oblio: bilanciamento con gli altri diritti e interessi meritevoli di tutela e suoi profili risarcitori, in Ridare.it, 2020 (Nota a Cass., 19 maggio 2020, n. 9147); V. Amendolagine, Il diritto all’oblio tra rievocazione storiografica on line e cronaca giudiziaria, in GiustiziaCivile.com, 2020 (Nota a Cass., 27 marzo 2020, n. 7559).

[49] La prima volta in cui si è fatto cenno alle condizioni risale a Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259, in Foro it. 1984, I, 2711. Tra le sentenze più recenti, Cass., 22 luglio 2019, n. 19681, in Giurisprudenza Italiana, 2021, pagg. 1332-1341, con Nota di A. Spangaro; in Danno e Responsabilità, 5, 2019, pagg. 611-614, con Nota di D. Muscillo; in Danno e Responsabilità, 5, 2019, pagg. 614-620, con Nota di A. Bonetta; in Danno e Responsabilità, 5, 2019, pagg. 620-624, con Nota di G. Calabrese; in Il Corriere giuridico, 10, 2019, pagg. 1195-1197, con Nota di V. Cuffaro; in Responsabilità Civile e Previdenza, 5, 2019, pagg. 1556 e ss., con Nota di G. Citarella; in Diritto & Giustizia, 136, 2019, pag. 3, con Nota di A. Mazzaro; Cass., 19 maggio 2020, n. 9147, in Responsabilità Civile e Previdenza, 1, 2021, pagg. 175 e ss., con Nota di M.F. Cocuccio; in Ridare.it, 2020, con Nota di M. Fiorendi; in Diritto & Giustizia, 107, 2020, pagg. 1 e ss., con Nota di D. Bianchi.

In giurisprudenza di merito, di recente, si posizionano Trib. Palermo, 29 gennaio 2020, n. 453; Trib. Teramo, 06 febbraio 2020, n. 107; Trib. Perugia, 14 aprile 2020, n. 422; Trib. Napoli, 04 agosto 2020, n. 5469; Trib. Rimini, 30 dicembre 2020, n. 940; Trib. Perugia, 09 febbraio 2021, n. 227; Trib. Terni, 23 marzo 2021, n. 270; C. app. Milano, 31 maggio 2021, n. 1705.

In ambito sovranazionale, si veda Corte EDU, 07 febbraio 2012, n. 39954, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 3, 2012, pagg. 406 e ss., con Nota di M. Marossi; Corte EDU, 07 febbraio 2012, n. 40660, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 3, 2012, pagg. 395 e ss.

[50] Per un’attenta disamina su ciascuna delle condizioni in parola, si consiglia V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, cit., pagg. 170-185.

[51] Gli artt. 136-139 sono stati formulati in attuazione dell’art. 85 GDPR, rubricato Trattamento e libertà d’espressione e di informazione, il quale prevede che «il diritto degli Stati membri concilia la protezione dei dati personali ai sensi del presente regolamento con il diritto alla libertà d’espressione e di informazione, incluso il trattamento a scopi giornalistici».

[52] Le attività dei motori di ricerca sembrano rientrare nella nozione di «trattamento», di cui all’art. 4 GDPR: infatti, essi offrono all’utente un quadro complessivo di elementi inerenti alla persona o alla cosa oggetto di ricerca, mediante il meccanismo della indicizzazione dei siti sorgente originari. In più, i motori di ricerca creano copie cache di pagine web originarie, in cui vengono indirizzati gli utenti con più facilità e che possono rimanere online persino a seguito di una cancellazione o rettifica avvenute sul sito sorgente. Questo ha come implicazione il fatto che la valutazione circa la liceità, adeguatezza e proporzionalità vada condotta sulla base dell’attività del motore di ricerca, e non su quanto emerge dal sito sorgente: cfr. G. Finocchiaro, Il diritto all’oblio nel quadro dei diritti della personalità, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 4-5, 2014, pagg. 591 e ss.

Invece, dei dubbi sussistono ancora sulla possibilità di qualificare un motore di ricerca quale titolare del trattamento, con tutte le responsabilità che ne conseguono ai sensi dell’art. 82 GDPR: si veda sul punto V. Bellomia, ivi, pagg. 258-259.

[53] Gruppo di lavoro “Articolo 29”, Linee-guida sull’attuazione della sentenza della corte di giustizia dell’unione europea nel caso c-131/12 “Google Spain e inc. contro Agencia española de protección de datos (aepd) e mario costeja gonzález”, Adottate il 26 novembre 2014, Sintesi esecutiva, n. 1.   

[54] In giurisprudenza europea, si veda Corte di Giustizia, 13 maggio 2014, n. 131, sul noto caso Google Spain c. Costeja, in Diritto & Giustizia, 1, 2014, pag. 8, con Nota di G. Milizia; in Responsabilità Civile e Previdenza, 5, 2014, pag. 1530C, con Nota di L. Bugiolacchi; in Giurisprudenza Costituzionale, 3, 2014, pag. 2949B, con Nota di O. Pollicino; in Responsabilità Civile e Previdenza, 4, 2014, pag. 1177, con Nota di S. Peron; in Cassazione Penale, 3, 2015, pag. 1247, con Nota di S. Ricci, sentenza nella quale la Corte ha sostenuto che «nella misura in cui l’attività di un motore di ricerca può incidere, in modo significativo e in aggiunta all’attività degli editori di siti web, sui diritti fondamentali alla vita privata e alla protezione dei dati personali, il gestore di tale motore di ricerca quale soggetto che determina le finalità e gli strumenti di questa attività deve assicurare, nell’ambito delle sue responsabilità, delle sue competenze e delle sue possibilità, che detta attività soddisfi le prescrizioni della direttiva 95/46 [abrogata dall’art. 94 GDPR, a decorrere da 25 maggio 2018], affinché le garanzie previste da quest’ultima possano sviluppare pienamente i loro effetti e possa essere effettivamente realizzata una tutela efficace e completa delle persone interessate, in particolare del loro diritto al rispetto della loro vita privata» (punto 38). Riprende tali affermazioni Corte di Giustizia, 24 settembre 2019, n. 136, punto 37, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2, 2020, pag. 254, con Nota di L. Grimaldi; in Diritto & Giustizia, 171, 2019, pag. 2, con Nota di G. Milizia.

Nella giurisprudenza nazionale, si inserisce nello stesso solco Cass., 19 maggio 2020, n. 9147, cit., punto 11.3.1.; Cass., 21 luglio 2021, n. 20861, punto 2.4., in GiustiziaCivile.com, settembre 2021, con Nota di R. Settimio; in Diritto & Giustizia, 143, 2021, pag. 2, con Nota di M. Marotta.

[55] Cfr. G. Pino, Il diritto all’identità personale, cit., pagg. 99-102; Id., Teoria e pratica del bilanciamento: tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela dell’identità personale, in Danno e Responsabilità, 6, 2003, pag. 577; G. Marini, La giuridificazione, cit., pag. 369.

[56] Fanno espresso riferimento alla necessità di bilanciare i contrapposti interessi in gioco Cass., 5 aprile 2012, n. 5525, che ha affrontato, per la prima volta, il problema dei rapporti esistenti tra le notizie già pubblicate in passato, in quanto attinenti a fatti di interesse pubblico (anche in quel caso di trattava di una vicenda giudiziaria) ed il permanere delle stesse nella Rete Internet; Cass., 5 novembre 2018, n. 28084, in Il Corriere giuridico, 1, 2019, pagg. 5-19, con Nota di F. Di Ciommo; Diritto & Giustizia, 194, 2018, pagg. 2 e ss., con Nota di D. Bianchi; in Ridare.it, 12, 2018, con Nota di I. Alagna, in cui la Corte sostiene che «il bilanciamento tra il diritto di cronaca ed il diritto all’oblio incide sul modo di intendere la democrazia nella nostra attuale società civile, che, da un lato, fa del pluralismo delle informazioni e della loro conoscenza critica un suo pilastro fondamentale; e, dall’altro, non può prescindere dalla tutela della personalità della singola persona umana nelle sue diverse espressioni»; Cass., 22 luglio 2019, n. 19681, cit.; Cass., 27 marzo 2020, n. 7559, in Il Corriere giuridico, 3, 2021, pagg. 354-362, con Nota di V. Sciarrino; in GiustiziaCivile.com, 18, 2020, con Nota di V. Amendolagine; in Danno e Responsabilità, 6, 2020, pagg. 744-752, con Nota di C. Napolitano; Cass., 19 maggio 2020, n. 9147, cit, punto 12. In particolare, nell’ultima sentenza citata, la Cassazione espone che «in materia di diritto all’oblio là dove il suo titolare lamenti la presenza sul web di una informazione che lo riguardi – appartenente al passato e che egli voglia tenere per sé a tutela della sua identità e riservatezza – e la sua riemersione senza limiti di tempo all’esito della consultazione di un motore di ricerca avviata tramite la digitazione sulla relativa query del proprio nome e cognome, la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica […]» (Cass. 9147/2020).

Sul tema, si veda S. Martinelli, Il diritto all’oblio nel bilanciamento, cit., pag. 1054, per la quale «in un sistema nel quale la distinzione tra i diversi diritti della personalità e le norme su cui essi si fondano non sono condivise e in cui il bilanciamento può e deve divergere in relazione al mezzo di comunicazione utilizzato, ai fini del bilanciamento l’approccio casistico può venire in soccorso, divenendo più utile l’analisi delle caratteristiche del caso concreto […] piuttosto che la distinzione tra diritto alla riservatezza, diritto all’onore e alla reputazione e diritto all’oblio. Il bilanciamento con il diritto alla libertà di espressione va sempre e necessariamente effettuato in concreto, in relazione a tutte le esplicazioni della personalità che nel caso all’esame rilevano, mutuando criteri anche dalle pronunce concernenti altre manifestazioni specifiche della personalità, pur tuttavia distinguendo le peculiarità tra i diversi casi e anche ricordando che le sentenze non pretendono di essere provvedimenti a carattere generale, bensì esiti di bilanciamenti tra diritti in relazione a casi concreti».

[57] Non si tratta di un bilanciamento semplice, come notano F. Bocchini ed E. Quadri, Diritto Privato, cit., pag. 304, secondo i quali ci sarebbe «[…] l’evidente opportunità di una precisa individuazione e differenziazione dei diversi interessi garantiti con l’attribuzione di pretese riconducibili alla categoria dei diritti della personalità […], onde consentirne, sulla base di oggettivi indici normativi di meritevolezza, una pur difficile – e, inutile nasconderlo, spesso largamente opinabile – gerarchia», nonché F. Barra Caracciolo, La tutela della personalità in Internet, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 2, 2018, pag. 201, che discorre di una «sofferenza […] di un’opera di bilanciamento ancora in fieri» In considerazione di tali possibili inconvenienti, è stata caldeggiata l’elaborazione di parametri guida, al fine di ridurre il margine di discrezionalità dei giudici: a proposito, si rinvia a G. Pino, Il diritto all’identità personale, cit., pagg. 106 e 121, che punta sull’«applicazione di criteri stabili e generali, che possano assicurare un qualche grado di prevedibilità alle decisioni giudiziarie». Per un elenco di validi criteri generali, utili per il bilanciamento tra i più svariati diritti di pari rango, ma da affiancare, tuttavia, con criteri più specifici, nei settori in cui siano stati elaborati (es. quelli del Decalogo del buon giornalista), si veda V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, cit., pagg. 153-154, la quale sottolinea, infine, che «in particolare, il principio di proporzionalità appare davvero centrale nella delicata operazione di bilanciamento tra il diritto alla informazione e quello alla riservatezza. […] Ad esso, d’altra parte, si richiama espressamente l’art. 52, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che stabilisce che eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciute nella Carta (tra cui figurano, come noto, entrambe le situazioni giuridiche in esame) possono essere apportate, laddove necessarie e rispondenti ad effettive finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui, nel doveroso rispetto del suddetto principio di proporzionalità». Per ulteriori approfondimenti sul tema, si veda anche S. Martinelli, Il diritto all’oblio e alla portabilità dei dati, in P. Perri e G. Ziccardi (a cura di), Tecnologia e diritto. ii informatica giuridica, Vol. II, Milano, 2019, pagg. 128-133.

[58] Cass., ord. 31 maggio 2021, n. 15160, punto 2.4.6.

[59] Nel corso della vita, è ben possibile che si verifichino dei mutamenti di scelte e di comportamenti, al punto che i fatti riguardanti una persona, eventualmente narrati correttamente in precedenza, possano perdere la loro rilevanza ai fini dell’informazione: in questi casi, si suole affermare che gli interessi ad informare e ad essere informati divengono recessivi rispetto alla pretesa di oblio da parte del soggetto coinvolto nel racconto dei fatti. Difatti, l’esigenza sociale a ricevere una notizia corretta, necessaria per maturare un’opinione appropriata, sussiste in ogni caso, cioè sia in concomitanza alla prima pubblicazione che in occasione delle successive, eventuali ripubblicazioni. Per questa ragione, così come sarebbe opportuno che i media prestassero massima attenzione sull’attualità di una notizia, soprattutto laddove ci fosse l’intenzione di ripubblicarla, occorrerebbe che anche i motori di ricerca, nell’effettuare le indicizzazioni, raggruppando le varie notizie sotto uno specifico nome, attuassero scrupolosi interventi di riordino delle informazioni: infatti, in queste ipotesi assume analogamente rilievo l’attualità di un contenuto fornito o conservato. Secondo V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, cit., pag. 182, «a tale proposito può anzi ben dirsi che nell’ordinamento operi una generale presunzione di irrilevanza, trascorso un certo lasso di tempo, delle informazioni personali precedentemente diffuse, tanto che la liceità del loro trattamento è strettamente legata a predeterminare finalità (v. art. 5, comma 1, lett. b) del GDPR), che si presumono normalmente esaurirsi entro un determinato intervallo temporale, salvo prova contraria, ossia salvo che si dimostri che per specifiche ragioni (sopravvenute o mai venute meno) la riproposizione o la ulteriore permanenza della notizia sia giustificata».

[60] Ibidem.

[61] Ibidem.

[62] L’utilizzo del termine oblio è stato criticato da più parti per il suo utilizzo nella rubrica di un articolo, il 17 GDPR, che disciplina la richiesta di cancellazione dei dati, che consiste in uno dei possibili rimedi per cui si può giungere all’oblio: cfr. F. Di Ciommo, Il diritto all’oblio (oblito) nel regolamento UE 2016/679 sul trattamento dei dati personali, in Foro it., 2017, pagg. 306 e ss.; Id., Diritto alla cancellazione, diritto di limitazione del trattamento e diritto all’oblìo, in V. Cuffaro, R. D’Orazio e V. Ricciuto (a cura di) I dati personali nel diritto europeo, Torino, 2019, pagg. 353 e ss.

[63] Con particolare riferimento al concetto di nominativo, è utile ricordare la sua interpretazione estensiva, come si evince in Gruppo di lavoro “Articolo 29”, Linee-guida, cit., punto 21, per cui «[…] il diritto si configura nei riguardi di eventuali differenti versioni di tale nome, compresi cognomi o varianti ortografiche». Sul punto, si rinvia anche a Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento del 20 giugno 2019 [9124401]; Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento del 24 gennaio 2019 [9090803].

In tema di istanza, Cass., 21 luglio 2021, n. 20861, cit., punto 2.8., rammenta che «[…] ai fini della determinazione del petitum mediato, la domanda di deindicizzazione esige la precisa individuazione dei risultati della ricerca che l’attore intende rimuovere, e quindi, normalmente, l’indicazione degli indirizzi telematici, o URL, dei contenuti rilevanti a tal fine, anche se non è escluso che una puntuale rappresentazione delle singole informazioni che sono associate alle parole chiave possa rivelarsi, secondo le circostanze, idonea a dare precisa contezza della cosa oggetto della domanda, in modo da consentire al convenuto, gestore del motore di ricerca, di apprestare adeguate e puntuali difese sul punto».

[64] Sul tema, si consiglia L. Bugiolacchi, Quale responsabilità per il motore di ricerca in caso di mancata deindicizzazione su legittima richiesta dell’interessato, in Responsabilità civile e previdenza, 2, 2016, pag. 572; E. Stradella, Brevi note su memoria e oblio in rete a partire dal regolamento UE 2016/679, in P. Passaglia e D. Poletti (a cura di), Nodi virtuali, legami, informali: Internet alla ricerca di regole, Pisa University Press, 2017, pag. 94.

[65] I criteri in parola sono rinvenibili in diverse decisioni delle Corti sovranazionali e nazionali. In giurisprudenza europea, si menziona Corte di Giustizia, 13 maggio 2014, n. 131, cit.; Corte EDU, 19 ottobre 2017, n. 71233/13; Corte di Giustizia, 24 settembre 2019, n. 136, cit.; Corte di Giustizia, 24 settembre 2019, n. 507, in Diritto & Giustizia, 171, 2019, pagg. 3 e ss., con Nota di G. Milizia; in Danno e Responsabilità, 2, 2020, pagg. 210-222, con Nota di C. Scarpellino; in Danno e Responsabilità, 3, 2020, pagg. 405-416, con Nota di C. Scarpellino.

In giurisprudenza nazionale, si veda Cass., 5 novembre 2018, n. 28084, cit.; Cass., 20 marzo 2018, n. 6919, in Responsabilità Civile e Previdenza, 4, 2018, pagg. 1185 e ss., con Nota di G. Citarella; in Ridare.it, 2018, con Nota di E.C. Pallone; in Diritto & Giustizia, 50, 2018, pagg. 2 e ss., con Nota di D. Bianchi; in Ilfamiliarista.it, 2018, con Nota di M. Cirese; Cass., 22 luglio 2019, n. 19681, cit.; Cass., 27 marzo 2020, n. 7559, cit.; Cass., 19 maggio 2020, n. 9147, cit.; Cass., 21 luglio 2021, n. 20861, cit.

Nei riguardi delle notizie di grande rilievo e di quelle concernenti persone che ricoprono ruoli pubblici o che, in generale, sono note al grande pubblico, è stata approntata una disciplina ispirata al criterio dell’essenzialità dell’informazione, come dimostra l’art. 6, co. 1 e 2, delle Regole deontologiche, relative al trattamento di dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, pubblicate ai sensi dell’art. 20, comma 4, del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101 – 29 novembre 2018: «La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l´informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell´originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti.

La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica».

[66] Cass., ord. 31 maggio 2021, n. 15160, punti 2.4.16. e 2.4.17.

[67] Cass., ord. 31 maggio 2021, n. 15160, punto 2.4.15.

[68] Le conseguenze nefaste per il motore di ricerca sono soprattutto di valore economico, come nota O. Pollicino, Il diritto all’oblio preso sul serio, in confronticostituzionali.eu, 15 maggio 2014, consultabile in www.docenti.unina.it, che, a seguito della sentenza sul caso Google Spain c. Costeja, ha paventato un possibile rischio di «snaturare profondamente il modello di business di questi operatori, che da domani in poi saranno, evidentemente, travolti da istanze di rimozione», il che intaccherebbe «l’esercizio della libertà di espressione e di informazione non tanto del motore di ricerca, ma, da una parte, di chi ha fornito quei contenuti indicizzati dal motore stesso e dall’altra, ovviamente, degli utenti del web che possono essere interessati ad accedere a quei contenuti». Dello stesso tono, le considerazioni fatte da G.M. Riccio, Diritto all’oblio e responsabilità dei motori di ricerca, in G. Resta e V. Zeno-Zencovich (a cura di), Il diritto all’oblio su Internet dopo la sentenza Google Spain, Roma, Roma TrE-Press, 2015, pag. 211; G. Giannone Codiglione, Motori di ricerca, trattamento di dati personali e obbligo di rimozione: diritto all’oblio o all’autodeterminazione informativa?, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2014, pag. 1076. Questo vulnus è acuito se consideriamo, per di più, che «il motore di ricerca […] non è deputato ad operare un controllo di merito sui contenuti, che peraltro non conosce nel dettaglio in quanto non è il creatore. A differenza di quanto avviene nell’ambito giornalistico, questi intermediari operano al fine di consentire il diffuso accesso alla notizia, ma non esercitano alcun vaglio editoriale sui relativi contenuti, che non compete loro. Il rischio che è stato a tale proposito paventato è che la cancellazione dei risultati diventi in qualche modo automatica, al ricevimento delle relative notifiche da parte degli utenti ed in capo al motore di ricerca, senza alcuna verifica sul ricorrere di eventuali superiori ragioni di interesse pubblico che giustifichino la permanente indicizzazione. Per i motori di ricerca potrebbe difatti essere economicamente più conveniente, piuttosto che analizzare nello specifico ogni singola richiesta, procedere a delle deindicizzazioni generalizzate e sostanzialmente automatiche […]. Ciò tuttavia potrebbe esporli a responsabilità nei confronti dei titolari dei siti sorgente, i quali potrebbero ritenersi lesi, a fronte di deindicizzazioni non giustificate, nel loro diritto di informazione, per la perdita di accessibilità conseguente all’intervento di deindicizzazione. Dall’altre parte, evidentemente, in caso di mancato delisting di una notizia lesiva, il motore di ricerca può essere ritenuto responsabile nei confronti del richiedente»: così V. Bellomia, Diritto all’oblio e società dell’informazione, cit., pagg. 263-264.   

Per ridurre tali effetti negativi, A. Mantelero, Il futuro regolamento EU sui dati personali e la valenza “politica” del caso Google: ricordare e dimenticare nella digital economy, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 4-5, 2014, pagg. 681 e ss., consiglia che, «laddove si verta in materia di libertà di informazione, parrebbe tuttavia utile introdurre opportune disposizioni che prevedano l’attivarsi del motore di ricerca ai fini della rimozione solo a fronte di una valutazione proveniente dall’autorità giudiziaria o dall’autorità per la protezione dei dati o, quantomeno, ad istanza del gestore del sito che ospitava i contenuti rimossi».

[69] Cfr. M. Cammarata, Tra il diritto all’oblio e la falsificazione della realtà. Nel GDPR un difficile equilibrio, in InterLex, 2017.

[70] Cfr. C. Comella, Indici, sommari, ricerche e aspetti tecnici della “de-indicizzazione”, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 4–5, 2014, pagg. 731 e ss.

[71] Si veda R. Pardolesi, Oltre “Google Spain” e il diritto all’oblio, in Foro it., 2017, pag. 222, che pone l’attenzione su un aspetto, che definisce «ipocrisia discriminatoria»: infatti «la notizia ingrata per l’interessato campeggia a pieno titolo nel database sorgente, ma si ammanta di negatività o, nel caso dei dati sensibili e giudiziari, addirittura di illiceità, non appena venga catturata dal crawler del Google di turno e, per questa via, messa a disposizione degli utilizzatori del motore di ricerca. […] Se il dato non deve circolare, non è più coerente contingentare l’ostensibilità all’origine?».

Angelo Ciarafoni

Nato il 23 febbraio 1993 a Roma, città che ha sintetizzato il mio crogiolo di origini, che vanno dalle Marche, passando per Rieti, fino a giungere alle comunità Arbëreshë di Calabria. Affascinato dalla politica, dalla psicologia e dall’umano senso di Giustizia, ho intrapreso gli studi giuridici all’Università degli Studi "Roma Tre" per comprendere i risvolti del potere, i suoi vincoli e le risposte alla non sempre facile convivenza civile. Sono volontario in varie associazioni, anche in campo legale. Da febbraio 2017 svolgo l'attività di tutor con le cattedre di "Informatica giuridica e logica giuridica (aspetti applicativi)" e di "Documentazione, comunicazione giuridica e processo civile", tenute dal Prof. Maurizio Converso. Da marzo 2019 inizio a collaborare con la Rivista giuridica Ius in itinere, contribuendo a scrivere articoli divulgativi per l'area di Diritto costituzionale. In particolare, mi soffermo sulle tematiche connesse al campo del lavoro, delle nuove tecnologie e del c.d. Terzo settore.

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