venerdì, Luglio 26, 2024
Criminal & Compliance

A proposito del 41-bis O.P.: l’ultimo orientamento della Corte di cassazione

1. Premessa

Il regime detentivo previsto dall’art. 41-bis L. 26 luglio 1975, n. 354, in ragione delle sue peculiari caratteristiche che comportano un considerevole aumento di tutte quelle limitazioni già previste dalla permanenza all’interno degli istituti carcerari, è stata oggetto, nel corso degli anni, di numerose critiche e proposte di riforma.

Sia la giurisprudenza della CEDU che quella della Corte di Cassazione si sono più volte espresse in ordine al rapporto tra alcuni essenziali aspetti dell’art. 41-bis O.P. e i diritti del soggetto detenuto[1]. Proprio di recente la giurisprudenza di legittimità è ritornata sulla questione con riferimento alla possibilità, per il soggetto detenuto in regime di cui all’art. 41-bis O.P., di usufruire di cd e dei relativi strumenti elettronici.

2. Sul regime penitenziario di cui all’art. 41-bis O.P.

Prima di esaminare la pronuncia appare utile, al fine di evidenziare il contesto normativo, esaminare le principali caratteristiche dell’art. 41-bis O.P.-
L’art. 41-bis, comma 2, L. 354/75 è stato introdotto nell’ordinamento italiano dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306.

La norma in esso contenuta ha previsto fin dalla sua prima e originaria formulazione, un regime detentivo caratterizzato prevalentemente da una drastica riduzione delle opportunità di contatto della persona detenuta con il mondo libero. Tale modello di detenzione consiste in un elenco preciso e ora, anche parzialmente normativamente definito, di limitazioni alle residue libertà della persona incarcerata, ispirate all’esigenza di interrompere i collegamenti tra la stessa persona detenuta e l’associazione criminosa di appartenenza.

Le disposizioni dell’art.41-bis intervengono sulle regole alle quali un detenuto deve attenersi in via ordinaria, sottraendo ulteriori spazi di libertà[2].

Per quanto attiene ai beni personali, al detenuto è consentito di avere un numero molto limitato di oggetti: nessun medicinale, nessuna fotografia, nessun quadro o poster, nessun orologio, nessun apparecchio elettrico o elettronico, ad eccezione di un televisore, di proprietà dello Stato, con ricezione di canali selezionati. La permanenza all’interno della cella si protrae per tutto l’arco della giornata ad eccezione di due ore nelle quali è possibile usufruire degli spazi all’aperto o delle sale ricreative. La cella inoltre è sottoposta a frequenti perquisizioni e controlli consistenti nella battitura delle inferriate delle finestre, nell’ispezione dei muri perimetrali, nel controllo della dotazione personale consentita e delle dotazioni dell’Amministrazione penitenziaria.
Eventuali scritti come le lettere, salve particolari eccezioni, saranno sottoposti a censura o a visto di controllo, così come le letture che saranno limitate a quei pochi libri o a quelle riviste che avrà acquistato esclusivamente tramite la Direzione del carcere[3].

Per quanto attiene ai rapporti familiari, è consentito incontrare soltanto i parenti più stretti, in modo non riservato in appositi locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti e, quindi, in un contesto di assoluta costrizione, con frequenza non superiore a una volta al mese[4].

Le ulteriori e più incisive limitazioni riguardano la mancata partecipazione ai processi che lo riguardano dovendovi partecipare necessariamente attraverso il sistema della videoconferenza, la possibilità di ricevere dall’esterno somme in peculio superiori all’ammontare mensile stabilito ai sensi dell’art. 57, comma 6, D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, ovvero pacchi contenenti generi ed oggetti, in quantità superiore a due pacchi al mese.
Inoltre il detenuto sottoposto a tale regime non potrà essere nominato né partecipare alle rappresentanze dei detenuti e degli internati né ricevere dall’esterno o acquistare al sopravvitto, generi alimentari che per il loro utilizzo richiedano cottura.

Si tratta a ben vedere di numerose ed importanti forme di limitazione di un soggetto che è già sottoposto al regime carcerario che intrinsecamente contiene delle limitazioni.

La ratio dell’introduzione di tale norma si fonda sulla necessità far fronte a specifiche esigenze di ordine e sicurezza, essenzialmente discendenti dalla necessità di prevenire ed impedire i collegamenti fra detenuti appartenenti a organizzazioni criminali, nonché fra questi e gli appartenenti a tali organizzazioni ancora in libertà, escludendo o fortemente limitando quei collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso l’utilizzo delle opportunità che l’ordinario regime carcerario, consente e in certa misura favorisce.
L’art. 41-bis O.P. esula dalla logica della detenzione ordinaria o dalle normali regole contenitive e costrittive delineate per tutti i detenuti e impone regole o limitazioni di vita personale, fortemente invasive e penalizzanti, con il dichiarato scopo di garantire o tentare di garantire, l’impermeabilità del carcere rispetto all’esterno, in un’ottica orientata prevalentemente alla neutralizzazione della pericolosità[5].

In ragione delle innumerevoli limitazioni poste in essere l’art. 41-bis O.P. è stato oggetto di molti ricorsi avanti la Corte costituzionale, che tuttavia hanno visto ben poche pronunce di accoglimento.

Con la sentenza n. 143/2013 la Corte era giunta ad una dichiarazione di incostituzionalità in relazione ad una questione relativa alla limitazione dei colloqui con i difensori dei detenuti soggetti al regime del carcere duro. Si trattava di una pronuncia in cui sulla riduzione di tali colloqui la scure dell’incostituzionalità non era scesa tanto per il fatto che il diritto di difesa non potrebbe, in quanto inviolabile, subire compressioni, ma in quanto il bilanciamento di cui la norma censurata era espressione non risultava ragionevole[6].
Viceversa con la sentenza n. 186/2018 la censura concerneva il divieto di cuocere cibi per i detenuti soggetti a tale regime di carcere duro; la Consulta, sulla base di una accurata motivazione, ha accertato l’assenza di ogni possibile giustificazione della norma e quindi ha dichiarato il parziale contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione[7].
La tematica ha inoltre investito anche la Corte di Strasburgo che in varie occasioni ha avuto modo di esprimersi circa il regime di cui all’art. 41-bis O.P..

Le sentenze della Corte hanno nel tempo contribuito a limare alcune delle maggiori asperità del regime differenziato.

Difatti fin dalle pronunce[8] Calogero Diana e Domenichini, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva rilevato le significative criticità con riferimento all’art. 8, quanto al controllo della corrispondenza dei ricorrenti sottoposti a regime differenziato, per la mancanza di base legale per consentire l’interferenza (possibile durata del provvedimento di controllo e motivazioni sottese alla emissione del medesimo) e
l’assenza di un rimedio giurisdizionale accessibile: del resto, la Corte di Cassazione all’epoca affermava che: «le contrôle de la correspondance d’un détenu constitue un acte de nature administrative; elle a aussi affirmé que le droit italien ne prévoit pas de voies de recours à cet égard, le visa de censure ne pouvant notamment pas faire l’objet d’unpourvoi en cassation, car il ne concerne pas la liberté personnelle du détenu»[9].

Un secondo aspetto oggetto di molteplici pronunce, anch’esso sintomatico di una problematica per lungo tempo generalizzata, riguarda la violazione dell’art. 6 CEDU inteso come diritto di accesso a un Tribunale. Dalla sentenza Ganci[10] si cominciava ad evidenziare la criticità dei tempi di trattazione dei reclami avverso i decreti applicativi del regime differenziato da parte dei Tribunali di Sorveglianza e della Corte di cassazione.
Nel caso del ricorrente, che aveva impugnato otto dei nove decreti ministeriali, si giungeva in quattro casi a pronunce nelle quali veniva dichiarata la carenza di interesse del reclamante, poiché nel frattempo era intervenuto un nuovo decreto di rinnovo.

Proprio a seguito della pronuncia Ganci e della riforma introdotta con L. 23 dicembre 2002, n. 279, che stabilizzava il regime differenziato nell’Ordinamento Penitenziario, la cassazione era intervenuta modificando la propria giurisprudenza precedente e ritenendo che un detenuto abbia comunque interesse ad ottenere una decisione, anche se il periodo di validità del decreto impugnato sia scaduto, in considerazione degli effetti diretti della decisione sui decreti successivi al decreto impugnato.

A parte i due aspetti evidenziati, la Corte europea non ha mai individuato violazioni convenzionali nell’esistenza in sé del regime differenziato e, anche quando interpellata per specifiche situazioni dei ricorrenti, ha sempre respinto le doglianze, ritenendo non superata quella soglia di gravità richiesta per la violazione sostanziale del predetto articolo.

Una novità in materia è tuttavia giunta dalla sentenza Provenzano contro Italia[11] In tale caso la condanna comminata dalla Corte riguarda la carenza motivazionale del decreto di rinnovo del regime del carcere duro, che comunque ha esplicato i propri effetti dal momento dell’emissione fino al decesso del ricorrente, avvenuto prima della celebrazione dell’udienza del Tribunale di Sorveglianza e quindi in una c.d. zona grigia.
Orbene nella sentenza Provenzano sussiste quindi una presa di posizione della Corte europea non sul regime differenziato in sé, quanto piuttosto una evidenziazione di punti critici che riguardano le modalità di applicazione del regime stesso dal momento della sua inflizione ministeriale e la effettività di una impugnazione di legittimità sempre più dubbia e controversa[12].

3. Recenti profili giurisprudenziali.

Recentemente la Corte di cassazione (Cass. Pen., Sez. I, 07.02.2023, n. 5363) si è pronunciata sulla questione.
Il Tribunale di sorveglianza di Roma eera stato investito del reclamo avverso il decreto ministeriale del 4 febbraio 2019 con cui era stata applicata al detenuto la misura del regime di cui all’art. 41-bis O.P.-
La difesa aveva proposto reclamo evidenziando l’infondatezza del provvedimento ministeriale e assumendo la mancanza di elementi certi a documentare il ruolo di referente locale della cosca insediata a Mazara del Vallo.
Del resto, osservava il reclamante, la condanna per il delitto di omicidio era oggetto del giudizio di revisione.
Il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva respinto il reclamo con ordinanza del 4 giugno 2020 e la Corte di cassazione, rilevando una violazione del principio del contraddittorio, aveva annullato con rinvio la decisione restituendo gli atti al Tribunale di sorveglianza di Roma per un nuovo esame.
L’anzidetto Tribunale ha tuttavia ritenuto legittimo il decreto ministeriale impugnato confermandone la validità.
La sentenza in commento origina dal ricorso per cassazione presentato dal difensore del detenuto contro l’ordinanza del Tribunale di Roma.
Preliminarmente veniva evidenziata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, L. 26 luglio 1975, n. 354, per violazione delle norme di cui agli artt. 2, 3,13, 24, 111 e 117 Cost., nella parte in cui assegna all’autorità ministeriale, e non a quella giudiziaria, la competenza ad emettere una misura che, per natura giuridica e finalità, oltre che per l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità e dottrinale, rientra nel novero delle misure di prevenzione personali.
L’applicazione della misura di prevenzione spetta all’Autorità giudiziaria e non al Ministro espressione del potere politico.
Con il secondo motivo si deduce la violazione della legge penale e di quella processuale e in particolare la violazione dell’art. 125 c.p.p. e 14-ter O.P., mentre con il terzo si deduce la violazione del diritto a difendersi provando; il Tribunale avrebbe escluso la possibilità di articolazione delle prove, pur non essendo il reclamo un mezzo di impugnazione a devoluzione vincolata.
La Corte con riferimento al motivo inerente l’incostituzionalità dell’art. 41-bis O.P. ha affermato che: «La medesima questione di legittimità costituzionale è già stata ripetutamente affrontata e decisa da questa Corte (Sez. 1, n. 18791 del 06/02/2015, Caporrimo, Rv. 263508, in motivazione; sez. 1, n. 50723 del 2014, n.m.); da ultimo, con sentenza n. 3447 del 27 novembre 2017, Tagliavia, n.m., con argomentazioni dal Collegio interamente condivise; ancora, si è ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis O.P., in relazione agli artt. 2, 3, 13, 24, 111 e 117 Cost., nella parte in cui assegna al Ministro della giustizia, e non all’autorità giudiziaria, la competenza a disporre l’applicazione o la proroga del regime detentivo speciale, trattandosi di misura non assimilabile alle misure di prevenzione personali, adottata, o prorogata, con provvedimento autonomamente e congruamente motivato, reclamabile davanti all’autorità giudiziaria, all’esito di un procedimento camerale partecipato (Sez. 1, Sentenza nr. 29143, del 22/06/2020 Libri, Rv. 279792). Deve ribadirsi la differenza strutturale tra l’istituto di cui all’art. 41-bis e la misura di prevenzione in senso stretto. Sono individuabili plurimi profili di differenza tra gli istituti a raffronto quanto a presupposti giustificativi e funzioni; sotto il primo profilo, l’art. 41-bis O.P. postula la ricorrenza di condizioni oggettive di emergenza e sicurezza pubbliche ed altre soggettive riguardanti il detenuto, derivanti dalla condanna o dalla sottoposizione a misura coercitiva custodiale per reati di particolare gravità e motivo di allarme sociale, oltre che la perdurante esistenza ed operatività dell’organizzazione cui egli appartiene».

Le misure di prevenzione infatti vengono imposte per fronteggiare il rischio della commissione di reati nei confronti di chi sia ritenuto pericoloso in dipendenza, non necessariamente di condanne o di misure cautelari, ma dello stile di vita. Anche negli effetti va osservato che la sospensione delle regole detentive ordinarie riguarda l’esecuzione della pena nei confronti di quei detenuti che manifestino capacità di mantenere collegamenti con le associazioni di appartenenza e dì trasmettere ordini e direttive all’esterno del carcere; ciò comporta una limitazione dei diritti soggettivi, non già la loro radicale privazione. Sulla scorta di tali presupposti e del rilievo secondo il quale il regime detentivo differenziato non viene imposto in via automatica a tutti i detenuti che abbiano riportato condanna per determinati titoli di reato, ma selettivamente a coloro di essi che presentino caratteristiche personali e specifiche di pericolosità, legate alla loro appartenenza ad organizzazioni criminali strutturate, distinguendoli dai comuni soggetti sottoposti a pena detentiva, va escluso che la norma di cui all’art. 41-bis O.P. si ponga in contrasto con i principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost.-

Non sussiste, per la Corte, nemmeno il denunciato contrasto tra la disposizione dell’art. 41-bis O.P. ed i parametri costituzionali, rappresentati dagli artt. 111 e 117 Cost., poiché, sebbene il regime detentivo differenziato sia imposto con provvedimento amministrativo, lo stesso, anche se sia autorizzata la proroga, deve essere supportato da autonoma e congrua motivazione in ordine alla permanenza dei pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica e la possibilità del suo riesame in funzione della tutela del sottoposto, ammesso ad esercitare il diritto di difesa senza limitazioni.
Tale tutela è assicurata in sede giurisdizionale mediante la previsione dell’istituto del reclamo innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria, che provvede all’esito della procedura camerale partecipata[13].

Con riferimento ai residuali motivi la Suprema corte ha ritenuto gli stessi inammissibili perché caratterizzati da genericità e manifestamente infondati.
La Corte ha infatti rilevato che la giustificazione della decisione impugnata non è affatto mancante e neppure carente o apparente, ma risulta anzi esaustiva e conforme ai principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza. Il Tribunale ha motivatamente affermato che doveva ritenersi persistente la pericolosità qualificata e la capacità del condannato di mantenere collegamenti con l’associazione criminale d’appartenenza sulla scorta degli specifici elementi indicati nel decreto ministeriale.

Conseguentemente la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

5. Brevi note conclusive.

La sentenza della Corte di cassazione si inserisce in contesto politico, giurisprudenziale e sociale che si sta attualmente interrogando sulla conformità all’ordinamento costituzionale del regime carcerario di cui all’art. 41-bis O.P.-
Ed in effetti, in un momento in cui viene invocata da più parti, ivi compresa la Corte costituzionale, la modifica della disciplina dell’art. 41-bis O.P. e la magistratura di sorveglianza ha più volte sollevato questione di legittimità costituzionale, la Suprema corte sembra lasciare pochi spazi interpretativi circa la conformità dell’art. 41-bis O.P. alla norma costituzionale.
Sarà quindi ora opportuno un eventuale intervento del legislatore che vada a modificare l’attuale regime normativo inerente il c.d. carcere duro.

La sentenza è qui disponibile Cass. Pen., Sez. I, 07.02.2023, n. 5363

[1] Con riferimento a tale aspetto la Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. I, 11.10.21, n. 36865.) si è pronunciata sul diritto dei detenuti in regime di cui all’art. 41-bis O.P. di accedere alle riviste per soli adulti, in modo da poter manifestare il proprio diritto alla sessualità.
[2] Sul punto si è parlato di imprisonment within prison.
[3] In riferimento al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen., la CEDU aveva più di una volta evidenziato il contrasto tra il diritto al mantenimento delle relazioni affettive e le norme dell’ordinamento penitenziario che disciplinavano la corrispondenza dei detenuti, nella misura in cui queste non prevedevano, né la durata delle misure di controllo della corrispondenza dei detenuti, né i motivi che potevano giustificarle e non indicavano con sufficiente chiarezza l’ampiezza e le modalità di esercizio del potere di apprezzamento delle autorità competenti nel campo in questione; in tal senso decisione Diana c. Italia, 15 novembre 1996; Domenichini contro Italia, 15 novembre 1996; Rinzivillo c. Italia, 21 dicembre 2000; Natoli c. Italia, 9 gennaio 2001; Di Giovine c. Italia, 20 luglio 2001; Labita c/Italia 6/4/2000; Musumeci c/Italia, 11 gennaio 2005; De Pace c/Italia, 17 luglio 2008 Piacenti c/Italia 7 luglio 2009. In tali occasioni, la Corte europea ha ricordato che l’art. 8 della CEDU assicura ad ogni persona il «diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza», consentendo ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto solo se previste dalla legge e costituenti misure necessarie, in una società democratica, «alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». Il legislatore ha quindi provveduto ad una modifica delle regole attraverso l’introduzione nell’ordinamento penitenziario dell’art. 18 ter (introduzione avvenuta per effetto della legge n.95 del 2004). In tal modo è stata introdotta una tutela rafforzata della corrispondenza dei condannati da intendere come espressione del diritto di “comunicare il proprio pensiero” e/o di ricevere quello dei soggetti con cui si mantengono relazioni affettive”, nel quadro più generale del diritto alle relazioni affettive, “intangibile” anche in rapporto alle forme di restrizione più intensa della libertà personale, pur se correlata a reati di particolare gravità e al contenimento della accertata pericolosità; diritto che ha trovato ora riconoscimento normativo in una più ampia versione, nella legislazione ordinaria per effetto della norma di cui all’art. 1 comma 85 lettera n, della legge delega n. 103/2017 che prevede appunto che il Governo provveda al “riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e disciplini le “condizioni generali per il suo esercizio”. L’art. 18-ter ord. pen., prevede, ora, un obbligo specifico di motivazione e un limite temporale stringente, salva la possibilità di proroghe, in ogni caso autonomamente motivate; in questo modo possono dirsi superati i rilievi mossi alla legislazione italiana alla disciplina della corrispondenza delle persone incarcerate che prevedeva bensì l’intervento dell’autorità giudiziaria, ma con provvedimento motivato genericamente sulle esigenze di sicurezza e privo di limiti temporali.
[4] A. Della Bella, Il “Carcere duro”, tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali – presente e futuro del regime detentivo speciale ex art.41 bis O.P., Milano, 2016.
[5] Calogero Diana c. Italia, 21.10.1996, ric. n. 15211/89; Domenichini c. Italia, 15.11.1996, ric. n. 15943/90.
[6] F. Fiorentin, Regime speciale del 41.bis e diritto di difesa: il difficile bilanciamento tra i diritti fondamentali, in Giur. cost., 2013; V. Manes, V. Napoleoni, Incostituzionali le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in regime di “carcere duro”: nuovi tracciati della Corte in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali, in DPC, 2013.
[7] P.Dolso, Corte costituzionale, 41-bis OP e sindacato di ragionevolezza. Note a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2018, in Giur. Pen., 2020, n.1-bis, Dentro il 41-bis.
[8] Calogero Diana c. Italia, 21.10.1996, ric. n. 15211/89; Domenichini c. Italia, 15.11.1996, ric. n. 15943/90.
[9] Calogero Diana, cit., par. 21. Il riferimento nella pronuncia della Corte EDU è alle sentenze di Cassazione penale n. 3141 del 14.2.1990 e n. 4687 del 4.2.1992
[10]Ganci c. Italia, 30.10.2003, ric. n. 41576/98.

[11] Corte Europea Dei Diritti Dell’uomo, Prima Sezione, Provenzano C. Italia, Ric. N. 55080/13, 25 Ottobre 2018.
[12] M.S.Mori, A Strasburgo c’è un Giudice anche per i capimafia: con Provenzano non cade ma scricchiola il 41-bis, in Giur.Pen., 2020, n.1-bis, Dentro il 41-bis.
[13] La Corte costituzionale (sentenza n. 349 del 1993) ha specificamente esaminato la disposizione di cui all’art. 41-bis ord. pen., e ha escluso che vi fosse frizione di costituzionalità per lesione della riserva di giurisdizione sancita dall’art. 13, secondo comma, Cost., nella parte in cui attribuisce al Ministro della giustizia di incidere in peius sulla pena e sul grado di libertà del detenuto, osservando che la corretta lettura della norma non può che limitare il potere attribuito al Ministro alla sola sospensione di quelle medesime regole ed istituti che già nell’Ordinamento penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime di detenzione in senso stretto. La Corte cost. (n. 410 del 1993) ha evidenziato come nell’ambito dell’ordinamento penitenziario sia già espressamente previsto un tipo di regime detentivo -il regime di sorveglianza particolare- disciplinato dagli artt. 14-bis e seguenti, che nella sua concreta applicazione assume un contenuto largamente coincidente con il regime differenziato introdotto con il provvedimento ex art. 41- bis, secondo comma, di sospensione del trattamento penitenziario. Pertanto è di intuitiva evidenza che il potere esercitato serve, in entrambi i casi, a consentire all’Amministrazione penitenziaria di predisporre uno strumento di particolare rigore mediante il quale fronteggiare la pericolosità di ben determinate categorie di detenuti. Neppure può discutersi (Corte cost. n. 351 del 1996) del fatto che l’applicazione della norma, nei confronti dei singoli detenuti, è rimessa all’autorità amministrativa, salvo il sindacato giurisdizionale che l’ordinamento penitenziario prevede in via generale sull’operato dell’amministrazione penitenziaria. La legge consente all’amministrazione di disporre un regime derogatorio rispetto a quello ordinario così instaurando un trattamento rientrante nell’ambito di competenza dell’amministrazione penitenziaria stessa, nella logica della differenziazione del trattamento detentivo. Avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 41-bis, pur in assenza di espressa previsione normativa, la tutela dei diritti soggettivi costituzionalmente garantiti del detenuto deve ritenersi assicurata mediante lo strumento del reclamo, proponibile all’autorità giudiziaria ordinaria.

Francesco Martin

Dopo il diploma presso il liceo classico Cavanis di Venezia ha conseguito la laurea in Giurisprudenza (Laurea Magistrale a Ciclo Unico), presso l’Università degli Studi di Verona nell’anno accademico 2016-2017, con una tesi dal titolo “Profili attuali del contrasto al fenomeno della corruzione e responsabilità degli enti” (Relatore Chia.mo Prof. Avv. Lorenzo Picotti), riguardante la tematica della corruzione e il caso del Mose di Venezia. Durante l’ultimo anno universitario ha effettuato uno stage di 180 ore presso l’Ufficio Antimafia della Prefettura UTG di Venezia (Dirigente affidatario Dott. N. Manno), partecipando altresì a svariate conferenze, seminari e incontri di studi in materia giuridica. Dal 30 ottobre 2017 ha svolto la pratica forense presso lo Studio dell’Avv. Antonio Franchini, del Foro di Venezia. Da gennaio a luglio 2020 ha ricoperto il ruolo di assistente volontario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia (coordinatore Dott. F. Fiorentin) dove approfondisce le tematiche legate all'esecuzione della pena e alla vita dei detenuti e internati all'interno degli istituti penitenziari. Nella sessione 2019-2020 ha conseguito l’abilitazione alla professione forense presso la Corte d’Appello di Venezia e dal 9 novembre 2020 è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Venezia. Da gennaio a settembre 2021 ha svolto la professione di avvocato presso lo Studio BM&A - sede di Treviso e da settembre 2021 è associate dell'area penale presso MDA Studio Legale e Tributario - sede di Venezia. Da gennaio 2022 è Cultore di materia di diritto penale 1 e 2 presso l'Università degli Studi di Udine (Prof. Avv. Enrico Amati). Nel luglio 2022 è risultato vincitore della borsa di ricerca senior (IUS/16 Diritto processuale penale), presso l'Università degli Studi di Udine, nell'ambito del progetto UNI4JUSTICE. Nel dicembre 2023 ha frequentato il corso "Sostenibilità e modelli 231. Il ruolo dell'organismo di vigilanza" - SDA Bocconi. È socio della Camera Penale Veneziana “Antonio Pognici”, e socio A.I.G.A. - sede di Venezia.

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