Bangladesh Accord: la prevenzione dopo il disastro
In un momento storico, in cui si richiede necessariamente che le aziende siano “responsabili”, l’attenzione nei confronti della sostenibilità si accentua sempre di più; tale aspetto, tuttavia, non comprende esclusivamente il basso impatto ambientale – idea ben definita nell’immaginario collettivo – ma anche altri profili, come quelli sociali, tra cui il rispetto dei diritti dei lavoratori, che si esplica nelle migliori condizioni lavorative auspicabili per la manodopera impiegata nelle varie fasi della produzione. Il perseguimento di tali obiettivi è stato reso sempre più complesso dalla decentralizzazione delle aziende, soprattutto in un settore come quello tessile, in cui il costo della manodopera presente in alcune zone asiatiche, quali ad esempio il Bangladesh o l’India, è nettamente inferiore rispetto a quello di altri paesi. Il risultato è stato una esternalizzazione della produzione attraverso lo sfruttamento di subfornitori localizzati prevalentemente nelle aree sopracitate e, fin da subito, il prezzo da pagare in termini umani si è rivelato notevole, considerate le condizioni di lavoro precarie; basti ricordare, uno tra tutti, il crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, episodio simbolo, che ha dato il via a diversi provvedimenti internazionali e a Codici di condotta veri e propri, volti alla tutela dei lavoratori del settore tessile delle aree meno sviluppate, sfruttati fino a quel momento, da un grande numero di aziende di moda e multinazionali occidentali. A pochi giorni dalla firma dell’“International accord for health and safety in the textile and garment industry”, è utile ripercorrere l’evoluzione del panorama che, dal disastro del Rana Plaza in Bangladesh, ha portato allo sviluppo di una disciplina sempre più definita e alla firma di diversi accordi a garanzia dei lavoratori delle fabbriche tessili dei paesi più poveri, da sempre sfruttati.
1. “The Accord on Fire and Building Safety”
“The Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh”, più conosciuto come Bangladesh Accord è un accordo quinquennale e legalmente vincolante sottoscritto il 15 maggio 2013 da diversi marchi globali del settore tessile, rivenditori e sindacati con lo scopo di garantire un ambiente di lavoro più sicuro all’indomani del crollo del Rana Plaza[1]. La sicurezza degli ambienti di lavoro nelle fabbriche tessili del Bangladesh, fortemente voluta dall’accordo, è perseguita attraverso regolari e imparziali forme di ispezioni in fabbrica, divulgazioni pubbliche dei resoconti e dei piani d’azione correttivi, formazione dei lavoratori con corsi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (safety training) e possibilità per i lavori di presentare reclami concernenti luoghi da loro reputati poco sicuri, nonché aggiornamenti sui progressi dovuti all’accordo[2] . L’accordo [3] è stato firmato inizialmente da 31 grandi brand di tutto il mondo, tra cui Zara, H&M, Benetton e Primark; successivamente, anche dopo l’adesione all’accordo-chiave di transizione del 1° luglio 2018, i marchi internazionali diventarono 190[4] . Esso, dopo una prima fase, è stato messo a rischio a causa di una decisione dell’Alta Corte Indiana che avrebbe voluto assegnare le attività di monitoraggio ad un ente normativo statale chiamato “Remediation Co-Ordination Cell”[5]; a partire dal 1° settembre 2021, invece, è entrata in vigore una versione aggiornata dell’accordo, la quale avrà una durata di circa due anni. Il nuovo accordo manterrà molti dei tratti distintivi dell’accordo originario, tra cui la possibilità di intraprendere azioni legali contro i proprietari, nel caso in cui le loro fabbriche non soddisfino gli standard di sicurezza sul lavoro[6]. Poste tali premesse, quali sono i tratti salienti del nuovo accordo?
2. Bangladesh Accord e risoluzione delle controversie
L’accordo prevede un sistema bifasico per la risoluzione delle controversie che derivano dallo stesso. Inizialmente le richieste vengono ascoltate da un comitato composto da rappresentanti di “trade unions and brands” e presieduto da un rappresentante dell’International Labour Organization [7]; successivamente, chiunque voglia impugnare le decisioni prese dal comitato, può agire davanti alla Permanent Court of Arbitration dell’Aia. Di fatto, ci spiegano gli avvocati di Freshfields Bruckhaus Deringer [8], si tratta del primo caso nella storia della contrattazione collettiva internazionale in cui una procedura di arbitrato che segue le regole dell’UNCITRAL [9] viene inclusa in un accordo globale tra sindacati e datori di lavoro. La prima controversia in cui è stato attivato il meccanismo di arbitrato previsto dall’accordo riguarda due domande presentate nell’ottobre del 2016 da IndustriALL Global Union e UNI Global Union, due federazioni sindacali internazionali. Essi affermarono di non essere riusciti a richiedere a due brand di moda di sanare le proprie strutture entro i termini obbligatoriamente imposti dal Bangladesh Accord. I sindacati chiesero inoltre la facoltà di negoziare condizioni commerciali ragionevoli da un punto di vista finanziario, che rendessero possibile la copertura dei costi di risanamento. Dopo essersi riunito un tribunale ad hoc, nel dicembre 2017 fu annunciato un accordo transattivo con uno dei due brand internazionali di moda in oggetto: “This settlement will ensure that the supplier factories associated with this leading fashion brand are remediated and that substantial funds are available for that remediation work consistent with the 2013 Bangladesh Accord” [10]. Di fatto a luglio 2018 le due controversie furono definitivamente risolte con l’adempimento da parte delle aziende di moda degli oneri relativi alla messa in sicurezza delle fabbriche coinvolte. Un aspetto interessante da notare riguarda la reputazione delle imprese convenute. Il tribunale, infatti, secondo quanto prescritto dall’accordo, ha agito mantenendo la massima riservatezza riguardo i nomi dei marchi convolti al fine di salvaguardare il buon nome dei brand. Le informazioni riservate avrebbero potuto essere pubblicate solo previo consenso delle convenute o alla luce di un interesse pubblico prevalente [11]. Gli arbitrati dell’accordo, concludono gli avvocati, segnano un importante cambiamento nelle diatribe in materia di business e diritti umani; la loro flessibilità e la capacità di proteggere la reputazione delle aziende e le informazioni riservate, li rendono lo strumento vincente per questa tipologia di controversie. Tuttavia, un’opinione discordante teme che gli arbitrati non siano più lo strumento adatto per la risoluzione delle controversie e ciò a causa soprattutto di un numero sempre crescente di questioni ESG [12] nel mondo della moda e del potenziale squilibrio di risorse tra le parti. Per capire quale corrente di pensiero sia quella corretta, è necessario attendere l’evoluzione del panorama relativo al Bangladesh Accord, dovuta all’entrata in vigore di una nuova versione dell’accordo.
3. Il nuovo “International accord for health and safety in the textile and garment industry”
Il 1° settembre 2021 è entrato in vigore un nuovo accordo, dal nome “International accord for health and safety in the textile and garment industry”, che ha lo scopo di sostituire il precedente Bangladesh Accord del 2013 (Accord on Fire and Building Safety), scaduto il 31 maggio 2021 e prorogato fino al 31 agosto 2021. Fino alla deadline si temeva che i precedenti firmatari non volessero procedere alla sottoscrizione ma, anche grazie ad iniziative come la Clean Clothes Campaign [13], il 1 settembre è stato firmato il nuovo accordo della durata di 26 mesi che mantiene i punti cardine dell’accordo del 2013, come ad esempio la libertà di associazione per i lavoratori, l’attuazione di controlli imparziali nelle fabbriche, la formazione di comitati di sicurezza, l’obbligo per le imprese di pagare ai fornitori cifre congrue al mantenimento di standard di sicurezza sui luoghi di lavoro [14] e di interrompere il rapporto di lavoro con le aziende che si rifiutino di garantire tali standard. Gli elementi innovativi [15] sono l’estensione degli obblighi di sicurezza a qualsiasi luogo di lavoro e l’impegno ad estendere l’applicazione dell’accordo ad almeno un altro Paese entro i primi due anni dall’entrata in vigore dello stesso [16]. Il monitoraggio dei progressi e l’estensione dell’accordo verranno garantiti dal segretariato dell’accordo, un organismo di sorveglianza indipendente, investito dell’autorità di far rispettare gli impegni presi dai brand. Di fatto i firmatari dell’accordo incorreranno in conseguenze legali, se non si impegneranno a far rispettare tutti i punti dello stesso anche ai propri fornitori (il brand, assumendosi il dovere di sorveglianza sopracitato, diventa giuridicamente responsabile del comportamento dei propri fornitori) [17]. Tale nuova impostazione, però, lascia spazio ad ulteriori critiche: se il marchio deve assumersi totalmente il rischio della scorretta condotta dei propri fornitori, esso avrà maggiore libertà di decisione su, utilizzando le parole provocatorie di una giornalista, “chi tenere dentro e chi sbattere fuori dal proprio ciclo di produzione” [18]. Tale tesi, nonostante specifichi che sia giusto isolare chi agisce in modo scorretto, precisa che talvolta lo sfruttamento operato dai fornitori dei brand nei Paesi poveri nasconde motivazioni più complesse di quelle che possiamo immaginare: un’iniqua spartizione del rischio imprenditoriale, ad esempio. I produttori [19], spesso, anticipano i costi per la produzione dei capi di abbigliamento, i quali devono essere assemblati, controllati e poi spediti dall’altra parte del mondo per essere venduti, nei vari negozi a cui sono destinati. Nel caso in cui, durante le settimane di lavorazione, i trend di consumo dovessero cambiare, i marchi potrebbero chiedere degli sconti ai propri fornitori, i quali andrebbero inevitabilmente in perdita. Se un fornitore volesse entrare in un business di questo tipo, dovrebbe agire sui propri costi al fine di renderli sempre più contenuti ed è questo il motivo prevalente dell’esistenza di lavoratori sottopagati e della scarsa sicurezza negli ambienti di lavoro [20]. Conclude tale tesi che se (come prescrive il più recente accordo, il quale attribuisce la responsabilità legale ai marchi internazionali) il responsabile, ossia il brand, dovesse trovarsi rispetto al fornitore in una posizione di forza, allora si innescherà un ulteriore meccanismo di sfruttamento. Ciò poiché il brand, qualora non vengano soddisfatti determinati standard, potrà rivolgersi ad un altro fornitore. Ma se tale standard non fosse raggiungibile a determinate condizioni, quali alternative avrebbe il fornitore stesso? Sarebbe forse necessario costruire un nuovo modello di gestione della catena di fornitura, piuttosto che spostare semplicemente la responsabilità legale per le condotte scorrette? D’altra parte, la libertà da parte dei marchi internazionali di decidere “chi tenere dentro e chi sbattere fuori dal proprio ciclo di produzione” non è sempre esistita, a prescindere dall’impostazione del nuovo accordo? Come si può notare, i nodi da sciogliere sono ancora numerosissimi ma allo stato attuale è bene riconoscere il traguardo raggiunto il 1° settembre 2021 e osservare l’evolversi della problematica dopo la sottoscrizione del nuovo accordo, di cui fino a pochi mesi fa anche la semplice esistenza era tutt’altro che certa.
[1] Il Rana Plaza era un edificio di otto piani situato nel villaggio di Savar in Bangladesh, a 24 km da Dacca. Il palazzo, con all’interno un mercato e diverse fabbriche tessili, crollò il 24 aprile 2013 creando uno degli episodi più disastrosi della storia dei diritti dei lavoratori. I proprietari dei laboratori, infatti, ignorarono gli avvertimenti riguardo ad un cedimento della struttura, dovuto ad alcune crepe sulla facciata dell’edificio. Da
“Bangladesh, crolla palazzo: oltre 230 morti. Testimone: “Sembrava un terremoto”, la Repubblica, 24 aprile 2013. Consultabile su: https://www.repubblica.it/esteri/2013/04/24/news/bangladesh_edificio_morti-57367188/ . Da specificare che tale episodio non fu il primo a Dacca; 5 mesi prima, ad esempio, ci fu un incendio in una fabbrica di abiti nella zona industriale di Ashulia. Da “Bangladesh, oltre 120 morti a Dacca per un incendio in una fabbrica di vestiti”, la Repubblica, 25 novembre 2012. Consultabile su: https://www.repubblica.it/esteri/2012/11/25/news/bangladesh_oltre_100_morti_a_dacca_per_un_incendio_in_una_fabbrica_di_vestiti-47365647/ . Tutti episodi volti a sottolineare le condizioni precarie dei lavoratori nelle fabbriche tessili del luogo.
[2] Punto espresso esplicitamente dall’articolo 19 dell’accordo.
[3] Per consultare il sito del Bangladesh Accord: https://bangladeshaccord.org/ .
[4] E’ doveroso ricordare che le aziende tessili del Bangladesh non vengono sfruttate esclusivamente dai brand low-cost, ma anche da marchi del calibro di Ralph Lauren e Hugo Boss, per i quali vi è un’abissale incongruenza tra il costo di produzione e quello di vendita.
[5] “A rischio il Bangladesh Accord”, Dress The Change, 14 aprile 2019. Consultabile su: https://dressthechange.org/a-rischio-il-bangladesh-accord/#:~:text=Il%20Bangladesh%20Accord%20%C3%A8%20un,e%20e%202.000.000%20di%20lavoratori.
[6] E. Paton, “Fears for Bangladesh garment workers as safety agreement nears an end”, The New York Times, 28 maggio 2021. Consultabile su: https://www.nytimes.com/2021/05/28/business/bangladesh-worker-safety-accord.html .
[7] L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) è un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite, il cui compito si riassume nella promozione di giustizia sociale e diritti umani, con particolare riferimento a quelli riguardanti il lavoro in tutte le sue sfaccettature. https://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_internazionale_del_lavoro .
[8] B. Dzida, S. Staes Polet, J. Gerard, e L. Mascaretti, “Update on Bangladesh Accord and Landmark Arbitration Rulings”, in Freshfields Bruckhaus Deringer, 31 ottobre 2017. Consultabile su: https://riskandcompliance.freshfields.com/post/102ejam/update-on-bangladesh-accord-and-landmark-arbitration-rulings .
[9] UNCITRAL è l’acronimo di United Nations Commission on International Trade Law, in italiano: Commissione delle Nazioni Unite per il Diritto Commerciale Internazionale. Si tratta di una Commissione permanente, fondata nel 1966 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quando lo sviluppo dei mercati internazionali mostrò l’esigenza di una riduzione dei numerosi ostacoli esistenti per l’unificazione del diritto commerciale internazionale. E. Landolfi, “Mai sentito parlare dell’UNCITRAL?”, marzo 1999. Consultabile su: https://www.diritto.it/materiali/commerciale_internazionale/uncitral.html . Le regole di arbitrato UNCITRAL forniscono una serie di regole procedurali sulle quali le parti possono concordare per lo svolgimento dei procedimenti arbitrali derivanti dalle loro relazioni commerciali.
Tali norme sono state adottate a partire dal 1976 ed utilizzate per la risoluzione di una vasta gamma di controversie, comprese quelle tra parti commerciali private in cui non è coinvolta alcuna istituzione arbitrale. Definizione dell’International Chamber of Arbitration, consultabile su: https://ica.center/arbitrati-per-business-servizi_arbitrato_onu/#:~:text=Le%20regole%20di%20arbitrato%20UNCITRAL%20sono%20state%20inizialmente%20adottate%20nel,e%20Stati%2C%20controversie%20da%20Stato .
[10] W. Thomas, M. Hlavkova, F. El-Hosseny, “Arbitrations commenced by workers’ unions under the 2013 Bangladesh Accord can proceed”, in Freshfields Bruckhaus Deringer, 30 ottobre 2017. Consultabile su: https://sustainability.freshfields.com/post/102ej8z/arbitrations-commenced-by-workers-unions-under-the-2013-bangladesh-accord-can-pr .
[11] I due sindacati internazionali chiesero che le aziende convenute venissero identificate pubblicamente ma la Corte dell’Aia rifiutò sulla base dell’articolo 19 dell’accordo. “As Brands Adopt New Bangladesh Accord, a LOOK at How Disputes Are Handled by the Legally-Binding Pact”, in The Fashion Law. Consultabile su: https://www.thefashionlaw.com/as-brands-sign-off-on-a-new-accord-in-bangladesh-a-look-at-how-disputes-are-handled-by-the-legally-binding-pact/ .
[12] Si tratta di questioni ambientali, sociali e di governance che rivelano gli aspetti di sostenibilità di un’azienda. Un esauriente articolo su tali questioni è consultabile su: https://www.herbertsmithfreehills.com/latest-thinking/the-rising-importance-of-esg-and-its-impact-on-international-arbitration .
[13] Grazie all’iniziativa Abiti Puliti sono stati contattati i marchi firmatari del primo accordo e sollecitati a mantenere il precedente impegno. “Accordo Bangladesh: è arrivata l’ora del rinnovo”, in Regole vincolanti per le imprese. Sicurezza sul lavoro. News. Caso Rana Plaza – Bangladesh, 4 agosto 2021. Consultabile su: https://www.abitipuliti.org/news/accordo-bangladesh-e-arrivata-lora-del-rinnovo/ .
[14] I marchi internazionali così dovrebbero ridurre la pressione sui prezzi dei propri ordini, non inducendo i fornitori a ridurre gli investimenti sulla sicurezza. M. Guinebault (versione italiana di G. Bolelli), “Bangladesh: i marchi prorogano di due anni l’Accordo sulle condizioni di lavoro”, in Fashion Network, 25 agosto 2021. Consultabile su: .
[15] I. Sesana, “Industria tessile e diritti: il nuovo accordo in Bangladesh per la sicurezza dei lavoratori”, in Altreconomia, 2 settembre 2021. Consultabile su: https://altreconomia.it/industria-tessile-e-diritti-il-nuovo-accordo-in-bangladesh-per-la-sicurezza-dei-lavoratori/#:~:text=Il%20primo%20settembre%202021%20%C3%A8,and%20building%20safety%20siglato%20nel .
[16] Lo scopo principale è quello di estendere il più possibile l’applicazione dell’Accordo al di là del circoscritto ambito territoriale del Bangladesh.
[17] M. Razzetti, “«Bangladesh Accord», la sicurezza sul lavoro è un diritto di tutti”, in Vanity Fair, 1 settembre 2021. Consultabile su: https://www.vanityfair.it/mybusiness/news-mybusiness/2021/09/01/bangladesh-accord-sicurezza-lavoro-moda .
[18] S. Gambi, “Il Bangladesh Accord è stato rinnovato ed esteso al altri Paesi: è davvero un risultato soddisfacente?”, in Solo Moda Sostenibile, 27 agosto 2021. Consultabile su: https://www.solomodasostenibile.it/2021/08/27/bangladesh-accord-rinnovo-dubbi-e-prospettive/ .
[19] Il fornitore diventa quindi finanziariamente esposto per una parte della fornitura.
[20] Attenzione: questa tesi non ha lo scopo di creare una giustificazione per coloro che agiscono illegalmente, sfruttando i lavoratori, i quali devono essere senza dubbio sanzionati. Tali informazioni vogliono esclusivamente fornire un quadro generale delle problematiche che affliggono le aziende tessili dei Paesi più poveri.