lunedì, Marzo 18, 2024
Diritto e Impresa

Cass. Civ. Sez. I, sent. n. 26199 del 27/09/2021, in tema di inesistenza delle delibere assembleari

Commento a cura del Dott. Niccolò Tamburini

E’ inesistente la delibera assembleare di società di capitali assunta con la sola partecipazione di soggetti privi della qualità di socio della stessa”.

Il caso

La controversia trae origine dall’adozione di due delibere assembleari assunte nel 2006 dall’assemblea di una società di capitali ed aventi ad oggetto l’una l’acquisto di un determinato complesso immobiliare e l’altra lo scioglimento e la liquidazione della società.

Il motivo di gravame afferiva al fatto che le suddette delibere sarebbero state adottate con il voto favorevole di un soggetto non avente la qualità di socio e quindi privo del potere di vincolare la società.

In primo grado, in ragione di un vizio siffatto, veniva dichiarata l’inesistenza della delibera assembleare.

In sede di impugnazione, invece, la Corte d’Appello di Cagliari ne statuiva l’annullabilità ai sensi dell’art. 2377, quinto comma, n. 1) c.c., in virtù della mancanza di idoneità di un tale vizio a configurare un’ipotesi di inesistenza; di conseguenza, l’impugnazione veniva dichiarata inammissibile per il decorso del termine decadenziale di 90 giorni per l’esercizio dell’azione.

Sul punto veniva proposto ricorso per Cassazione.

Nella Sentenza in commento la Suprema Corte si sofferma sulla portata innovativa degli artt. 2377 e 2379 c.c., post riforma del 2003, in relazione al tema della inesistenza delle delibere assembleari.

Al contempo, gli Ermellini ripercorrono il percorso argomentativo che aveva condotto una parte della dottrina e della giurisprudenza ad individuare nell’inesistenza una terza figura “atipica” di invalidità.

La decisione

In tema di invalidità delle delibere assembleari, la disciplina ante riforma del 2003 prevedeva (i) l’annullabilità per contrarietà della delibera alle norme di legge ed alle disposizioni statutarie (art. 2377 c.c.) e (ii) la nullità per impossibilità e illiceità dell’oggetto (art. 2379 c.c.).

Accanto alle predette categorie, la giurisprudenza, nella vigenza della precedente disciplina, individuava nella inesistenza un c.d. tertium genus delle fattispecie di invalidità delle deliberazioni.

La non esistenza della delibera era solita ricorrere quando la società assumeva una decisione che, per carenza degli elementi tipici di cui deve essere dotata una deliberazione assembleare, presentava uno scostamento dalla realtà giuridica tale da non consentire all’interprete di individuare in quell’atto alcuna decisione sociale ([1]).

Contrariamente a chi in dottrina ne aveva criticato l’eccessivo impiego ([2]), l’orientamento giurisprudenziale sviluppatosi nel sistema previgente era solito ricondurre al novero delle deliberazioni inesistenti, tra le molte ipotesi, quelle di delibere assunte per omessa convocazione dei soci, per mancata adunanza, per svolgimento dell’assemblea in luogo diverso da quello di convocazione, per partecipazione all’assemblea del socio di maggioranza a mezzo di procuratore sprovvisto di procura scritta di cui all’art. 2372, primo comma c.c. ([3]).

Che di tale frequente impiego ne fosse a conoscenza anche il Legislatore è confermato da quanto si legge nella relazione di accompagnamento alla riforma del 2003, ove riferisce che l’obiettivo della novella, attraverso la riformulazione degli artt. 2377 e 2379 c.c., sia quello di porre fine al ricorso ad ipotesi di invalidità c.d. “atipiche”, come l’inesistenza, “della quale si è in giurisprudenza alquanto abusato”, così da ricondurre le fattispecie di invalidità esclusivamente nell’ambito delle categorie tipiche dell’annullabilità e della nullità.

Ad avviso dei Giudici di legittimità, la riforma del 2003, attraverso una regolamentazione più dettagliata delle fattispecie di annullabilità e di nullità, ha realizzato un “salto qualitativo” in termini di determinazione degli elementi costitutivi dei vizi delle delibere assembleari, formulando un “principio di tassatività delle ipotesi di invalidità delle deliberazioni assembleari previste dalla legge”.

Vi era, infatti, chi, in sede di primo commento alla riforma, riteneva che il nuovo sistema degli artt. 2377 e 2379 c.c. sia stato congegnato in modo da inglobare, all’interno delle categorie dell’annullabilità e della nullità, tutti i casi in cui la giurisprudenza ante novella 2003 aveva statuito in termini di inesistenza delle deliberazioni assembleari ([4]).

Tuttavia, come osservato nella Sentenza in commento, sebbene il Legislatore del 2003 avesse inteso togliere diritto di cittadinanza alla categoria dell’inesistenza, questa non scompare del tutto, ma rimane comunque “viva e vitale”, in quanto suscettibile di trovare applicazione in via residuale.

In particolare i Giudici, condividendo l’orientamento della dottrina e della giurisprudenza sviluppatasi nella vigenza della precedente disciplina, ritengono che il riferimento al tertium genus dell’inesistenza debba avvenire “esclusivamente allorquando lo scostamento della realtà dal modello legale risulti così marcato da impedire di ricondurre l’atto alla categoria stessa di deliberazione assembleare” (conforme, Cass. Civ. 7693/2006).

Diversamente, non meriterebbe condivisione l’interpretazione per cui sarebbe necessaria, ai fini della qualificazione di un atto come delibera esistente, la semplice “parvenza”, intesa nel senso che l’atto si manifesti all’esterno come una decisione assunta dalla maggioranza del capitale sociale richiesto dalla legge o dallo statuto ([5]).

La figura dell’inesistenza ricorre tutte le volte in cui la decisione assunta dalla società, seppur astrattamente qualificabile come delibera assembleare, afferisca ad un fatto storico che non solo si pone in contrasto con le disposizioni di legge e dello statuto – tale da determinarne l’annullabilità o la nullità ai sensi degli artt. 2377 e 2379 c.c. – ma non si compone nemmeno degli elementi o delle fasi essenziali di cui una deliberazione deve essere dotata.

Sulla scorta delle predette considerazioni, i Giudici della Prima Sezione Civile ravvisano nella decisione assunta con la sola presenza di un soggetto che in quel momento non rivestiva la qualità di socio una circostanza per la quale non è consentito all’interprete individuare, in una deliberazione siffatta, alcun elemento essenziale che permetta di rintracciare in essa gli elementi tipici di una delibera esistente.

Ne discende che una delibera così assunta non è né nulla né annullabile, ma soltanto inesistente.

La nullità ex art. 2379 c.c. non troverebbe applicazione, dato che (a) la mancata convocazione dell’assemblea, (b) la mancanza del verbale e (c) l’impossibilità o l’illiceità dell’oggetto si fondano sul presupposto che la decisione sia stata assunta in una sede che sia appunto qualificabile come assemblea della società e, quindi, con la presenza di almeno un socio di essa che, in quanto tale, sia titolare del diritto di voto che vincola la società.

Stessa cosa dicasi per l’ipotesi di annullabilità di cui all’art. 2377, quinto comma, n. 1) c.c., attinente al quorum costitutivo dell’assemblea.

In sostanza, al fine di ricondurre una decisione alla deliberazione assembleare esistente, non è sufficiente una mera votazione, ma occorre che questa provenga da un’assemblea della società “effettivamente qualificabile (perché partecipata da almeno uno dei soci) come tale” e quindi con la partecipazione di soggetti titolari del potere di vincolare la società. In difetto, non può che trovare applicazione la figura residuale della inesistenza.

La Suprema Corte ritiene, quindi, di dover dare continuità all’orientamento giurisprudenziale formatosi nella vigenza della precedente disciplina, in caso di assemblea composta per intero da soci privi del diritto di voto.

Gli Ermellini affermano infatti che a detti principi “deve darsi continuità una volta ritenuto che alla categoria dell’inesistenza delle deliberazioni societarie, benché dichiaratamente espunta dall’ordinamento giuridico a seguito della riforma del diritto societario, debba continuare a ricondursi il caso di una “deliberazione” scaturita da un’adunanza di soggetti, dichiaratisi soci di una società, cui abbiano partecipato – come accaduto nella specie – soltanto soggetti che di quella società non siano, invece, affatto soci”.

La decisione assunta con la sola partecipazione in assemblea di un soggetto privo della qualità di socio non consentirebbe di individuare, nell’atto deliberativo, alcun elemento tipico per cui detto atto possa essere materialmente definibile come deliberazione esistente. Nessun atto è imputabile in via astratta alla società e, pertanto, trattasi di una mera riunione svoltasi tra soggetti privi della qualità di socio.

Una decisione così assunta deve ritenersi inesistente per mancanza dei requisiti minimi essenziali di cui deve essere dotata una deliberazione assembleare, non trovando pertanto applicazione i limiti temporali per l’impugnazione di cui agli artt. 2377 e 2379 c.c..

Sulla scorta di quanto sopra, i Giudici di legittimità rinviano alla Corte d’Appello di Cagliari affinché decida in forza del principio affermato.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 26784/2019 r.g. proposto da:

D.P.M., (cod. fisc. (OMISSIS)), in proprio e quale amministratore della I.O. S.P.A. (p. iva (OMISSIS)), già con sede in (OMISSIS), nonchè P.A., (cod. fisc. (OMISSIS)), quale erede di P.S., rappresentati e difesi, giusta procure speciali allegate in calce al ricorso, dagli Avvocati G.V., e G.F., con i quali elettivamente domiciliano presso lo studio di quest’ultimo in Roma, alla via Calabria n. 25. – ricorrenti –

Contro

M.I. S.R.L., (cod. fisc. (OMISSIS)), con sede in (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore Dott. A.M., rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata in calce al controricorso, dall’Avvocato Prof A.S., e dall’Avvocato P.S., con i quali elettivamente domicilia presso il loro studio in Sassari, alla via Roma n. 15. – controricorrente –

e nei confronti di:

L.F.; V.G.; S.G.. – intimati –

nonchè sul ricorso incidentale condizionato proposto da:

M.I.S.R.L., come sopra rappresentata e difesa. – ricorrente incidentale –

contro

D.P.M., in proprio e nella indicata qualità, e P.A., quale erede di P.S., come sopra rappresentati e difesi. – controricorrenti al ricorso incidentale –

e nei confronti di:

L.F.; V.G.; S.G.. – intimati –

avverso la sentenza n. 264/2019 della CORTE DI APPELLO DI CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI, depositata il 30/05/2019; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 09/09/2021 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NARDECCHIA Giovanni Battista, che ha concluso chiedendo accogliersi il ricorso principale e rigettarsi quello incidentale condizionato; udito, per i ricorrenti, l’Avv. G. F., che ha chiesto accogliersi il proprio ricorso; uditi, per la controricorrente, gli Avv.ti A. S. e P. S., che hanno chiesto rigettarsi l’avverso ricorso ed accogliersi il proprio ricorso incidentale condizionato.

1.Con sentenza del 27 gennaio 2017, n. 51, il Tribunale di Tempio Pausania accolse le domande proposte da D.P.M., anche quale amministratore unico della I.O. S.P.A. in liquidazione, e da P.S., quale titolare della maggioranza del capitale sociale della menzionata società, contro L.F., S.G., V.G. e la M.I. s.r.l., volte alla declaratoria della inesistenza delle deliberazioni imputate alle assemblee della I.O. S.P.A. del 9 febbraio e del 27 luglio 2006 – la prima, di nomina di un nuovo amministratore, nella persona di L.F.; la seconda, di scioglimento della società e nomina dello stesso L. quale liquidatore – nonchè all’accertamento della nullità dell’atto di compravendita di un terreno concluso il 26 ottobre 2006 tra detta società e la M.I.s.r.l.. Dichiarò inammissibile, invece, per mancata allegazione del fatto asseritamente dannoso, la loro richiesta di risarcimento dei danni.

2.Il gravame promosso, contro questa decisione, dalla M.I.s.r.l. è stato accolto dalla Corte d’appello di Cagliari – Sezione distaccata di Sassari, con sentenza del 30 maggio 2019, resa nel contraddittorio con D.P.M., anche nella predetta qualità, ed P.A., quale erede di P.S., medio tempore deceduto, e nella contumacia L.F., S.G. e V.G..

2.1. Quella corte, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto tutte le domande degli attori/appellati. In particolare, e per quanto qui ancora rileva, ha ritenuto: i) provata la qualità di socio in capo a P.S., a norma degli artt. 2022 e 2354 c.c., posto che, sebbene la conformità all’originale della fotocopia del libro dei soci, nel quale era stata trascritta la cessione della quota, in favore del medesimo, da parte di G.A., fosse stata disconosciuta in giudizio, tuttavia sussisteva una certificazione notarile di tale autenticità, onde quel disconoscimento restava privo di rilievo in causa; ii) le due deliberazioni assembleari della I.O. S.P.A., assunte il 9 febbraio ed il 27 luglio 2006, non inesistenti, ma solo annullabili, ai sensi dell’art. 2377 c.c., in ragione della partecipazione ad esse di soggetto non legittimato, S.G. (asserita erede di G.A.), per il tramite del suo rappresentante V.G., che non era socia al momento della adozione delle deliberazioni stesse. Ne derivava l’inammissibilità della impugnazione di queste ultime per esserne i soggetti impugnanti decaduti dal relativo potere per il decorso del termine di decadenza di novanta giorni. Ad ogni modo, anche qualora si fossero dovute ritenere le due delibere inesistenti, non ne sarebbe derivata l’invalidità dell’atto di compravendita immobiliare posto in essere, il 26 ottobre 2006, dal legale rappresentante ( L.F.), in quanto il consenso era stato espresso e, in mancanza di efficace impugnazione della Delibera che aveva nominato il L., egli doveva ritenersi definitivamente titolare del relativo potere di rappresentare la società.

3.Avverso questa sentenza è stato proposto ricorso per cassazione da D.P.M., in proprio e quale amministratore della I.O. S.P.A., nonchè da P.A., quale erede di P.S., sulla base di tre motivi. Ha resistito, con controricorso, la M.I.s.r.l., che ha proposto ricorso incidentale condizionato per un motivo, avverso il quale si è difesa controparte con controricorso. Sono rimasti solo intimati L.F., V.G. e S.G.. Entrambe le parti costituite hanno depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c..

Fatti di causa

1.Rileva pregiudizialmente il Collegio che il ricorso (principale) oggi proposto da D.P.M. “…quale amministratore della I.O. S.P.A. in liquidazione…” deve considerarsi inammissibile.

1.1. Invero: i) costituisce circostanza pacifica che la menzionata società è stata cancellata dal registro delle imprese in corso di causa (durante il giudizio di primo grado). L’estinzione è stata accertata dal giudice di appello, che ha ritenuto, ciò nonostante, sussistente l’interesse ad agire del socio P. e dell’ex amministratore D.P. (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata) senza contestazione da parte degli odierni ricorrenti; ii) la pronuncia recentemente resa da Cass., SU, 30 luglio 2021, n. 21970, ha ribadito che “lo scioglimento della società, con la sua cancellazione dal registro delle imprese – per esplicito dettato normativo, all’evidenza volto a superare il regime di “diritto vivente” della permanenza in vita sino all’esaurimento di tutti i rapporti pendenti – comporta l’estinzione della società (art. 2495 c.c.), con subentro dei soci a mò di successori universali per le eventuali sopravvenienze o sopravvivenze non contemplate nel bilancio di liquidazione (Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060 e Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071, 6072)”; iii) il fondamentale arresto costituito da Cass., SU, 12 marzo 2013, n. 6070, ha stabilito, tra l’altro, che la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, ex art. 2495 c.c., priva la società stessa della capacità di stare in giudizio, con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dalla L. Fall., art. 10. Pertanto, qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 c.p.c. e segg., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; se, invece, l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso. In altri termini, secondo la decisione in esame, “E’ del tutto ovvio che una società non più esistente, perchè cancellata dal registro delle imprese, non possa validamente intraprendere una causa, nè esservi convenuta”, sicchè deve invocarsi il principio generale per cui il giudizio d’impugnazione deve sempre essere promosso da e contro i soggetti effettivamente legittimati, ovvero “come anche si usa dire, della “giusta parte” (cfr. Cass. n. 14106 del 2012; Cass. n. 1760 del 2012; Cass. n. 10649 del 2011; Cass. n. 259 del 2011; Cass., SU, n. 14699 del 2010). Affermano, in particolare, le Sezioni Unite che “L’evento estintivo del quale qui si sta parlando, ossia la cancellazione della società dal registro delle imprese, è oggetto di pubblicità legale. Salvo impedimenti particolari (sempre in teoria possibili, ma da dimostrare di volta in volta ai fini di un’eventuale rimessione in termini), non appare quindi ammissibile che l’impugnazione provenga dalla – o sia indirizzata alla – società cancellata, e perciò non più esistente, giacchè la pubblicità legale cui l’evento estintivo è soggetto impone di ritenere che i terzi, e quindi anche le controparti processuali, ne siano a conoscenza; e la necessaria visione unitaria dell’ordinamento non consente di limitare al solo campo del diritto sostanziale la portata delle suaccennate regole inerenti al regime di pubblicità, escludendone l’applicazione in ambito processuale”; iv) la giurisprudenza successiva ha dato pieno seguito all’arresto delle Sezioni Unite del 2013, affermando che, poichè la cancellazione dal registro delle imprese determina l’immediata estinzione della società di capitali, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo, deve ritenersi inammissibile – per carenza di capacità processuale ex art. 75 c.p.c., comma 3 – il ricorso per cassazione proposto dal liquidatore di una società che sia stata cancellata dal registro delle imprese in epoca posteriore alla data suddetta, difettando la stessa di legittimazione sostanziale e processuale, trasferitasi automaticamente ai soci ex art. 110 c.p.c., sia stato dichiarato o non l’evento interruttivo, nel processo in corso, dal difensore della società (cfr. Cass. n. 21517 del 2013; Cass. n. 23574 del 2014; Cass. n. 25275 del 2014; Cass. n. 13183 del 2017; Cass. 27/09/2021 n. 20840 del 2018; Cass. n. 19580 del 2017).

2.Tanto premesso, i primi due motivi del suddetto ricorso denunciano, rispettivamente:

I) “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2377 c.c. – Violazione della legge processuale e, in particolare, dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per mancanza di motivazione circa l’applicabilità dell’art. 2377 c.c.”. Si deduce che, nella specie, le due delibere impugnate erano state assunte con la presenza di un’unica socia, l’Avv. S.G. (ivi rappresentata da V.G.), asserita titolare della quota del 99,5% del capitale sociale, la quale, tuttavia, non era socia affatto, per avere la sua dante causa ( G.A.) venduto quella quota (tra gli altri, a P.S.) sin dal 10 marzo 1981. La corretta categoria in cui inquadrare il vizio di dette delibere, dunque, non poteva essere la loro mera annullabilità, bensì la loro inesistenza, non essendo stato presente alcun socio alle assemblee (peraltro convocate da un soggetto che non era l’amministratore) che le avevano adottate: non pertinente, inoltre, doveva considerarsi il richiamo effettuato dalla corte distrettuale alla pronuncia resa da Cass. n. 1361 del 2011, attesa la fattispecie (diversa da quella oggi dedotta) ivi concretamente esaminata;

II) “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (l’irregolare costituzione delle cosiddette assemblee che hanno dato luogo alle cosiddette Delib. 9 febbraio 2006 e Delib. 27 luglio 2006)”, posto che la sentenza impugnata non aveva rilevato che era mancato, in tali assemblee, qualunque soggetto che rivestisse la qualità di socio della I.O. S.P.A..

2.1. Tali doglianze sono scrutinabili congiuntamente, ponendo entrambe, sostanzialmente, la questione della persistente configurabilità, o meno, del vizio di inesistenza della Delibera assembleare dopo la riforma del diritto societario di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003. Esse si rivelano meritevoli di accoglimento esclusivamente nei limiti di cui appresso si dirà.

2.2. Giova preliminarmente osservare, quanto all’asserita “mancanza di motivazione circa l’applicabilità dell’art. 2377 c.c.” (di cui al primo motivo), che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 30 maggio 2019), deve ritenersi ormai ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione, sicchè si è chiarito (cfr. tra le più recenti, Cass. n. 4226 del 2021; Cass. n. 9017 del 2018) che è oggi denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; questa anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014; Cass. n. 7472 del 2017. Nello stesso senso anche le più recenti Cass. n. 20042 del 2020, Cass. n. 23620 del 2020 e Cass. n. 4226 del 2021).

2.2.1. In particolare, il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza sussiste qualora il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (cfr. Cass. n. 23684 del 2020; Cass. n. 20042 del 2020; Cass. n. 9105 del 2017; Cass. n. 9113 del 2012). Ne deriva che è possibile ravvisare una “motivazione apparente” nel caso in cui le argomentazioni del giudice di merito siano del tutto inidonee a rivelare le ragioni della decisione e non consentano l’identificazione dell’iter logico seguito per giungere alla conclusione fatta propria nel dispositivo risolvendosi in espressioni assolutamente generiche e prive di qualsiasi riferimento ai motivi del contendere, tali da non consentire di comprendere la ratio decidendi seguita dal giudice. Un simile vizio, inoltre, deve apprezzarsi non rispetto alla correttezza della soluzione adottata o alla sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente sotto il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva.

2.2.2. Orbene, la corte territoriale, pronunciandosi sul quarto motivo di appello, con cui la M.I.s.r.l. aveva dedotto “l’erronea declaratoria di inesistenza delle delibere (della I.O. S.P.A.. Ndr) del 9.2.2006 e del 27.7.2006, invece intangibili perchè non impugnate nei termini a norma dell’art. 2377 c.c.”, ha affermato (cfr. pag. 11 della sentenza impugnata) che: “Anche a voler condividere le considerazioni svolte in prime cure circa la configurabilità della categoria dell’inesistenza, ancora dopo la riforma societaria, certo è che dette delibere risultano conformi al modello legale di cui all’art. 2375 c.c., con la conseguenza che la contestazione circa la titolarità in capo alla S. della quota di maggioranza avrebbe dovuto essere fatta valere a norma dell’art. 2377 c.c., non essendo ravvisabile quella impossibilità di ricondurre l’atto al modello giuridico in cui era stato assunto per difetto degli elementi essenziali, dichiarata dal tribunale con riferimento alla titolarità delle azioni, la cui indagine doveva invece essere ricondotta all’alveo dell’art. 2377 c.c., comma 5, n. 1 (cfr. Cass. Civ., sez. I, 20-01-11 n. 1361: “La deliberazione assembleare di una società per azioni, di cui si assuma la non corretta modalità di computo delle maggioranze all’uopo occorrenti ai fini di un quorum deliberativo è meramente annullabile e non inesistente. infatti, la sua difformità dal modello legale, già nel contesto normativo anteriore alla riforma societaria di cui al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ne lascia permanere i lineamenti essenziali, trattandosi di una decisione assunta dai soci con la proclamazione del risultato ed è un atto giuridico certamente venuto ad esistenza, laddove la conseguenza dell’inesistenza sarebbe contraria alle fondamentali esigenze di certezza e di affidamento che ispirano (ed ispiravano anche nel regime anteriore alla riforma societaria) la disciplina degli artt. 2377 c.c. e segg.”)”.

2.2.3. Essa, dunque, benchè in maniera sintetica, ha illustrato le ragioni poste a base della soluzione adottata per la corrispondente statuizione, spiegandola, nella sostanza, con l’assunto che la concreta fattispecie sottoposta alla sua attenzione (la contestazione circa la titolarità, in capo alla S., della quota di maggioranza del capitale sociale della I.O. S.P.A.) dovesse essere ricondotta all’ipotesi di cui all’art. 2377 c.c., comma 5, n. 1, da farsi valere, dunque, nel termine, invece rimasto inosservato, di cui al comma 6 del medesimo articolo. Deve, quindi, considerarsi soddisfatto l’onere minimo motivazionale di cui si è detto, nè rileva, qui, come si è già anticipato, l’esattezza, o non, di tale giustificazione.

2.3. Quanto, poi, al vizio motivazionale esposto nel secondo motivo, è utile ricordare che giusta il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, precedentemente individuato, oggetto del vizio di cui alla citata norma è oggi esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

2.3.1. Come ancora recentemente ribadito da questa Corte (cfr. amplius, Cass. n. 4226 del 2021), poi, costituisce un “fatto”, agli effetti della menzionata norma, non una “questione” o un “punto”, ma: i) un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass., SU, n. 5745 del 2015); iii) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014); iv) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

2.3.2. Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, tra gli altri: i) difensive (cfr. Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); ii) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

2.3.3. Il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve, inoltre: a) avere carattere “decisivo”, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia; b) essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto “controverso”, contestato, non dato per pacifico tra le parti.

2.3.4. Fermo quanto precede, il vizio motivazionale dedotto con il secondo motivo del ricorso principale si rivela essere una doglianza che fuoriesce dal già descritto ambito applicativo del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che, come si è già riferito, non costituiscono “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio di cui alla menzionata disposizione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice. E, nella specie, è innegabile che la corte distrettuale abbia comunque valutato la circostanza dell’assenza della qualità di socia in capo alla S., unica intervenuta (tramite il suo rappresentante V.G.) alle assemblee della cui validità tuttora si discute, facendone derivare la mera annullabilità (in luogo della inesistenza invocata dagli attori/appellati) di queste ultime perchè ricondotte alla fattispecie di cui all’art. 2377 c.c., comma 1, n. 5.

2.4. La violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2377 c.c., denunciata con il primo motivo del ricorso principale, impone di verificare: i) la possibilità, o non, di poter continuare a configurare il vizio di inesistenza della Delibera assembleare dopo la riforma del diritto societario attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, qui applicabile ratione temporis anche in virtù del consolidato principio secondo cui, ai fini della validità di un atto, occorre avere riguardo alla legge del tempo in cui questo venne concluso (cfr. Cass. n. 1877 del 1995 e Cass. n. 12438 del 1995, entrambe richiamate, in motivazione, dalla successiva Cass. n. 8222 del 2007); ove positivamente risolta l’indagine predetta, la eventuale riconducibilità alla inesistenza predetta della concreta fattispecie oggi all’esame di questa Corte.

2.4.1. Orbene, giova premettere che, vigente la disciplina delle società per azioni anteriore alle modificazioni introdotte dal Decreto Legislativo suddetto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di invalidità delle deliberazioni dell’assemblea delle menzionate società si aveva un’inversione dei criteri regolatori del diritto negoziale, in quanto per esse vigeva il principio in virtù del quale la regola generale era quella dell’annullabilità (art. 2377 c.c.). La previsione della nullità, invece, era limitata ai soli casi, disciplinati dall’art. 2379 c.c., di impossibilità o illiceità dell’oggetto, che ricorrevano quando il contenuto della deliberazione contrastasse con norme dettate a tutela degli interessi generali, che trascendevano l’interesse del singolo socio, dirette ad impedire deviazioni dallo scopo economico-pratico del rapporto di società, con la conseguenza che la violazione di norme di legge, anche di carattere imperativo, in materia societaria, comportava la mera annullabilità della Delibera (cfr., ex plurimis, Cass. n. 8222 del 2007; Cass. n. 8221 del 2007; Cass. n. 7693 del 2006; Cass. n. 15721 del 2005; n. 14799 del 2000; n. 3457 del 1999), in virtù di una regola diretta a bilanciare l’interesse alla gestione ordinata dell’impresa sociale e l’esigenza di stabilità (e rapidità) delle deliberazioni societarie.

2.4.2. Accanto a questi due vizi, si poneva la figura dell’inesistenza giuridica, di matrice essenzialmente giurisprudenziale (e dottrinaria). Per quanto qui interessa, e non occorrendo ripercorrere la storia di detta figura e ricordare i margini d’incertezza nelle sue concrete applicazioni, è sufficiente osservare che ad essa si faceva riferimento allorquando lo scostamento della realtà dal modello legale risultava così marcato da impedire di ricondurre l’atto alla categoria stessa di deliberazione assembleare, e cioè in relazione alle situazioni nelle quali l’evento storico al quale si sarebbe voluta attribuire la qualifica di deliberazione assembleare si era realizzato con modalità non semplicemente difformi da quelle imposte dalla legge o dallo statuto sociale, ma tali da far sì che la carenza di elementi o fasi essenziali non permettesse di scorgere in esso i lineamenti tipici dai quali una deliberazione siffatta doveva essere connotata (cfr., da ultimo, e per tutte, Cass. n. 7693 del 2006, richiamata in motivazione dalla successiva, già menzionata, Cass. n. 8222 del 2007). Peraltro, questa categoria giuridica non trovava specifico fondamento in alcuna disposizione di legge e, dunque, poteva essere individuata, senza incorrere in alcun arbitrio interpretativo, soltanto qualora l’incompletezza della fattispecie fosse così grave da escluderne la riconducibilità ad un determinato tipo legale: questo perchè, come era stato posto in rilievo, una norma giuridica “non può sanzionare direttamente l’inesistenza, in quanto la norma, per essere applicabile, presuppone che una fattispecie esista, per quanto viziata” (cfr. Cass. n. 12008 del 1998). L’inesistenza, quindi, era stata affermata nei casi di omessa convocazione (di tutti o di alcuni) dei soci (cfr. Cass. n. 9364 del 2003; Cass. n. 1186 del 2001) e di mancata adunanza dei soci (cfr. Cass. n. 835 del 1995); di svolgimento dell’assemblea in luogo diverso da quello indicato nell’avviso di convocazione (cfr. Cass. n. 403 del 1993); di deliberazione adottata con una maggioranza alla formazione della quale avessero concorso persone prive del diritto di voto (cfr. Cass. n. 233 del 1967); di mancata verbalizzazione delle operazioni assembleari (cfr. Cass. n. 11601 del 1990; n. 6340 del 1981).

2.4.3. Rispetto al codice del 1942, il tessuto normativo, con la novella del D.Lgs. n. 6 del 2003, ha compiuto innegabili progressi (almeno nel settore in esame). Per rendersi conto del salto qualitativo prodotto dalla riforma, basta leggere i nuovi artt. 2377 e 2379 c.c., dove si trovano regolate in maniera molto più dettagliata (che in passato) le conseguenze dei principali vizi procedimentali di formazione della Delibera. Sicchè oggi è più agevole per l’interprete fare ciò che era più difficoltoso (se non addirittura precluso) ieri: ricostruire il concetto di Delibera “norme alla mano”. In altri termini, come pure evidenziato in dottrina, se, ante novella, la categoria dell’inesistenza ha prosperato grazie ad un impianto normativo (il codice civile del 1942) che rinunciava in partenza a porsi come guida per l’interprete, poichè individuava la fattispecie “Delibera invalida” semplicemente mediante il ricorso ad una clausola generale (“le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge e dello statuto possono essere impugnate…”: art. 2377 c.c., comma 2, vecchia formulazione), senza alcuna ulteriore specificazione (se non quella, contenuta nell’art. 2379 c.c., che sanzionava con la nullità la Delibera con oggetto/contenuto illecito), la riforma, che ha riscritto la disciplina dell’invalidità delle delibere assembleari, sembra offrire l’occasione per tentare di rivisitare il tema, a cominciare dal metodo di indagine: non più “diritto libero”, ma individuazione dei requisiti costitutivi della fattispecie per induzione dalle norme scritte, che dunque occorre interpretare. L’alternativa non può che essere il continuare ad intuire ipotesi (residue) di inesistenza, con resa alla soggettività dell’operatore.

2.4.4. Di tali preoccupazioni, del resto, si riscontrano chiari riscontri nella dottrina che si è occupata specificamente del tema dell’inesistenza dopo il D.Lgs. n. 6 del 2003, poichè, a prescindere, per ora, dal merito delle soluzioni prospettate, emerge comunque lo sforzo di argomentare la conclusione in base ad un ragionamento incentrato sul diritto positivo.

2.4.5. Si può dire che la dottrina, più della giurisprudenza, abbia percepito il vincolo derivante dall’esistenza in materia di un sistema di norme scritte. Tuttavia, si è stentato a trovare un accordo sul merito del problema.

2.4.5.1. Secondo un’opinione, infatti, per aversi “Delibera” occorrerebbe il concorso di due requisiti: i) “un momento di “appropriazione” della decisione da parte dell’organizzazione societaria, o preventivo (attraverso una convocazione, per quanto irregolare, purchè proveniente da un organo sociale), o successivo (attraverso la trascrizione del verbale nel libro delle adunanze assembleari, ancora una volta ad opera di un componente di un organo della società)”; ii) “un momento qualificabile come “riunione” dell’organo, ancorchè alla stessa abbiano partecipato soggetti non legittimati”.

2.4.5.2. Per una diversa tesi, invece, “il nucleo essenziale (della) fattispecie (sarebbe) costituito, alla luce dell’attuale disciplina, da una manifestazione di volontà dei soci espressa nella forma del voto al termine della riunione (anche “potenziale”) e proveniente da una maggioranza anche apparente…, cui abbiano preso parte soci titolari del diritto di voto”.

2.4.6. Non è il caso, in questa sede, di analizzare oltre il contenuto di tali indirizzi (passaggi logici, legami e punti di attrito), nè di ripercorrere le ragioni di critica che vi si sono state opposte. Qui basta solo segnalare che, con riferimento allo specifico caso oggetto della vicenda oggi all’esame di questo Collegio (decisione presa unicamente da chi non è socio, nè altrimenti legittimato a votare, ma che si professa come tale), entrambi conducono alla medesima conclusione di inesistenza della Delibera.

2.4.7. Non è mancato, peraltro, chi ha cercato di giustificare una diversa valutazione del dato positivo, in forza della quale ritenere che, nel caso di specie, potrebbe dirsi esistente una Delibera, benchè nulla per mancata convocazione dell’assemblea (art. 2379 c.c., comma 1). Tanto muovendo da una ricostruzione del concetto di Delibera diversa da quelle già sinteticamente descritte. In particolare, fondando sulla convinzione che, per l’esistenza della fattispecie, un solo requisito sia necessario e sufficiente: la “parvenza” di Delibera, per tale intendendo la formale, esteriore, apparente provenienza della decisione dalla maggioranza del capitale sociale richiesta dalla legge o dallo statuto. Ricorrendo tale requisito, non sarebbe di ostacolo alla nascita di una Delibera la circostanza che, in realtà, l’atto sia materialmente imputabile ad una minoranza del capitale o, addirittura, ad un estraneo. Una siffatta ricostruzione genera una direttiva pratica del seguente tenore: per accertare se esista, o meno, una “Delibera assembleare”, non occorre accertare da chi proviene la decisione (socio di maggioranza, di minoranza, estraneo) e come essa si è formata (in assemblea o fuori), essendo (necessario e) sufficiente verificare che almeno esteriormente essa appaia essere frutto della volontà della necessaria maggioranza del capitale sociale.

2.4.8. In definitiva, quindi, il panorama della dottrina e della giurisprudenza di merito rivela sì un indebolimento della figura della inesistenza, ma denota anche l’essere la stessa, pur sempre, viva e vitale.

2.4.9. Può condividersi, dunque, l’assunto di chi ha concluso nel senso che la questione delle delibere inesistenti può riassumersi in una incessante disputa tra il legislatore, da un lato, e gli operatori del diritto, dall’altro: il primo fissa un regime della invalidità degli atti ispirato alla tutela, più o meno accentuata, della stabilità degli stessi e della certezza delle situazioni conseguenti; ma quando le sue scelte contrastano con la percezione equitativa che del caso hanno gli interpreti, costoro possono sostenere che alcuni vizi sono tanto gravi da non rendere le deliberazioni che ne sono affette semplicemente illegittime, ma addirittura inesistenti: cioè qualificando quelle ipotesi non in termini di “delibere viziate” (e quindi non conformi alla legge o all’atto costitutivo o comunque al paradigma posto nella fattispecie astratta), ma in termini di “non delibere”. Ora, il sorgere di questa disputa nasce chiaramente dal fatto di porre normativamente un termine (più o meno ristretto) di decadenza per l’esercizio della impugnazione volta ad ottenere una pronuncia sulla invalidità dell’atto viziato (e quindi demolitoria), oltre che, ovviamente, nel trovarsi, come nel caso di specie, di fronte ad una contestazione della sua validità proposta oltre il predetto termine. E’ quindi proprio la idoneità di una certa tipologia di atti a divenire inoppugnabile che determina, probabilmente, l’insorgenza della categoria della inesistenza.

2.4.10. In realtà, benchè la riforma di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003, abbia inteso scongiurare, attraverso apposite previsioni di fattispecie di invalidità, che la giurisprudenza potesse ampliare a dismisura il novero delle deliberazioni inesistenti (la L. 3 ottobre 2001, n. 366, recante la delega per la riforma del diritto societario, aveva previsto, all’art. 4, comma 7, lett. B), che la riforma fosse diretta a “disciplinare i vizi delle deliberazioni in modo da contemperare le esigenze di tutela dei soci e quelle di funzionalità e certezza dell’attività sociale, individuando le ipotesi di invalidità, i soggetti legittimati alla impugnativa e i termini per la sua proposizione”. In attuazione della delega, poi, il legislatore della riforma ha scelto di eliminare la figura della inesistenza per ricondurre i vizi inficianti le delibere assembleari unicamente alle ipotesi di nullità e annullabilità. Si legge, infatti, nella relazione di accompagnamento alla riforma: “l’individuazione legislativa delle ipotesi di invalidità richiesta dalla legge delega corrisponde ad una sorta di riserva di legge al riguardo, volta ad escludere ipotesi di invalidità atipiche, come l’inesistenza delle deliberazioni assembleari, della quale si è in giurisprudenza alquanto abusato, frustrando la portata dell’originario art. 2377 c.c., che aveva inteso convertire la nullità per violazione di norme imperative, di cui al principio generale di cui all’art. 1418 c.c., in semplice annullabilità e reintroducendo in tal modo, sotto le mentite spoglie della inesistenza, la nullità virtuale delle deliberazioni assembleari per violazione di norme imperative. Si è perciò formulato il principio di tassatività delle ipotesi di invalidità delle deaerazioni assembleari previste dalla legge”), la inesistenza resta una categoria logica e non una (possibile) fattispecie giuridica: sicchè su di essa è impossibile per la legge incidere in modo definitivo. Ciò spiega perchè, anche dopo la riforma tutta ispirata a dare pieno accoglimento alle esigenze di stabilità delle decisioni della organizzazione e di funzionalità e certezza dell’azione della società, vi sono state ipotesi che, nella giurisprudenza di merito, si è continuato a qualificare, piuttosto pacificamente, in termini di deliberazioni inesistenti. Tutto ciò a definitiva riprova che la inesistenza emerge quando la forma di invalidità legislativamente riconosciuta non può essere dichiarata o accertata per il decorso di un termine positivamente previsto e della conseguente inutilità di ogni sforzo legislativo volto ad estirpare definitivamente la categoria della inesistenza dal diritto giurisprudenziale in presenza di un siffatto termine.

2.4.11. Fermo quanto precede, ad avviso di questo Collegio si rivela preferibile, tra le descritte opinioni dottrinali, quella incline a configurare sebbene in via del tutto residuale – la categoria della inesistenza della Delibera assembleare esclusivamente allorquando lo scostamento della realtà dal modello legale risulti così marcato da impedire di ricondurre l’atto alla categoria stessa di deliberazione assembleare, e cioè in relazione alle situazioni nelle quali l’evento storico al quale si vorrebbe attribuire la qualifica di deliberazione assembleare si è realizzato con modalità non semplicemente difformi da quelle imposte dalla legge o dallo statuto sociale, ma tali da far sì che la carenza di elementi o di fasi essenziali non permetta di scorgere in esso i lineamenti tipici dai quali una deliberazione siffatta dovrebbe esser connotata nella sua materialità. E tanto in linea di sostanziale continuità con quanto già sancito, sebbene in fattispecie regolata dalla normativa ante riforma, da Cass. n. 7693 del 2006, la quale, non aveva mancato di evidenziare come le novità legislative di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003, non valessero “comunque ad espungere del tutto dall’ordinamento societario la figura della deliberazione inesistente, quanto meno nei casi nei quali si debba parlare di inesistenza materiale, prima ancora che giuridica, di essa”. Nella fattispecie ivi esaminata, nella quale era mancata non soltanto la separata convocazione, quanto la costituzione stessa di un’assemblea degli obbligazionisti sottoscrittori del prestito convertibile emesso da una società, e nella quale la deliberazione concernente la modifica delle condizioni di tale prestito era stata assunta non già semplicemente con il concorso anche di soggetti non legittimati, bensì unicamente con il voto di estranei al prestito da modificare ed in assenza totale dei soli obbligazionisti legittimati, era stata ritenuta mancante la materialità stessa della riunione assembleare – o, quanto meno, di una riunione assembleare riferibile agli obbligazionisti sottoscrittori di quel prestito – “non diversamente da quanto accadrebbe se si pretendesse di qualificare come assemblea degli azionisti di una società un’adunanza cui partecipino soltanto soggetti che di quella società non sono invece affatto soci”.

2.4.12. Non convince appieno, invece, il contrario indirizzo che muove dalla convinzione che, per l’esistenza della fattispecie, un solo requisito sia necessario e sufficiente: la “parvenza” di delibera, vale a dire la formale, esteriore, apparente provenienza della decisione dalla maggioranza del capitale sociale richiesta dalla legge o dallo statuto.

2.4.12.1. Invero, benchè sia innegabile che, nella relazione di accompagnamento al D.Lgs. n. 6 del 2003, il legislatore abbia esplicitato di avere bandito ogni ipotesi di invalidità atipiche, come l’inesistenza di deliberazioni assembleari, sussistendo una piena riserva di legge con riguardo ai casi d’invalidità delle deliberazioni assembleari, è altrettanto vero, tuttavia, che le ipotesi di nullità oggi considerate dall’art. 2379 c.c., si riferiscono ai casi in cui ci si trovi in presenza di un atto formale comunque imputabile alla società (mancata convocazione dell’assemblea; mancanza di verbale; impossibilità o illiceità dell’oggetto). Il tutto presuppone, dunque, che si sia tenuta un’assemblea della società che, seppure non convocata, sia qualificabile come tale, cioè abbia visto la presenza (rectius: la partecipazione ad essa) quanto meno di un socio della società medesima. Invece, nell’ipotesi estrema di “assemblea” caratterizzata dalla presenza (rectius: partecipazione alla stessa) esclusivamente di soggetti privi della qualifica di soci, la deliberazione da essa eventualmente espressa nemmeno potrebbe ragionevolmente considerarsi alla stregua di un atto astrattamente imputabile alla società, così da essere estraneo alla categoria di cui agli artt. 2377 c.c. e segg.. In definitiva, non basta una votazione, purchessia, per potere configurare l’esistenza di una deliberazione societaria, essendo, per contro, necessario che la stessa provenga da un’assemblea della società che sia effettivamente qualificabile (perchè partecipata da almeno uno dei suoi soci) come tale.

2.5. Tanto premesso, e venendo alla concreta vicenda in esame, è incontestato tra le parti, oltre che espressamente riferito in sentenza, che alle due deliberazioni assembleari del 9 febbraio e del 27 luglio 2006, ascritte alla I.O. S.P.A., partecipò un solo soggetto ( S.G., tramite il suo procuratore V.G.), affermatosi titolare del 99,5% del capitale sociale, e che, tuttavia, lo stesso – secondo quanto accertato dalla stessa Corte d’appello – non era socio al momento dell’assunzione delle deliberazioni ed espressioni del voto: situazione idonea ad integrare proprio quei casi residuali, certamente rari ma tuttavia non estranei all’attuale ordinamento societario, in cui neppure sussista un simulacro di deliberazione, munita di quei requisiti minimi per riconoscerla materialmente come tale; e solo rispetto ai quali può trovare applicazione – per il caso di partecipazione di soggetto non legittimato – l’art. 2377 c.c., comma 5, n. 1.

2.5.1. Invero, la partecipazione di soggetti non legittimati è stata risolta dalla nuova disposizione, stabilendo che la deliberazione non può essere annullata per la partecipazione all’assemblea di persona non legittimata, ove non sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell’assemblea: ciò presupponendo, peraltro, che sia individuabile una deliberazione, secondo il suo essenziale procedimento e contenuto, insussistente, invece, laddove l’unico soggetto presente, apparentemente titolare del 99,5% del capitale sociale, non sia un socio.

2.5.2. Già nella vigenza della precedente disciplina, del resto – come opportunamente rimarcato dal sostituto procuratore generale nella sua requisitoria scritta – in risalenti precedenti (cfr. Cass. n. 2513 del 1951; Cass. n. 45 del 1966; Cass. n. 233 del 1967) era stata chiarita la fondamentale distinzione tra mancanza nel partecipante all’assemblea del diritto al voto (che integra l’inesistenza della Delibera) e vizi relativi all’esercizio del diritto di voto di cui il partecipante all’assemblea sia legittimamente investito (che comporta la mera invalidità della decisione). Principi mai più contraddetti, in quanto Cass. n. 2053 del 1999, pur considerata da Cass. n. 1624 del 2015 come precedente contrario, si riferisce ad una fattispecie differente: quella relativa ad una Delibera adottata anche con il voto di soggetti non legittimati.

2.5.2.1. Infatti, Cass. n. 2053 del 1999, in continuità con l’orientamento precedente, afferma che “…In particolare, la partecipazione all’assemblea di soci privi del diritto di voto per aver dato le azioni in pegno, anche se titolari della maggioranza del capitale sociale, non inficia la costituzione dell’organo e non impedisce che la Delibera adottata sia imputabile alla società, ove alla stessa assemblea abbiano comunque partecipato soci legittimati, pur detentori della minoranza del capitale sociale: in tal caso, quindi, la Delibera presa con il voto eventualmente determinante dei soci non legittimati deve ritenersi soltanto annullabile e non inesistente, diversamente dall’ipotesi in cui all’assemblea abbiano partecipato, esercitando il diritto di voto, esclusivamente i soci non legittimati”.

2.5.3. In sostanza, la giurisprudenza di legittimità formatasi nella vigenza della precedente disciplina ha sempre sostenuto (cfr., ex multis, oltre a quelle citate, Cass. n. 5197 del 1979 e Cass. n. 2698 del 1961) l’inesistenza della deliberazione assembleare di società per azioni assunta da un’assemblea composta per intero da soci privi del diritto di voto. Principi cui deve darsi continuità una volta ritenuto che alla categoria dell’inesistenza delle deliberazioni societarie, benché dichiaratamente espunta dall’ordinamento giuridico a seguito della riforma del diritto societario, debba continuare a ricondursi il caso di una “deliberazione” scaturita da un’adunanza di soggetti, dichiaratisi soci di una società, cui abbiano partecipato – come accaduto nella specie – soltanto soggetti che di quella società non siano, invece, affatto soci. Si è qui al cospetto, invero, di un’ipotesi di inesistenza materiale della Delibera che risulta estranea alla categoria di cui agli artt. 2377 c.c. e segg., non sussistendo un atto imputabile, in via astratta, alla società.

2.5.3.1. Del resto, la stessa disposizione di cui all’art. 2377 c.c., comma 5, n. 1 (La deliberazione non può essere annullata per la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, salvo che tale partecipazione sia stata determinante ai fini della regolare costituzione dell’assemblea a norma degli artt. 2368 e 2369), su cui insiste la controricorrente, è relativa ad una vicenda concernente il quorum costitutivo dell’assemblea: nell’odierna fattispecie, invece, nemmeno è a parlarsi di quorum costitutivo posto che, come si è detto, si è al cospetto di un atto nemmeno materialmente definibile come Delibera assembleare, essendo il risultato di “riunioni” svoltesi, esclusivamente, tra soggetti rivelatisi affatto privi della qualifica di soci della I.O. S.P.A..

2.6. Dal complesso delle circostanze di causa come accertate dalla stessa Corte d’appello, allora, l’inesistenza delle deliberazioni in esame emerge nella sua dimensione di fatto, in termini tali da escludere qualunque possibile giudizio di validità o invalidità, che necessariamente dovrebbe presupporre quanto meno un fantasma di realtà giuridica.

3.Dalla qui ritenuta inesistenza delle delibere suddette consegue, evidentemente, l’erroneità dell’unica, sostanziale, ratio decidendi della decisione oggi impugnata, la quale ha fondato sul diverso convincimento, lì espresso, della mera annullabilità delle medesime delibere anche il proprio ulteriore opinamento concernente i concreti effetti delle stesse sulla compravendita stipulata il 26 ottobre 2006 tra la I.O. S.P.A. e la odierna controricorrente (atto la cui nullità e/o inefficacia è stata espressamente domandata dagli originari attori).

3.1. In relazione a tali aspetti, dunque, la sentenza impugnata deve essere cassata, con conseguente assorbimento del terzo motivo del ricorso principale (rubricato “Violazione dell’art. 2377 c.c. e violazione della legge processuale e, in particolare, dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per omessa motivazione in relazione al presunto consenso di I.O. S.P.A. alla vendita dell’immobile oggetto dell’atto del 26/10/2006 e della convalida dell’operato del sedicente liquidatore della società in occasione di detta vendita” e volto a contestare le argomentazioni della decisione impugnata quanto alla pretesa, definitiva validità del consenso della menzionata società alla vendita del bene immobile, espresso da un liquidatore la cui Delibera di nomina non sarebbe stata tempestivamente impugnata), posto che il giudice di rinvio dovrà provvedere a riesaminare la descritta questione ivi posta alla stregua della qui ritenuta inesistenza delle citate delibere, provvedendo a valutarne le conseguenze in ordine al suddetto atto traslativo.

4.Venendo, poi, al ricorso incidentale condizionato della M.I.s.r.l., esso prospetta un unico motivo, rubricato “violazione e falsa applicazione degli artt. 2022, 2355 e 2712 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto la corte territoriale aveva errato: i) nel negare valenza al disconoscimento della fotocopia del libro dei soci, non potendo avere alcun valore l’autenticazione notarile dello stesso, privo di pubblica fede; nel ritenere priva di rilievo la mancata annotazione del nome di P.S., quale avente causa dalla socia originaria, sui certificati azionari, atteso che solo con essa si perfeziona il trasferimento, e non solo con l’annotazione sul libro dei soci, a norma dell’art. 2022 c.c..

4.1. Esso si rivela infondato, sotto entrambi i descritti profili.

4.2. Infatti, con riguardo alla certificazione notarile di conformità della copia del libro soci all’originale, l’art. 2719 c.c., dispone che le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta: onde il primo requisito è sufficiente a rendere irrilevante il secondo, come correttamente opinato dalla sentenza impugnata.

4.3. Circa il secondo profilo, giova premettere che l’art. 2022 c.c., prevede che “il trasferimento del titolo nominativo si opera mediante l’annotazione del nome dell’acquirente sul titolo e nel registro dell’emittente o col rilascio di un nuovo titolo intestato al nuovo titolare”.

4.3.1. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito, da tempo, con principio da cui non vi è ragione di discostarsi, che, “in tema di azioni di società, le formalità previste dalla prima parte dell’art. 2022 c.c. (cd. trasfert), per cui il trasferimento del titolo nominativo si opera mediante l’annotazione del nome dell’acquirente sul titolo e sul registro dell’emittente, sono necessarie soltanto per l’acquisto della legittimazione all’esercizio dei diritti sociali, mentre per l’acquisto della proprietà del titolo è sufficiente il semplice consenso delle parti legittimamente manifestato, secondo la regola generale di cui all’art. 1376 c.c.; in particolare, l’iscrizione nel libro dei soci è necessaria a dimostrare la qualità di socio anche nel rapporto con la società ed ha, perciò, una funzione meramente certificativa ed esecutiva” (cfr. Cass. n. 9314 del 1995).

4.3.2. Più recentemente, questa Corte ha puntualizzato come persino senza iscrizione nel libro dei soci il soggetto è comunque divenuto titolare delle azioni e la società è tenuta a provvedere agli adempimenti riconnessi al transfert. In particolare, Cass. n. 1588 del 2017 ha statuito che, “nel caso di trasferimento mediante girata (art. 2023 c.c.), il momento traslativo della proprietà delle azioni nominative si produce quando sia stata apposta sul titolo la girata piena, mentre il cd. tra nsfert (ossia l’annotazione del nominativo del nuovo socio nel registro dell’emittente ex art. 2022 c.c.) attiene alla fase esecutiva e certificativa del trasferimento, incidendo soltanto sulla legittimazione del nuovo socio: il quale, pertanto, pur non potendo esercitare alcun diritto sino a quando non si sia provveduto a tale ultima formalità, è pur sempre titolare del diritto di proprietà sul titolo; ne consegue che, quando vi sia stato il trasferimento della partecipazione, la società è tenuta a provvedere agli adempimenti riconnessi al transfert e non può addurre la mala fede del possessore del titolo per rifiutarvi di procedervi senza che sia stato privato di effetti il trasferimento, mediante il positivo esercizio delle azioni a ciò destinate”. In altri termini, l’adempimento delle formalità prescritte dall’art. 2022 c.c., comma 1, cd. transfert, non costituisce condizione di perfezionamento dell’acquisto o di produzione dell’effetto reale traslativo della proprietà del titolo, ma attiene alla fase esecutiva, certificativa e pubblicitaria del trasferimento, incidendo soltanto sulla legittimazione del nuovo socio, il quale, dunque, è pur sempre titolare del diritto di proprietà sul titolo (cfr. Cass. n. 17088 del 2008), benchè non possa esercitare alcun diritto – salvo quello di partecipare alle assemblee con le modalità previste dalla L. 29 dicembre 1962, n. 1745, art. 4 – fino a quando non si sia provveduto alle predette formalità. Per tale trasferimento, poi, non vi è necessità di redazione del cd. fissato bollato, imposta per ragioni fiscali inerenti alla conclusione dei contratti di borsa, e neppure avente una funzione surrogatoria o complementare rispetto all’esecuzione del transfert, ma solo di documentazione che attesti una cessione meramente consensuale (cfr. Cass. n. 14794 del 2008, secondo cui, nel trasferimento di azioni nominative di società, l’annotazione del nome dell’acquirente sul titolo e sul registro dell’emittente – cd. transfert – sono formalità necessarie soltanto per il passaggio della legittimazione all’esercizio dei diritti sociali, riguardando la fase esecutiva, certificativa e pubblicitaria, in funzione dell’opponibilità del negozio alla società stessa; mentre, per l’effetto reale traslativo, è sufficiente il semplice accordo delle parti, validamente raggiunto, secondo il principio generale consensualistico).

4.3.3. Pertanto, in tema di azioni di società, il compimento delle formalità previste dalla legge (artt. 2021-2023 c.c.: cd. transfert), – e tra esse l’iscrizione nel libro dei soci – come necessarie per l’esercizio dei diritti sociali, non è affidato ad un potere discrezionale della società stessa, la quale, invece, è tenuta a dare corso ai relativi adempimenti una volta verificata la conformità a diritto del trasferimento dei titoli (cfr. Cass. n. 13106 del 2004).

4.4.4. Applicandosi, quindi, i riportati principi alla odierna fattispecie, ne consegue che, in sostanza, le azioni de quibus furono trasferite a P.S. col mero consenso, secondo un accordo che fu anche trascritto sul libro dei soci, come accertato dalla Corte d’appello.

5.In conclusione: i) il ricorso principale di D.P.M., quale rappresentante della I.O. S.P.A., deve essere dichiarato inammissibile, potendosi interamente compensare tra le parti le corrispondenti spese di questo giudizio di legittimità; per il resto, il medesimo ricorso, in quanto proposto da D.P.M. in proprio e da P.A., deve essere accolto, nei soli limiti di cui si è detto, quanto ai suoi primi due motivi, dichiarandosene assorbito il terzo; deve essere respinto, invece, il ricorso incidentale condizionato della M.I.s.r.l..

5.1. Conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, in diversa composizione, per il nuovo esame, la quale si atterrà al seguente principio di diritto:

“E’ inesistente la Delibera assembleare di società di capitali assunta con la sola partecipazione di soggetti privi della qualità di socio della stessa”.

5.2. Il giudice di rinvio provvederà anche alla regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

5.3. Deve darsi atto, infine, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte di D.P.M., nella indicata qualità di rappresentante della I.O. S.P.A., e della M.I.s.r.l., di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto, rispettivamente, per il ricorso principale del primo e quello incidentale condizionato della seconda, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale di D.P.M., quale amministratore della I.O. S.P.A., compensando interamente tra le parti le corrispondenti spese di questo giudizio di legittimità.

Accoglie, per il resto, il medesimo ricorso, nei soli limiti di cui in motivazione, quanto ai suoi primi due motivi, dichiarandone assorbito il terzo.

Rigetta il ricorso incidentale condizionato della M.I.s.r.l..

Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa alla Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, in diversa composizione, per il nuovo esame. Al menzionato giudice di rinvio è rimessa pure la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di D.P.M., nella indicata qualità di rappresentante della I.O. S.P.A., e della M.I.s.r.l., di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto, rispettivamente, per il ricorso principale del primo e quello incidentale condizionato della seconda, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2021

[1] Diversamente, in tema di mancato accertamento della inesistenza della delibera, si veda Cass. Civ. n. 16390 del 24 luglio 2007 (con nota di Genco R., Inesistenza della deliberazione assembleare e requisiti minimali per la valutazione della validità, in Le Società, 5, 2008, pp. 572-578). La Suprema Corte ha ritenuto non sussistente la figura dell’inesistenza nel caso di mancata votazione sulla proposta di deliberazione avanzata dal socio in sede di assemblea per l’approvazione del bilancio ai sensi dell’art. 2393, comma secondo, c.c.; detta proposta non era stata presa in considerazione dal presidente della riunione e, per l’effetto, non veniva disposta alcuna votazione in proposito. In un caso siffatto, considerata la mancanza materiale di una decisione, la Suprema Corte si era pronunciata nel senso che l’assenza di una votazione sulla proposta non consentiva di configurare alcuna ipotesi di inesistenza.

[2] Per un orientamento critico in tema di eccessivo ricorso alla categoria dell’inesistenza si veda: Ferri G., Sulle deliberazioni cosiddette inesistenti, in Riv. dir. comm., I, 1967, pp. 391 ss.; Chiappetta F., (Annullabilità delle deliberazioni), in Assemblea, Picciau A. (a cura di ) – Commentario alla riforma delle società, Marchetti P. – Bianchi L.A. – Ghezzi F. – Notari M. (diretto da), Egea, 2008, pp. 259-293; Galgano F. – Genghini R., Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, 2008, pp. 203-249, a cui si rimanda per più ampi riferimenti giurisprudenziali; Zanarone G., L’invalidità delle deliberazioni assembleari, in Trattato delle Società per azioni, Colombo G.E. – Portale G.B. (diretto da), 3, Utet, 1993, pp. 187-258, per il quale, con riferimento a quell’orientamento giurisprudenziale, tendente a riconoscere l’inesistenza in caso di vizi della delibera formatesi durante l’iter procedimentale di assunzione, appare “davvero sconfortante” (cit. p. 198) il panorama giurisprudenziale che tende a definire come inesistente (e non annullabile) una delibera assunta in mancanza di elementi costitutivi della fattispecie a formazione progressiva, così da interrompere il procedimento legale necessario alla formazione della volontà sociale.

[3] Sul punto, la Corte ricorda come alcuni arresti anteriori alla riforma del 2003 avevano dichiarato l’inesistenza delle delibere per omessa convocazione dei soci (cfr. Cass. n. 9364 del 2003; Cass. n. 1186 del 2001), per mancata adunanza (Cass. n. 835 del 1995), per effetto dello svolgimento dell’assemblea in luogo diverso da quello di convocazione (Cass. n. 403 del 1993), in caso di deliberazione adottata con la partecipazione di soggetti non aventi diritto di voto (Cass. n. 233 del 1967), per mancata verbalizzazione delle operazioni assembleari (Cass. n. 11601 del 1990; n. 6340 del 1981). In tema di inesistenza della delibera adottata con la partecipazione di un soggetto non munito della procura scritta, si veda Cass. n. 6340 del 1981; quest’ultimo arresto criticato da Galgano F. – Genghini R.,  Trattato di diritto commerciale, cit., p. 235 (nota n. 46). Per un’ampia critica al ricorso alla figura della inesistenza per vizi procedimentali, si veda Zanarone G., L’invalidità delle deliberazioni assembleari, cit., p. 198.

[4] Per Guerrieri G., Art. 2377: Annullabilità delle deliberazioni, in Il Nuovo Diritto delle Società (Maffei Alberti A., a cura di), I, Cedam, 2005, pp. 513-567, la riforma avrebbe drasticamente ridotto la possibilità di ricondurre i vizi della delibera alla categoria della inesistenza.

[5] Centonze M., Inesistenza delle delibere assembleari e nuovo diritto societario (commento a Tribunale di Milano, Sez. VIII, 1 aprile 2008), in Le Società, 9, 2008, pp. 1130-1137. In particolare, vale osservare come il caso commentato dall’Autore – per certi versi analogo a quello della sentenza in commento – si riferiva ad una delibera adottata con il voto del solo soggetto che riteneva di essere titolare di una percentuale pari al 94,6% delle capitale sociale. Anche se il Tribunale ne aveva dichiarato l’inesistenza, l’Autore afferma che “il ricorso al rimedio atipico della inesistenza si rileva ultroneo […] indice di un retaggio culturale che spinge quasi meccanicamente a rifugiarsi nella inesistenza, non appena la decisione concreta presenti un’anomalia di particolare gravità” (cit. p. 1134). Una deliberazione così assunta non ricadrebbe nella categoria della inesistenza, bensì in quella della “parvenza” – elemento necessario e sufficiente, ad avviso dell’Autore, affinché una delibera possa dirsi esistente – in quanto almeno esteriormente risulterebbe provenire dalla maggioranza del capitale sociale, indipendentemente, dunque, dalla qualità soggettiva del soggetto che ha assunto una siffatta decisione. Pertanto, ai fini della qualificazione di una delibera come esistente, per l’Autore sarebbe sufficiente valutare che la medesima risulti (all’esterno) provenire dalla maggioranza prevista dalla legge o dallo statuto. Così, nel caso deciso dal Tribunale meneghino, vi sarebbe stata inesistenza soltanto nel caso in cui il soggetto qualificatosi come titolare del 94,6% del capitale, si fosse dichiarato titolare di una partecipazione inferiore al quorum deliberativo richiesto dalla legge o dallo statuto, integrando così l’ipotesi della decisione assunta dichiaratamente dalla minoranza.

Niccolò Tamburini

Niccolò si è laureato in Giurisprudenza ad ottobre 2019 con il massimo dei voti all'Università degli Studi di Firenze, discutendo una tesi in Diritto Fallimentare.  Da maggio 2020 collabora con l'area di Diritto Commerciale della rivista Ius In Itinere.

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