Diritti umani ed emergenza sanitaria: la CEDU ai tempi del Covid-19
Il 30 aprile 2020 si è tenuto il primo webinar organizzato da Ius in Itinere su “Diritti umani ed emergenza sanitaria: la CEDU ai tempi del Covid-19” con il giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, dott. Raffaele Sabato, il prof. Andrea Saccucci ed il prof. Emanuele Sommario. Nel corso del webinar i relatori hanno affrontato il tema della compatibilità delle misure restrittive poste in essere dagli Stati membri del Consiglio d’Europa durante l’emergenza con i diritti garantiti dalla CEDU. I panelists hanno discusso della necessità o meno di invocare la clausola di deroga generale prevista dall’art. 15 CEDU ed altresì dei potenziali meccanismi idonei a supervisionare in via “extra-giudiziale” le misure adottate in regime di deroga. Di seguito, le sintesi degli interventi[1].
Dott. Raffaele Sabato
La Corte europea dei diritti dell’uomo (in seguito anche “la Corte”) ha iniziato a subire, così come le istituzioni degli Stati membri, gli effetti delle misure restrittive dovute alla crisi pandemica; a tal proposito ha emanato tre comunicati: 94(2020), 103(2020), 108(2020). Con il primo comunicato sono stati sospesi in via eccezionalissima i termini: sia quello convenzionale di sei mesi per la proposizione dei ricorsi alla Corte, che quelli procedimentali assegnati dalla Corte per il compimento di determinate attività. La prima sospensione ha avuto durata di un mese; poi si è avuta un’ulteriore sospensione della durata di due mesi. I termini ricominceranno auspicabilmente a decorrere (salvo ulteriori sospensioni) dal 15 giugno. Non è invece sospeso il termine dell’art. 43 CEDU per le richieste di rinvio alla Grande Camera. Dal 16 marzo l’attività della Corte è proseguita in maniera “regolare” per quanto riguarda le richieste di misure provvisorie ad interim ex art. 39 del Regolamento della Corte, le quali si sono registrate con riguardo anche all’attuale emergenza. Proseguono le decisioni dei giudici singoli che, però, non possono essere notificate. Le comunicazioni dei nuovi ricorsi agli Stati sono anch’esse sostanzialmente sospese, eccetto le comunicazioni urgenti. Continuano alcune deliberazioni: le meno complesse sono adottate in forma per lo più scritta, mentre quelle che non possono essere assunte con procedura scritta e/o con uno strumento di videoconferenza sono rinviate. Sono stati emanati provvedimenti innovativi anche dal punto di vista delle firme, consistentemente limitate. Nei limiti del possibile, si sono effettuate le notifiche delle sentenze e delle decisioni alle parti e ai Governi usufruendo del sistema elettronico della Corte. Anche l’attività dell’organo multilaterale di garanzia dei diritti dell’uomo in Europa, quindi, subisce la crisi. Vi è però l’opportunità di sviluppare nuovi strumenti di giustizia elettronica. La Corte ha fatto piccoli investimenti e qualche innovazione normativa a tal proposito. La e-justice, per ora, ha riguardato unicamente l’attività “interna” della Corte.
Su un altro fronte, invece, molti Stati hanno fatto ricorso allo strumento di dichiarazione dello stato di emergenza pubblica sancito dall’art. 15 CEDU, previsto anche in alcune carte costituzionali nazionali. Marta Cartabia ha rimarcato come la Costituzione italiana non possieda una vera e propria norma emergenziale, a differenza della Costituzione della Repubblica di Weimar, della Costituzione francese e di quella spagnola. La Convenzione ha sviluppato questa norma perché alla fine anni ’40 era in preparazione quello che poi sarebbe diventato, a metà degli anni ’60, il Patto internazionale sui diritti civili e politici. Invero, né la bozza del Movimento Europeo né la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo prevedevano deroghe a diritti fondamentali in epoca di emergenza. L’art. 3 della bozza del Movimento Europeo conteneva una clausola secondo la quale i diritti erano soggetti soltanto alle limitazioni previste dai principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili, prescritte dalla legge e finalizzate alla protezione dei diritti altrui oppure a tutelare l’ordine pubblico e il benessere generale. Nel 1949 il relatore francese avanzò una proposta che introduceva i concetti di ordine pubblico, sicurezza e il concetto di “necessario in una società democratica” – concetto che ebbe, successivamente, molta fortuna. Sulla clausola che sarebbe poi diventata l’art. 15 CEDU intervenne Lodovico Benvenuti, delegato italiano,, affermando sostanzialmente che “gli Stati violatori, ove introducessimo una norma del genere, invocheranno sempre questa clausola e a ciò siamo stati abituati negli ultimi 20 anni”.
Una disposizione simile all’art. 15 CEDU è rinvenibile negli Standards minimi di Parigi sui diritti umani nello stato di emergenza (The Paris Minimum Standards of Human Rights Norms in a State of Emergency). In tali Standards viene data una definizione del concetto di “emergenza pubblica”: essa deve riguardare l’intera popolazione o l’intera popolazione di una regione (la giurisprudenza della Corte, come vedremo, si orienta diversamente); deve essere dichiarata dal potere esecutivo e confermata dal potere legislativo nel periodo più breve possibile; non deve eccedere un tempo prestabilito dalla Costituzione del paese di cui si tratta, e sono infine possibili rinnovi per lo stesso tempo prefissato. La Commissione di diritto internazionale pone quindi non pochi paletti: il termine fisso deve essere previsto anticipatamente con possibilità di proroga, l’organo legislativo non può perdere legittimazione sino a quando, cessata l’emergenza, non vengano indette nuove elezioni e vi è un ripristino automatico dei diritti senza necessità di dichiarazione di ripristino non appena lo stato di emergenza cessi.
L’art. 15 CEDU è una norma inserita al termine delle grandi dichiarazioni sui diritti, riguardante il caso di deroga in stato di emergenza o di guerra. La disposizione presenta tre commi che individuano tre grandi categorie: i) i casi in cui è possibile la deroga (casi che non sono specificati con riferimento a singole fattispecie); ii) i limiti alla deroga e norme non derogabili; iii) i profili procedurali (ossia il modo in cui gli stati possono procedere alla dichiarazione di deroga).
Il comma 1 statuisce che “In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale”. Questa norma, discendente dalla bozza già menzionata, lascia spazio ad alcune questioni. Qual è la posizione della deroga rispetto ai limiti impliciti ai vari diritti della Convenzione? Ogni norma della Convenzione prevede i cd. secondi/terzi commi che introducono limiti alla fruizione dei diritti, eccezionali e di stretta interpretazione. Qual è il rapporto tra quel tipo di limitazioni e la deroga? Anzitutto va fatto presente che, nell’esame dei casi, la Corte valuta prioritariamente se sussista violazione dei limiti interni. Poi, solo se in assenza della deroga risultasse sussistente una violazione, la Corte passa all’esame circa la legittimità della dichiarazione di deroga. Inoltre, la Corte ha affermato di non esaminare la situazione di deroga qualora non allegata dalle parti: in pratica, se le parti decidono anche solo proceduralmente di non dedurre sulla deroga, si procede ad esaminare il diritto nella sua essenzialità, valutando esclusivamente la sussistenza (o meno) di una violazione (ad esempio, Khlebik c. Ucraina).
La deroga è, oltre che limitata, controllata dalla Corte tramite i criteri usuali. Dal recente dibattito di San Pietroburgo è emerso come il sindacato che la Corte sarà chiamata ad espletare circa la crisi di questi giorni dovrà tener conto – ove in futuro sia eccepito l’avvalimento della deroga – dello scopo legittimo della misura, della proporzionalità nell’ambito di tale scopo, della necessità dell’interferenza in una società democratica, del limite di temporaneità insito nella nozione di emergenza ed, infine, della ricerca di un giusto equilibrio tra diritti individuali e le esigenze di tutela del valore tutelato (che, in questo caso, afferisce alla pubblica sanità). Il pericolo deve essere imminente, anche se non si richiede che l’imminenza porti a dover subire il pericolo temuto. Si può ben ritenere che l’emergenza sanitaria in atto sia andata oltre l’imminenza: i paesi che hanno dichiarato l’emergenza lo hanno fatto quando il pericolo era già in corso. È poi possibile che la situazione di emergenza riguardi solo una parte del territorio dello Stato (ci sono però casi in cui si ipotizza che l’emergenza possa riguardare anche un’eventuale applicazione extraterritoriale della Convenzione, si veda il caso Hasan c. Regno Unito).
La Corte non si sostituisce allo Stato nel valutare la natura dell’emergenza, ma lascia un ampio margine di apprezzamento, che viene però controllato nel suo esercizio. Ad esempio, la Corte verifica se sia possibile il controllo giudiziale rispetto alle limitazioni dei diritti e quale sia la valutazione degli organi giudiziari interni sull’argomento. Inoltre, ha riguardo alla durata dell’emergenza e verifica se all’attenuarsi dello stato di eccezionalità corrisponda un attenuarsi delle deroghe in atto o se lo Stato informi il Segretario Generale di aver “abbassato la guardia”. La Corte controlla altresì se la procedura per la limitazione dei diritti sia stata prevista dalla legge e se le limitazioni siano teleologicamente collegate alla natura dell’emergenza (si veda Sahin c. Turchia).
Nel secondo comma dell’art. 15 CEDU, ai diritti non derogabili tutelati dalla Convenzione (tra i quali il diritto alla vita, con contro-eccezione del caso di guerra, divieto di schiavitù, divieto di tortura e principio nullum crimen, nulla poena sine lege), si aggiungono alcune norme che si trovano nei protocolli, in cui ugualmente è sancita l’impossibilità di deroga anche nelle situazioni di pericolo pubblico, in particolare i Protocolli n. 6 e n. 13 alla CEDU in relazione alla pena di morte, e l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU relativo al principio ne bis in idem.
Il terzo comma dell’art. 15 CEDU, invece, disciplina i requisiti di notifica, riproducendo in parte il dibattito che ha animato i lavori preparatori. Il Segretario Generale va tenuto informato “sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate”. Esso va informato all’inizio, ma anche con continuità (è infatti usata l’espressione “tiene informato”). Deve essergli comunicata la data in cui le misure cessano di essere in vigore e la data in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione.
Nell’elenco dei paesi che hanno fatto dichiarazione ex art 15 CEDU per la situazione di emergenza sanitaria non rientra l’Italia, inizialmente duramente colpita dal COVID. È invece compresa l’Albania, che ha fatto dichiarazione relativamente anche ai diritti che intende derogare. A questo punto, sorge il dubbio sull’obbligatorietà di un’indicazione tassativa dei diritti soggetti a deroga. La Francia, nel caso Charlie Hebdo, non ha dichiarato un elenco in tal senso ed è stata conseguentemente criticata da alcuni autori giuridici. L’Albania, nel caso di specie vi ha invece provveduto, indicando gli artt. 8-11 CEDU, gli artt. 1-2 del Protocollo n. 1 alla CEDU, e l’art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU. Tra gli altri Stati che hanno proceduto a una dichiarazione ai sensi dell’art. 15 CEDU rientrano inoltre Armenia, Estonia (la quale ha inserito, tra gli articoli soggetti a deroga, gli artt. 5-6-8-11 CEDU, gli artt. 1-2 del Protocollo n. 1 alla CEDU e l’art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU), Georgia, Moldavia, Romania (che ha trasmesso lunghi provvedimenti, tra i quali rientrano anche ordinanze militari), Serbia e, infine, San Marino (la quale Repubblica ha optato per una dichiarazione sui generis, notificando i decreti adottati senza specificare troppo volontà di derogare per altri versi ex art. 15 CEDU).
Prof. Andrea Saccucci
Io cercherò di sviluppare alcune delle considerazioni già fatte dal giudice Sabato e alcune riflessioni concernenti il ricorso allo strumento della deroga di cui all’art. 15 CDU. Per quanto riguarda l’impatto dell’emergenza sanitaria sulla Corte europea, il giudice Sabato ci ha già illustrato le misure “eccezionali” adottate dalla Corte stessa, anche alla luce delle misure di contenimento varate dal Governo francese. Certamente importante, nell’ottica dell’effettività del ricorso individuale, è la proroga di ben tre mesi del termine ordinario di sei mesi stabilito dall’art. 35 CEDU. A questo riguardo, segnalo che dopo un’iniziale incertezza in ordine alla effettiva portata di questa misura, la Corte ha precisato, tramite comunicati stampa, che questa proroga significa estensione – in termini tecnici, una vera e propria “sospensione” – dei termini; il che implica che i tre mesi aggiuntivi si recupereranno per tutti i ricorsi che verranno in scadenza non soltanto nel periodo della sospensione, ma anche successivamente. Per quanto riguarda la sua operatività, la Corte, come ci ha riferito il giudice Sabato, si è attrezzata “in via telematica”; mentre, sul piano del funzionamento, essa continua ad operare sulle misure cautelari e su casi ritenuti urgenti, per cui non sono state sospese le comunicazioni ai Governi. A questo proposito, è chiaro che la politica di priorità non è stata elaborata in funzione dell’emergenza. C’è chi ha suggerito che tale politica dovrebbe essere rivista per garantire una corsia preferenziale ai casi riguardanti le misure restrittive sui diritti convenzionali adottate o le conseguenze prodotte dall’emergenza sanitaria; altri invece ritengono non consigliabile un’alterazione della politica di priorità.
Ciò detto, vorrei concentrarmi sull’impatto dell’emergenza sulla Convenzione. Il tema centrale è quello delle deroghe o, meglio, delle limitazioni adottate in questi mesi dagli Stati europei e se esse debbano essere classificate come restrizioni a regime ordinario oppure restrizioni a carattere eccezionale che richiederebbero l’attivazione dello specifico meccanismo delineato dall’art. 15 CEDU. Vorrei, anzitutto, fare una premessa. Siamo di fronte ad una crisi sanitaria senza precedenti, una situazione di emergenza che ha delle differenze rispetto agli stati di eccezione con i quali ci siamo confrontati nei decenni passati. Si tratta, per la prima volta, di una situazione di emergenza globale, che interessa trasversalmente e con un’intensità analoga tutti gli Stati parte della Convenzione europea. È una situazione di emergenza abbastanza unica nel suo genere perché è ad ampio spettro, colpisce tutti i paesi ed incide su tutta la popolazione e non su specifiche categorie di soggetti (forse l’unica situazione in una qualche misura assibilabile a quella presente potrebbe essere la minaccia terroristica post-11 settembre, che ha posto tutti gli Stati nelle condizioni di adottare delle misure straordinarie, anche se in tal caso era assai dubbia l’esistenza di una minaccia globale concreta ed imminente per la sopravvivenza delle nazioni). Certamente ci sono differenze anche rispetto ad altre situazioni di emergenza, come in particolare le crisi economico-finanziarie che hanno portato al collasso dei sistemi economici di alcuni Stati. Perché la specificità della situazione di emergenza sanitaria può avere rilevanza? Perché oggi si discute molto sulla necessità o meno, o sulla stessa opportunità o meno, di attivare il meccanismo delle deroghe. Fino ad oggi, solo dieci Stati hanno utilizzato questo strumento e nove su dieci appartengono all’Europea centro-orientale, e provengono quindi da una tradizione diversa dai Paesi occidentali di radicata tradizione democratica. Ci si chiede, dunque, se questi Stati abbiano agito correttamente nell’invocare la deroga, se lo abbiano fatto a titolo puramente precauzionale oppure se sia stato del tutto superfluo e come mai tanti altri Stati non abbiano sentito la necessità di formulare una deroga.
Gli argomenti che vengono utilizzati per valutare la necessità di una deroga ruotano essenzialmente attorno alla possibilità di giustificare le restrizioni “eccezionali” ai sensi delle disposizioni “ordinarie” della Convenzione, ovverosia ai sensi di quelle clausole limitative che possiamo ritrovare in modo esplicito o implicito nelle singole disposizioni. A mio avviso, prima di rispondere a questo interrogativo, bisogna chiedersi quale sia la funzione della deroga. In primo luogo, si può dire che abbia una funzione procedurale rilevante nell’ambito dei singoli casi portati in esame dinanzi alla Corte, in cui quest’ultima è chiamata a stabilire se lo Stato sia o meno responsabile per una violazione dei suoi obblighi ai sensi della Convenzione. Se il tema della deroga non viene posto dalle parti, come ci ha ricordato il giudice Sabato, la Corte non lo prende neppure in considerazione. Se allegato, è normalmente il Governo convenuto a portare il tema dinanzi alla Corte per utilizzare la deroga come un argomento supplementare a propria “difesa”, per giustificare una certa misura quand’anche essa fosse ritenuta non legittima in base alle clausole ordinarie. Ma, a mio avviso, la funzione della deroga non si risolve solo in questo aspetto; essa svolge altresì, su un piano più generale, una funzione costituzionale di sistema, cioè una funzione che è rilevante ai fini della complessiva tenuta del sistema di protezione dei diritti fondamentali e di salvaguardia dell’ordine pubblico europeo. La deroga è il marcatore che distingue una situazione “ordinaria” (in cui i diritti possono subire limitazioni) ed una situazione “eccezionale” (in cui i diritti possono essere sospesi). Una distinzione questa che non è soltanto teorica, ma che pone anche questioni di ordine pratico idonee da incidere sull’applicazione e sull’interpretazione delle disposizioni convenzionali.
È vero che alcune delle misure restrittive (forse non tutte) imposte in questo periodo di emergenza potrebbero essere giustificate alla luce delle clausole ordinarie di limitazione contenute nella Convenzione. A questo proposito, lasciando da parte i diritti inderogabili, è possibile individuare tre categorie di diritti soggetti a limitazioni: i diritti c.d. qualificati (in particolare, quelli previsti dagli artt. 8-11 CEDU), i diritti a limitazioni tipiche (come, ad esempio, l’art. 5 CEDU) ed i diritti a limitazioni implicite (come, ad esempio, l’art. 6 CEDU). Rispetto a questa eterogenea categoria di diritti comunque “limitabili”, l’impatto della situazione di emergenza può essere significativo anzitutto sul piano dell’interpretazione. Lo dico anche facendo tesoro delle esperienze del passato, con riferimento in particolare alla giurisprudenza formatasi sulle misure emergenziali adottate in vari Paesi che ha inciso sull’interpretazione dei diritti convenzionali; ma non tanto sui limiti, quanto sulla portata dei diritti stessi. Non vi è dubbio che l’esistenza di una situazione di emergenza, se trattata nell’alveo ordinario e quindi al di fuori delle deroghe, possa portare a una modulazione dell’interpretazione delle norme convenzionali più elastica, più flessibile, anche in senso riduttivo. Faccio un esempio in merito all’art. 5 § 1 lett. e) – a prescindere dalla questione, pregiudiziale, se esso sia o meno invocabile rispetto alle limitazioni della libertà di movimento imposte nel quadro dell’emergenza sanitaria. Tale disposizione prevede una specifica limitazione della libertà personale nel caso in cui ciò sia necessario per prevenire la diffusione del contagio di una malattia infettiva. Su questa limitazione, la giurisprudenza è carente; si può ricordare il caso Enhorn c. Svezia, che è però un precedente abbastanza isolato. Non c’è quindi molto materiale per definire l’esatta portata della disposizione nel caso di pandemie infettive globali. Si pone in particolare un dubbio interpretativo, ovverosia se la misura in questione, in una situazione di pandemia come quella in corso, riguardi qualunque soggetto indipendentemente dalle sue condizioni personali oppure soltanto il soggetto contagiato o che si sospetti essere effettivamente contagiato, e quindi potenzialmente veicolo della diffusione del virus. Sono due letture diverse ed il dato testuale della Convenzione non ci aiuta; infatti, ho notato una discrasia nelle due versioni ufficiali della Convenzione, cioè la versione francese e la versione inglese. La versione inglese utilizza la formula “the lawful detention of persons for the prevention of the spreading of infectious diseases” mentre la versione francese, cui si ispira poi la traduzione italiana, parla della detenzione regolare di una persona “susceptible de propager une maladie contagieuse”, riferendosi quindi al singolo individuo in grado di trasmettere la malattia contagiosa. Quale debba essere la lettura di questa norma, quella più restrittiva (suggerita dalla versione francese) o quella più ampia (suggerita dalla versione inglese), è un tema che resta aperto e sul quale la Corte potrebbe essere chiamata a pronunciarsi proprio in relazione alle misure limitative adottate in questo periodo. In questo contesto, il ricorso allo strumento della deroga avrebbe il pregio di “isolare” gli effetti “interpretativi” della pronuncia della Corte alla situazione di emergenza, lasciando intatta la portata (in ipotesi, più ampia) delle garanzie convenzionali a regime ordinario. Già in passato, rispetto alle crisi economico-finanziarie, certe interpretazioni sono state condizionate dalla “eccezionalità” della situazione economica, ma essendo stati espressi a regime ordinario, quegli orientamenti interpretativi sono diventati patrimonio dell’interpretazione delle norme convenzionali, pertanto estendibili anche al di fuori delle situazioni particolari.
Inoltre, vi è un secondo piano di esame della questione, in quanto la mancanza di una deroga potrebbe incidere sull’applicazione dei criteri cui sono subordinate le limitazioni ordinarie. È stato ricordato che normalmente la Corte valuta la legalità della misura, lo scopo legittimo e la proporzionalità. Anche questi requisiti possono essere apprezzati in modo diverso a seconda che si versi in una situazione ordinaria – benché caratterizzata dalla sussistenza di uno scopo legittimo per la restrizione – rispetto, invece, al caso in cui si versi in una situazione emergenziale per la quale è stata adottata una deroga. Non convince l’argomento secondo cui tutte le limitazioni adottate in questo periodo potrebbero essere giustificate in base al test di proporzionalità, anche per i c.d. diritti qualificati, perché la stessa proporzionalità non ha una dimensione applicativa statica ed unica. La proporzionalità a regime ordinario differisce dalla proporzionalità a regime di deroga, ed anche il modo in cui viene concretamente effettuata la valutazione di bilanciamento è diversa nei due casi. Non dimentichiamo, tra l’altro, che nel regime ordinario la Corte sottolinea sempre che la misura restrittiva non può “annientare” il nucleo essenziale del diritto in gioco, e quindi la restrizione non può superare un certo limite, oltre il quale neppure la proporzionalità è utilizzabile come giustificazione. Lo stesso discorso può valere anche per il test di legalità, perché, seppur sia vero che la legalità viene valutata dalla Corte attraverso standard uniformi, è altresì vero che il requisito della “previsione di legge” nella Convenzione non equivale alla nostra riserva di legge. La legge di cui parla la Convenzione è, in realtà, qualsiasi atto normativo e quindi, nella nostra situazione, un DPCM sarebbe a tutti gli effetti una base legale sufficiente alla stregua del criterio di legalità convenzionale. Inoltre, il test di legalità impone anche dei requisiti qualitativi tra cui il requisito della prevedibilità, che a regime ordinario potrebbe non superare il vaglio della Corte.
In conclusione, a me sembra che abbiano ben fatto alcuni Stati ad optare per la deroga, mentre la scelta di non derogare adottata da altri Stati pone delle perplessità. Perplessità anche legate al rischio di perdere quella fondamentale linea di demarcazione tra stato di emergenza e stato di normalità, alla quale è anche legata la disponibilità della collettività ad accettare le limitazioni. Il ricorso alle deroghe serve, in qualche modo, a segnare il passaggio da una situazione in cui le libertà sono sospese (per far fronte ad una situazione straordinaria di contenimento bio-sanitario) ad una situazione in cui le libertà sono ripristinate, ferma restando la possibilità per lo Stato di adottare delle restrizioni secondo il regime ordinario delle limitazioni (per assicurare il contenimento nel medio-lungo periodo della diffusione del contagio).
Prof. Emanuele Sommario
In una situazione di emergenza come quella attuale, la disciplina dei diritti umani mostra una certa flessibilità: ciò è segno di debolezza o, piuttosto, dimostra come la tutela dei diritti umani sia in grado di adattarsi a contesti di crisi? Ed esistono dei meccanismi per supervisionare l’attività degli Stati? Per rispondere a questa domanda, è necessario analizzare due profili.
Il primo riguarda la necessità – o meno – del ricorso alla clausola di deroga prevista dall’art. 15 CEDU: perché, in una situazione di emergenza che coinvolge tutti gli Stati del continente, soltanto alcuni (una minoranza) hanno deciso di fare ricorso a detta clausola, mentre altri hanno deciso di non farlo, applicando comunque misure restrittive della libertà personali molto simili? Conseguentemente, il secondo profilo attiene all’esistenza di meccanismi di monitoraggio del contegno degli Stati da parte degli organi del Consiglio d’Europa in situazioni di emergenza.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la decisione di notificare la deroga viene adottata dall’esecutivo di ogni paese sulla base dei pareri dei ministeri competenti (ad esempio, il Ministero della Giustizia o degli Interni); si presume, quindi, che le autorità nazionali abbiano effettuato una valutazione al termine della quale si sia giunti alla conclusione secondo cui le misure di limitazione ordinarie fossero palesemente inadeguate a gestire la situazione di emergenza. Uso il termine “palesemente inadeguate” riprendendo proprio il linguaggio utilizzato dalla Commissione europea che, nel 1969, pronunciandosi su un caso che interessava la Grecia, cercando di delineare le caratteristiche di una situazione di “pericolo pubblico eccezionale”, affermò come il requisito dell’eccezionalità sussista quando le misure normalmente permesse dalla Convenzione per la tutela di ordine, salute e sicurezza pubblica siano palesemente inadeguate allo scopo. Dunque, si presume che i paesi che hanno deciso di attivare la clausola di deroga abbiano ritenuto le limitazioni imponibili in via ordinaria chiaramente insufficienti a far fronte alla situazione di grave crisi mentre, per converso, si presume che i paesi che hanno deciso di non ricorrere alla deroga ritengano che le clausole di limitazione ordinarie permettano di mettere in atto misure molto restrittive pur nel rispetto dei parametri della CEDU. Sarà poi la Corte, quando verrà investita di ricorsi per asserite violazioni, a decidere sulla compatibilità delle misure di limitazione con la tutela dei diritti fondamentali, a doversi esprimere sulla necessità e sulla proporzionalità delle misure adottate dagli Stati. Ovviamente, gli Stati che hanno deciso di attivare le clausole di deroga potranno godere di un ampio margine di apprezzamento e avranno dunque minori difficoltà a provare proporzionalità e necessità delle misure adottate in deroga. Ci si potrebbe tuttavia domandare se la Corte non applicherebbe medesimo ampio margine di apprezzamento (o, comunque, più ampio di quello che applicherebbe normalmente) per limitazioni ordinarie adottate in situazioni eccezionali.
Sul punto, la Corte si è dimostrata pronta a garantire un surplus di elasticità. Si pensi al caso della crisi economica in Grecia, ricordata in precedenza dal prof. Saccucci: pronunciandosi su un caso relativo ad alcuni dipendenti pubblici che avevano subito un taglio dello stipendio, la Corte affermò come determinate limitazioni straordinarie alla tutela dei diritti fondamentali (in questo caso, il diritto di proprietà ex art. 1 al Protocollo n. 1 alla CEDU) fossero giustificate a fronte di una crisi eccezionale e senza precedenti. In simili casi, la Corte è sembrata molto disponibile a “fare un passo indietro” e a concedere maggior spazio agli Stati, anche se molto dipende dalle modalità applicative delle misure limitative della libertà personale, dalla loro durata e dalla possibilità di una loro periodica revisione, dalle sanzioni previste per la loro violazione, dalla natura della limitazione e così via.
Siamo comunque di fronte ad un caso unico, con provvedimenti che limitano tanti diritti fondamentali nei confronti di tante persone – essendo applicati nei confronti di tutta la popolazione. È lecito domandarsi se questa differenza “quantitativa” potrebbe, in via teorica, “dare una mano” ai ricorrenti, spingendo la Corte a decretare la necessità della deroga per introdurre misure tanto straordinarie.
Vi è poi un’altra ipotesi. Ritengo infatti che alcuni paesi abbiano attualmente deciso di derogare “in via prudenziale”: in altre parole, gli Stati, sussistendo anche solo un rischio di violazione dei diritti convenzionali, hanno deciso, comunque, di derogare. A conferma di ciò, alcune delle notifiche inviate alla Corte usano il condizionale, affermando, ad esempio, che le limitazioni messe in atto “potrebbero comportare una violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione”.
La risposta della Corte in caso di violazioni è comunque molto lenta, sia che si tratti di ricorsi individuali ex art. 34 CEDU, sia che venga proposto un ricorso interstatale (ex art. 33 CEDU, ipotesi che ritengo comunque abbastanza improbabile), persino nel caso in cui venga richiesta l’adozione di misure provvisorie per evitare un rischio imminente di danno irreparabile (possibilità, questa, prevista dall’art. 39 CEDU). La Corte potrebbe anche intervenire emettendo pareri consultivi ai sensi dell’art. 47 CEDU o del nuovo Protocollo n. 16, ma ritengo anche queste vie poco percorribili. L’intervento della Corte è comunque molto lento (è ancora pendente un caso relativo alla deroga dell’Armenia, esercitata nel 2008).
Come si può, nel mentre, comunque monitorare la condotta degli Stati? Vi sono diverse opzioni, la cui efficacia è comunque variabile. Nell’ambito del Consiglio d’Europa ci sono alcuni organi di competenza tecnica che potrebbero intervenire in casi simili (e che si differenziano da organi essenzialmente politici, come l’Assemblea).
Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa (responsabile della pianificazione delle strategie del Consiglio d’Europa e delle sue attività) potrebbe agire per controllare la condotta degli Stati, in quanto depositario della Convenzione, la quale gli fornisce delle prerogative in questo senso. In primo luogo, ai sensi dello stesso art. 15 § 3, CEDU il Segretario deve essere informato “sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate” nonché circa la “data in cui queste misure cessano d’essere in vigore e in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione”. L’art. 52 CEDU, in seconda battuta, concede al Segretario la facoltà di richiedere agli Stati parte spiegazioni sulle modalità con cui il diritto interno – e, dunque, i provvedimenti adottati – garantisca il rispetto delle previsioni convenzionali e la tutela dei diritti fondamentali. Tale facoltà è stata esplicitamente citata anche dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, che in una risoluzione del 2018 si è pronunciata con delle raccomandazioni rivolte ai paesi in cronico stato di emergenza, quali Francia, Turchia e Ucraina. In caso di ricorso all’Art. 52, sugli Stati membri graverebbe dunque l’obbligo di spiegare in maniera esaustiva la compatibilità del diritto interno con la tutela dei diritti convenzionali. Il Segretario, in base alla condotta tenuta dalle autorità nazionali, potrà instaurare un dialogo con lo Stato o, in caso contrario, deferire la questione al Comitato dei Ministri o all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Ritengo però che, in simili situazioni, il Segretario, da organo terzo, rischi di adottare delle posizioni ufficiali rispetto all’interpretazione della Convenzione – compito che è invece di competenza esclusiva della Corte – con il rischio di interpretazioni difformi. In ogni caso, l’Ufficio del Segretario ha già adottato delle Linee guida per il rispetto dei diritti umani nel corso della pandemia – una summa dei principi già affermati in materia di deroga, con particolare attenzione per la tutela dei gruppi più vulnerabili.
In alternativa, è anche possibile sollecitare l’intervento del Commissario europeo dei diritti umani (ruolo in questo momento ricoperto dall’attivista bosniaca Dunja Mijatović), il cui mandato è quello di promuovere il rispetto dei diritti dell’uomo negli Stati membri del Consiglio agendo con imparzialità e indipendenza. In queste ultime settimane, il Commissario ha messo in atto una serie di progetti di sensibilizzazione e appelli per categorie “a rischio” (rom, migranti, disabili), che però hanno avuto una eco limitata.
Vi è poi un’ultima possibilità che consiste nell’intervento della Commissione per la democrazia attraverso il diritto, nota come Commissione di Venezia. Si tratta di un organo consultivo appartenente al Consiglio d’Europa e composto da esperti indipendenti (tra cui anche Marta Cartabia, presidente della nostra Corte Costituzionale) chiamati a fornire consulenza e opinioni in materia di rispetto dei diritti umani, dello stato di diritto e degli standard democratici ad organizzazioni e singoli Stati membri. La Commissione ha prodotto diversi rapporti, linee guida, pareri e opinioni, a scopo informativo, in materia di stato di emergenza ed aderenza alla tutela dei diritti fondamentali; alcuni membri hanno già dichiarato la propria disponibilità alla preparazione di opinioni ad hoc. Nonostante la sua notevole expertise, l’effettiva incidenza delle opinioni della Commissione è comunque limitata.
[1] Trascrizioni a cura di Claudia Cantone, Silvia Casu e Fabio Tumminello