Diritto all’oblio: deindicizzare per non censurare. Commento all’ord. Cass. Civ. Sez. I, n. 9147 del 19/05/2020
Diritto all’oblio: deindicizzare per non censurare. Commento all’ord. Cass. Civ. Sez. I, n. 9147 del 19/05/2020
a cura di Davide Costa
Con la pronuncia in oggetto la Suprema Corte interviene nuovamente nel tracciare i limiti entro i quali il c.d. “diritto all’oblio” (right to be forgotten o Recht auf Vergessenwerden) [1] debba essere subordinato al diritto/dovere di cronaca e di informazione, andando ad arricchire di importanti contenuti il dibattito intorno alla problematica della conciliabilità tra diritto alla riservatezza e interesse pubblico alla conoscenza di informazioni contenute negli archivi digitali dei giornali on-line, con particolare riferimento alla questione della c.d. “deindicizzazione” della notizia da parte dei motori di ricerca attraverso l’eliminazione del link di raccordo verso la pagina web contenente tali archivi.
L’ordinanza della I Sezione Civile si inserisce, pertanto, nel solco tracciato dalla nota sentenza della Corte di Giustizia Google Spain e Google inc. vs. Agencia Española de Protección de Datos (AEPD) e Mario Costeja González del 13 maggio 2014 [2], di cui meglio si dirà infra, e dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 19681 del 22/07/2019, con la quale il Supremo Collegio ha riscontrato la questione rimessa dalla III Sezione avente ad oggetto “l’individuazione, con univoci criteri di riferimento, dei presupposti “in presenza dei quali un soggetto ha diritto di chiedere che una notizia, a sè relativa, pur legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione” nella precisazione dei termini del contrapposto “interesse pubblico a che vicende personali siano oggetto di (ri)pubblicazione, facendo così recedere il diritto all’oblio”. [3]
La vicenda trae spunto dal ricorso proposto dalla società di editoria Donlisander Communication S.r.l.s. avverso la sentenza con cui il Tribunale di Pescara, nel 2017, aveva imposto alla stessa la cancellazione dall’archivio digitale del giornale on-line di sua proprietà di una notizia riguardante un patteggiamento di pena da parte di un soggetto coinvolto in reati quali frode in pubbliche forniture, sostituzione di persona e falso in atto pubblico commesso da privato, il quale lamentava il fatto che, digitando il proprio nome su Google ed altri motori di ricerca, il link a lui riferito compariva per primo.
Con quattro motivi di ricorso, la società editrice lamentava la violazione e falsa applicazione delle disposizioni del d.lgs. 196/2003 (codice privacy) e del Regolamento UE 679/2016 (GDPR) attinenti al trattamento riservato ai dati personali nell’esercizio della professione giornalistica e nel rispetto del corrispondente codice deontologico.
In particolare, tra le norme specificatamente richiamate dal ricorrente è opportuno segnalare quelle di cui agli artt. 99, 136, 137 e 139 del codice privacy e all’art. 17 par. 3 lett. A) del GDPR.
Quest’ultimo prevede, infatti, la limitazione del diritto alla cancellazione dei dati personali nella misura in cui il trattamento sia necessario ai fini dell’esercizio del diritto d’informazione.
La disposizione comunitaria è integrata dai suddetti articoli del codice: nel dettaglio l’art. 137 del Codice privacy specifica che, con riferimento a quanto previsto dall’articolo 136, possono essere trattati i dati di cui agli articoli 9 e 10 del GDPR (dati sensibili e relativi a condanne penali e reati) anche senza il consenso dell’interessato, purché nel rispetto delle regole deontologiche di cui all’articolo 139.
Per contro, l’art. 99, in deroga al principio di limitazione della conservazione (“storage limitation”) di cui all’art. 5 GDPR, consente che il trattamento di dati personali a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici può essere effettuato anche oltre il periodo di tempo necessario per conseguire i diversi scopi per i quali i dati sono stati in precedenza raccolti o trattati.
Le osservazioni del ricorrente muovevano da una serie di assunti secondo i quali il “diritto all’oblio” del soggetto i cui dati erano conservati nell’archivio digitale avrebbe dovuto cedere il passo al diritto di cronaca e all’interesse pubblico ad una completa informazione.
In primo luogo, l’impugnazione evidenziava la perdurante attualità della notizia di cronaca, che delegittimava la pretesa dell’interessato ad essere dimenticato dall’opinione pubblica a distanza di solo un anno e sei mesi dalla vicenda giudiziaria che lo aveva coinvolto.
In seconda istanza, veniva posta l’attenzione sulla circostanza che l’art. 12 del Codice deontologico prevede che il trattamento dati relativi a procedimenti penali non subisce limiti qualora venga effettuato a fini storici attraverso la conservazione dell’archivio giornalistico on-line, pacificamente equiparabile a quello cartaceo.
Infine, e qui sta forse il tema centrale affrontato dalla sentenza in commento, la sentenza impugnata avrebbe omesso di valorizzare, quale unico scopo praticabile per la tutela delle pretese dell’interessato, la deindicizzazione della notizia da parte del motore di ricerca, strumento che consentirebbe, infatti, nel rispetto dei principi statuiti dalla CGUE, di conciliare il diritto alla riservatezza e alla cancellazione dei dati con quello di cronaca, senza obbligare un organo d’informazione all’eliminazione di parti dei propri archivi informatizzati.
Dal canto suo, l’interessato coinvolto nel procedimento giudiziario oggetto di pubblicazione sull’archivio on-line del giornale del ricorrente sosteneva, al contrario, che non potesse sussistere un interesse pubblico alla notizia, tanto per il tempo trascorso dalla vicenda quanto per il fatto di non rivestire cariche o qualità idonee a renderlo un personaggio pubblico.
La Suprema Corte, con una trattazione unitaria dei motivi, accoglieva il ricorso della società editrice, non prima, tuttavia, di una ricostruzione storica e giuridica dell’evoluzione del diritto alla riservatezza e del diritto all’oblio di più recente elaborazione.
In relazione al primo, la Corte si soffermava in particolare sul percorso compiuto dalla giurisprudenza di legittimità nell’affermare la rilevanza costituzionale del diritto alla riservatezza, passato da mero “desiderio di riserbo” ad espressione dell’art. 2 della Costituzione, idoneo, pertanto, ad entrare in rapporto dialettico con il diritto di cronaca di cui all’art. 21.
La prevalenza dell’uno o dell’altro dei due valori costituzionali dovrà pertanto fondarsi su un adeguato giudizio di bilanciamento e sorretto da criteri di proporzionalità, con affermazione del diritto di cronaca qualora allo stesso di accompagni il rispetto dei limiti del pubblico interesse, della verità dei fatti narrati e della continenza dell’esposizione.
La centralità di un corretto bilanciamento tra i due diritti, come osservato dalla Corte, è andata enfatizzandosi con l’avvento delle nuove tecnologie della società dell’informazione, con specifico riferimento alla raccolta organizzata dei dati personali.
Invero, con l’introduzione del codice privacy, si è reso ancor più impellente garantire che la gestione di dati personali da parte di privati o di enti pubblici avvenga nel rispetto delle libertà fondamentali della persona. Tale finalità ha consentito l’affermarsi di una visione del diritto alla riservatezza declinato nella sfera della tutela dei dati personali, operante anche al di fuori della mera vita privata, a garanzia dell’autodeterminazione decisionale dell’individuo e, soprattutto, al potere di controllo sulla circolazione e sula disponibilità pubblica dei dati che lo riguardano.
Muovendo nell’analisi del diritto all’oblio, originariamente inteso come “right to be let alone”, la Corte precisa che esso si tratta di manifestazione del diritto alla riservatezza, di cui condivide la comune matrice di diritto della personalità, e si realizza anch’esso nel generale diritto di escludere l’ingerenza di un’estranea conoscibilità e pubblicità della sfera dell’intimità propria della persona [4].
Invero, così come il diritto alla riservatezza in senso stretto, anche quello alla cancellazione dei propri dati da archivi accessibili al pubblico impone un giudizio di bilanciamento con l’esercizio del diritto di cronaca in relazione al caso concreto, anche in considerazione dello sviluppo tecnologico e della capacità delle nuove tecniche di veicolazione della notizia [5].
Tuttavia, sottolineano i Giudici di Piazza Cavour, l’elemento di discrimine tra il diritto all’oblio ed il diritto alla riservatezza risiede nel fattore temporale.
Il diritto ad essere dimenticati, infatti, non è di per sé funzionale a prevenire la divulgazione di dati e notizie riservati, bensì ad impedire che tali dati e notizie, ancorché legittimamente pubblicati, possano rimanere sine die a disposizione della collettività, con potenziale pregiudizio alla reputazione dell’interessato a causa della continua “rievocabilità” di passate vicende che lo interessarono.
Tale concetto consente, pertanto, di delimitare la misura entro la quale il diritto all’oblio deve prevalere sull’interesse pubblico all’informazione proprio nel perdurare di siffatto interesse all’acquisizione dei dati resi disponibili a tutti, cosicchè il right to be forgotten dovrà in ogni caso avere la precedenza laddove la notizia relativa a fatti commessi in passato non fornisca più una rappresentazione idonea dell’interessato nel presente.
In questi termini, la Corte enuclea il primo importante principio di diritto desumibile dalla sentenza in esame, ossia che “il diritto all’oblio non trova soddisfazione nell’attualizzazione della notizia del passato rispettosa dell’attuale identità dell’individuo, altrimenti falsata dalla mera riproposizione della prima, quanto nel porre nel dimenticatoio situazioni che, rese pubbliche nel passato, ove riproposte al pubblico deformerebbero i caratteri dell’individuo”.
Muovendo oltre, la sentenza si sofferma sul profilo, di indubbia rilevanza, del diritto all’oblio in relazione allo sviluppo di tecnologie digitali e network globali: la facilità con la quale in tali ambiti è possibile accedere ad informazioni relative ad un individuo, in un margine tale da consentire la definizione della sua identità personale, ha, infatti, imposto la previsione di nuovi limiti e poteri in capo all’interessato per controllare, ed eventualmente bloccare, tali forme di accesso.
Una prima fonte di tali poteri è, come facile intuire, il codice privacy stesso, che all’art. 11 – ora abrogato dal d.lgs. 101/2018 [6] – prevedeva espressamente che la conservazione dei dati trattati dovesse effettuarsi in una forma tale da consentire l’identificazione dell’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati (c. 1 lett. E)).
La norma, posta a fondamento del diritto all’oblio dal Garante della Privacy [7], veniva poi integrata dall’art. 7 del codice, che riconosceva il diritto dell’interessato di ingerirsi nel trattamento dei propri dati personali chiedendone la cancellazione, la trasformazione, il blocco o l’aggiornamento.
Le due disposizioni sono state ad oggi interamente assorbite dal citato art. 17 del GDPR, che ha inoltre introdotto un espresso riferimento al diritto all’oblio, concretizzando in tal modo le indicazioni contenute nei Considerando 65 e 66 [8]
Pertanto, in forza di esplicita previsione del comma I lett. A) della norma del Regolamento, in attuazione del principio di “purpose limitation”, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo – il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali, – se i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati.
Malgrado le facoltà rimesse all’interessato dall’art. 17 del GDPR, tuttavia, la Corte sottolinea come la stessa disposizione comunitaria determini l’esclusione della tutela laddove il diritto all’oblio venga in comparazione con il trattamento dei dati dovuto all’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione, nonché da motivi di archiviazione nel pubblico interesse (v. art. 17 c. III).
Alla luce dell’accezione del diritto all’oblio fornita dal GDPR, pertanto, il fattore tempo non sarebbe destinato a rilevare in relazione al periodo intercorrente tra la pubblicazione dell’informazione e le sue successive ripubblicazioni, bensì in relazione al periodo di permanenza della notizia nello spazio virtuale del web, il quale, se lasciato trascorrere senza rimedi, costituirebbe di per sé lesione di interessi quali la riservatezza e la reputazione del soggetto coinvolto qualora la propria identità attuale non corrisponda più a quella riportata nella notizia [9]. Tale è la concezione del diritto all’oblio che la Corte, nel caso in esame, ha ritenuto di fare propria.
Concluso l’approfondimento preliminare sul valore e le accezioni del diritto all’oblio nell’ordinamento italiano ed europeo, la Corte si concentra sull’analisi del caso di specie, al fine di effettuare il bilanciamento tra i diritti in gioco nei termini sopra illustrati.
Con una prima analisi, i giudici di legittimità si concentravano sulla compatibilità tra l’archiviazione delle notizie per finalità storica e l’iniziale raccolta a scopi giornalistici, nonché sulla circostanza se l’attività di raccolta così compiuta rispondesse ad interessi pubblici.
La risposta data dalla Corte è positiva. Invero, l’attività di conservazione e archiviazione delle passate edizioni dei giornali assume rilievo costituzionale sia in quanto strumentale alla ricerca storica ed espressione del relativo diritto ex art. 33 Cost., sia in quanto espressione della libertà di manifestazione del pensiero ex art 21 Cost.
In considerazione di ciò, e si delinea qui il secondo principio di rilievo statuito dall’Ordinanza in commento, la persona protagonista della notizia – nei limiti in cui essa corrisponda a verità -non potrà ottenerne l’eliminazione dall’archivio di un giornale, sia esso cartaceo o on-line [10], invocando il diritto ad essere dimenticata.
Tuttavia, in anticipazione del terzo e più importante principio elaborato dalla Corte, il protagonista della notizia archiviata non è del tutto disarmato dinanzi alla conservazione di quest’ultima sul web.
Non potendo procedersi alla rimozione “fisica” dell’archivio digitale, il rimedio, in questo caso, dev’essere ricercato non tanto nella mera permanenza in rete della notizia, bensì nelle modalità con cui questa avviene.
Sotto questo profilo, la lamentela sollevata originariamente dal soggetto coinvolto nella cronaca della propria vicenda giudiziaria dev’essere riletta non come una richiesta di cancellazione della notizia dall’archivio, quanto come una pretesa a limitare l’accesso generalizzato ed indistinto a tale notizia consentito agli utenti di internet in seguito alla digitalizzazione del nominativo dell’interessato sulla query del motore di ricerca.
In questo senso, diventa dunque fondamentale ritornare al concetto di indicizzazione, mediante la quale il search engine include nel proprio database i contenuti di un sito web, che viene così tradotto all’interno del motore di ricerca stesso.
Muovendo da tale premessa, l’osservazione della giurisprudenza comunitaria in materia di dati personali diventa essenziale per fornire all’individuo idonei strumenti di tutela del diritto all’oblio in un sistema nel quale l’informazione va smaterializzandosi sempre di più e si rende accessibile alla conoscibilità del pubblico grazie all’innovazione digitale.
Viene richiamata in particolare, e non potrebbe essere altrimenti, la già citata sentenza della Corte di Giustizia risolutiva della controversia Corneja c. Google Spain SL e Google Inc. del 13 maggio 2014, con la quale la Corte di Lussemburgo ha individuato nell’Internet Service Provider gestore del motore di ricerca il responsabile del trattamento dei dati personali nell’ambito delle sue competenze, e pertanto chiamato, rispetto dell’attività di indicizzazione – e non già di pubblicazione dei contenuti – a garantire l’osservanza delle prescrizioni della direttiva in materia di tutela e libera circolazione dei dati delle persone fisiche 95/46/CE.
Nel contesto di tale attività di deindicizzazione, la Corte di Giustizia perveniva alla conclusione per la quale gli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della menzionata direttiva 95/46 devono essere interpretati nel senso che, al fine di rispettare i diritti previsti da tali disposizioni, e sempre che le condizioni da queste fissate siano effettivamente soddisfatte, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona i link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita.
Tale principio è indubbiamente centrale nell’ambito della tutela dei dati personali, dal momento che sancisce espressamente il diritto alla deindicizzazione.
Quest’ultimo, deve precisarsi, è tuttavia destinato a soccombere laddove per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto dall’interessato nella vita pubblica, l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali può essere giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi.
La sentenza emessa contro il gigante di internet non è tuttavia la sola con la quale la giurisprudenza comunitaria si è occupata di deindicizzazione e diritto all’oblio.
Invero, sottolinea la Cassazione, proprio in materia di dati relativi a condanne penali è intervenuta la recente sentenza della Grande Camera nella causa C-136/17 [11] nella causa proposta da privati francesi contro la Commission nationale de l’informatique et des libertés, e nella quale la Corte di Lussemburgo ha avuto modo di precisare che, in caso di richiesta di deindicizzazione relativa a un link verso pagine web riguardanti condanne di natura penale risalenti nel tempo, il gestore del motore di ricerca dovrà risistemare l’elenco dei risultati in modo che, per gli utenti di internet emerga al primo posto la situazione giudiziaria attuale.
Riprendendo le conclusioni dei giudici europei, la Cassazione conclude facendo proprie le statuizioni della Corte di Giustizia circa l’individuazione l’equilibrio tra il diritto all’oblio e la libertà di espressione nei seguenti obblighi in capo al motore di ricerca:
- il gestore del motore di ricerca è obbligato ad intervenire sull’elenco delle informazioni indicizzate provvedendo ad eliminare il link di raccordo verso pagine web dell’archivio online che riportino informazioni sulla persona il cui nome sia stato digitato sulla query del motore di ricerca e “ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sè lecita”
- il gestore del motore di ricerca è obbligato ad intervenire sull’elenco delle informazioni indicizzate, attualizzando la notizia relativa a vicenda giudiziaria penale dell’interessato facendo figurare per primi i link verso pagine web contenenti informazioni attuali sulla situazione dell’interessato.
Tornando al caso affrontato dalla Corte, i giudici di legittimità hanno ritenuto applicabile il primo di tali obblighi, in assenza di esigenze di “attualizzazione” della notizia di cronaca, pervenendo così al terzo dei principi di diritto estrapolabili dall’ordinanza: In materia di diritto all’oblio là dove il suo titolare lamenti la presenza sul web di una informazione che lo riguardi – appartenente al passato e che egli voglia tenere per sè a tutela della sua identità e riservatezza – e la sua riemersione senza limiti di tempo all’esito della consultazione di un motore di ricerca avviata tramite la digitazione sulla relativa query del proprio nome e cognome, la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, e può trovare soddisfazione, fermo il carattere lecito della prima pubblicazione, nella deindicizzazione dell’articolo sui motori di ricerca generali, o in quelli predisposti dall’editore”.
In ossequio alla suddetta massime, la Corte disponeva pertanto l’accoglimento del ricorso e cassava la sentenza del Tribunale di Pescara proprio per l’omessa valutazione, da parte del giudice a quo nel proprio giudizio di bilanciamento tra diritti, della possibilità di applicare la misura della deindicizzazione della notizia dai motori di ricerca quale rimedio sufficiente in luogo della cancellazione della notizia dall’archivio on-line dell’editore.
In conclusione, appare indubbia la portata dell’ordinanza poc’anzi esaminata nel difficile processo di bilanciamento tra il diritto all’oblio e il diritto all’informazione e alla libertà d’espressione, che non potrà più prescindere, anche in considerazione dell’ormai consolidata giurisprudenza comunitaria, dalla previa valutazione riguardo all’idoneità della deindicizzazione delle notizie dai siti web al fine di prevenire che l’immagine degli interessati sia danneggiata dalla permanenza, oltre ragionevoli limiti di tempo, di notizie non più attinenti alla loro storia personale attuale.
Come in ogni altro campo della tutela dei dati personali e della sicurezza informatica, anche per il diritto all’oblio sembra pertanto ormai tracciata la strada verso una sempre maggiore responsabilizzazione del search engine e del gestore dei servizi internet a vantaggio dei singoli utenti del web, siano essi coloro che pubblicano le notizie o i protagonisti di esse.
[1] Sul tema del diritto all’oblio si rinvia amplius a Cavallari G., Il diritto all’oblio alla luce del recente Regolamento 679/2016, in Ius in Itinere, 10/06/2019, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/il-dirittoalloblio-alla-luce-del-recente-regolamento-2016-679-20574
[2] V. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:62012CJ0131&from=IT
[3] Cfr. Cass. Civ. Sez. III, n. 28084 del 05/11/2018.
[4] Tale definizione viene altresì fornita da Finocchiaro G., Il diritto all’oblio nel quadro dei diritti della personalità in Diritto dell’informazione e dell’informatica, Giuffrè Editore, 4-5/2014
[5] Cfr. Cass. Civ n. 759 del 27/03/2020
[6] Trattasi del decreto legislativo per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonche’ alla libera circolazione di tali dati e che ha contestualmente abrogato la direttiva 95/46/CE
[7] V. Autorità Garante per la Protezione dei Dati personali – Attività giornalistica – Privacy e televisione: quando si ha il diritto di non ricomparire in tv – 7 luglio 2005 [1148642]
[8] Ai sensi del Considerando n. 65 al GDPR, un interessato dovrebbe avere il diritto di ottenere la rettifica dei dati personali che la riguardano e il «diritto all’oblio» se la conservazione di tali dati violi il presente regolamento o il diritto dell’Unione o degli Stati membri cui è soggetto il titolare del trattamento. In particolare, l’interessato dovrebbe avere il diritto di chiedere che siano cancellati e non più sottoposti a trattamento i propri dati personali che non siano più necessari per le finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati, quando abbia ritirato il proprio consenso o si sia opposto al trattamento dei dati personali che lo riguardano o quando il trattamento dei suoi dati personali non sia altrimenti conforme al presente regolamento. Tuttavia, dovrebbe essere lecita l’ulteriore conservazione dei dati personali qualora sia necessaria per esercitare il diritto alla libertà di espressione e di informazione, per adempiere un obbligo legale, per eseguire un compito di interesse pubblico o nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento, per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici, ovvero per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Con specifico riferimento al diritto all’oblio nell’ambiente on-line, il Considerando n. 66 evidenzia l’opportunità di estendere il diritto alla cancellazione in modo tale da obbligare il titolare del trattamento che ha pubblicato dati personali ad informare i titolari del trattamento di cancellare qualsiasi link verso tali dati personali, tenendo conto delle misure tecniche e della tecnologia a disposizione del titolare del trattamento.
[9] “Per gli indicati estremi, può ancora discorrersi di un diritto all’oblio che matura però in un contesto diverso ed affinato rispetto alla più classica ed in cui ciò che si paventa, e realizza, è la stretta della persona in una eterna memoria collettiva, per una identità che si ripropone, nel tempo, sempre uguale a se stessa”.
[10] Sul punto, la Corte richiama l’evocativa metafora per cui la cancellazione di una notizia dall’archivio digitale corrisponderebbe all’atto di strappare un vecchio numero di un giornale custodito in un archivio cartaceo.
[11] V. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:62017CJ0136&from=IT