È stupro senza aggravante se la donna aveva bevuto? La criticata sentenza della Cassazione tra anacronismo e giustizia
Non è la prima volta che la magistratura italiana venga travolta da un’onda mediatica fortemente accusatoria e sembra proprio che in questi giorni tutti si siano scagliati contro i giudici quando la Corte di Cassazione, stavolta, con sentenza n. 32462/18, ha deciso che se la vittima di uno stupro ha consumato consapevolmente alcol in eccesso, non può essere contestata l’aggravante di aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche ai colpevoli di violenza sessuale. Ma se è vero che ad una prima lettura quanto detto possa sembrare moralmente inaccettabile e antiquato, nondimeno, leggendo tra le righe delle motivazioni con un occhio più critico e con ragionamento giuridico e spirito ermeneutico emerge una lettura opposta: la Cassazione ha tutelato maggiormente la vittima di stupro. Dunque, sentenza anacronistica o al passo coi tempi?
Occorre cominciare dall’inizio.
Il fatto
L’accaduto riguarda la violenza sessuale avvenuta nel 2009 su una donna da parte di due uomini cinquantenni, i quali erano stati condannati a 3 anni di reclusione per violenza sessuale. In secondo grado poi la condanna veniva confermata, mentre giunta in terzo ed ultimo grado, il capo relativo all’aggravante di “aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche“ veniva discusso, comportando in sede decisoria l’annullamento con rinvio sul punto e la necessità di accertare il presupposto che la ragazza non fosse stata “costretta” all’abuso di alcol avendolo assunto, invece, volontariamente.
Quadro normativo: la violenza sessuale e l’aggravante di “aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche”
Le norme del nostro ordinamento che interessano il caso di specie sono l’art. 609-bis e l’art.609-ter del Codice Penale.
Riguardo il primo, rubricato “violenza sessuale”, occorre sintetizzare alcuni passaggi precedenti l’inquadramento del reato nella sua attuale collocazione non solo codicistica, ma, anche e soprattutto social–ideologica. Soltanto con la legge 15 febbraio 1996, n.66 (“norme contro la violenza sessuale”), infatti, dopo anni di un lunghissimo iter legislativo, l’ordinamento classificò questo reato come crimine contro la persona, e non più delitto contro la moralità pubblica ed il buon costume. [1] Il reato di violenza sessuale, dunque, inserito nella Sezione “Dei delitti contro la libertà personale”, nel titolo “dei delitti contro la persona”, veniva enucleato dall’art. 609–bis c.p. stabilendo che “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. […]” Dal punto di vista dell’elemento oggettivo, nella violenza sessuale si possono delineare due tipi di condotta:
-La violenza per costrizione, che si realizza quando nella condotta si impiegano violenza, minaccia o abuso di autorità;
-La violenza per induzione, in cui “il disvalore della condotta si incentra sull’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, ovvero sull’inganno della vittima che il colpevole ottiene sostituendosi ad altra persona”[2].
Per ciò che concerne la violenza sessuale mediante costrizione, l’elemento fondamentale della fattispecie, quindi, è il dissenso della vittima; secondo la giurisprudenza maggioritaria questo deve perdurare per tutto il corso della violenza ma può anche sopravvenire rispetto ad un rapporto sessuale inizialmente consensuale.[3] Non è ugualmente pacifica l’identificazione del contenuto della violenza: generalmente si tende a farvi rientrare anche forme di violenza morale e di intimidazione psicologica idonei a compromettere la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo. Tuttavia, autorevole dottrina (Fiandaca-Musco) sottolinea l’assenza di un richiamo al mero dissenso o mancanza di consenso, che soprattutto nei casi di abusi sessuali sui minori costituirebbero un elemento in grado di catalizzare maggiormente l’antigiuridicità della condotta.
Riguardo il profilo dell’aggravante che nel caso dello stupro del 2009 era stata inizialmente applicata agli imputati, essa è stata introdotta nell’ordinamento dalla medesima legge del 1996 con l’art. 609 – ter c.p., il quale sancisce che “la pena è della reclusione da sei a dodici anni se i fatti di cui all’articolo 609-bis sono commessi: […] 2) con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa”.
L’articolo 609-ter c.p., quindi, prevede delle circostanze (aggravanti) al verificarsi delle quali la pena prevista in generale per il reato di violenza sessuale è aumentata, e tale era la situazione del caso che ha coinvolto la Suprema Corte in cui i fatti venivano commessi contro la vittima con l’uso di sostanze alcoliche.
La sentenza e le critiche
Nel caso che si sta analizzando finito in una pioggia di critiche, i giudici hanno ritenuto che la circostanza dell’aver assunto sostanze alcoliche in eccesso sia sine dubio escludente l’aumento di pena. Ciò in quanto la vittima aveva bevuto una grande quantità di vino prima dell’atto e lo aveva fatto volontariamente, pertanto, la circostanza non rientrerebbe più tra i presupposti per l’applicazione dell’aumento di pena, bensì al contrario, nell’esclusione della stessa aggravante.
Di seguito, quanto si legge in un passaggio della sentenza: “si deve rilevare che l’assunzione volontaria dell’alcol esclude la sussistenza dell’aggravante, poiché la norma prevede l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti (o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa). L’uso delle sostanze alcoliche deve essere, quindi, necessariamente strumentale alla violenza sessuale, ovvero deve essere il soggetto attivo del reato che usa l’alcol per la violenza, somministrandolo alla vittima; invece l’uso volontario, incide sì, come visto, sulla valutazione del valido consenso, ma non anche sulla sussistenza dell’aggravante”[4].
In semplici parole, i giudici hanno incluso la circostanza dell’assunzione dell’alcol nella valutazione del consenso della vittima all’atto sessuale, (rendendolo superfluo per la valutazione della responsabilità penale nei confronti degli imputati) ma, allo stesso tempo, hanno consacrato nell’articolo 609-ter c.p. l’aggravante per chi, “fa ubriacare” la vittima per poi perpetrare lo stupro.[5]
Orbene, in seguito alla pubblicazione della Sentenza sono spopolati soprattutto sul web numerosissimi articoli che presentavano titoli quali “…stupro, l’Italia fa un passo indietro di decenni”, “Sentenza vergogna”, “La Cassazione: se hai bevuto te la sei cercata”, e così via. È chiaro che la maggioranza di queste testate siano nate in base al tacito principio propagandistico di creare un lecito effetto di stupore ed interesse nel potenziale lettore della notizia, però, è anche vero che tantissimi politici e personaggi di spessore si sono immediatamente schierati contro le motivazioni dei giudici appena esposte. Chi, come la senatrice Pd Daniela Sbrollini oppure Annagrazia Calabria (Forza Italia) si è dichiarato contro la sentenza, ha affermato che non si comprende come sul rispetto delle donne ed in generale di chi subisce atti di violenza “si faccia continuamente un passettino corto avanti e due passi lunghi indietro”.[6] In ogni caso di stupro, secondo i critici, “la fantasia delle sentenze tende sempre ad avere un occhio di riguardo per gli aggressori ed i violenti, mentre la vittima, tanto più se è donna, viene spesso messa nel ruolo di correo.[…]”[7]. Secondo Annagrazia Calabria “è una decisione sconcertante, un passo indietro nella cultura del rispetto e nella punizione di un gesto ignobile e gravissimo quale è lo stupro”.
Ebbene, pare comprensibile che ad una prima lettura della Sentenza da un punto di vista etico morale il quadro giuridico della questione sembra essersi rivoltato contro la vittima piuttosto che contro l’aggressore, permettendogli di evitare un aggravio di pena laddove la vittima abbia effettuato una sua decisione personale (quella di ingerire sostanze) e che per ciò non può certamente giustificare l’approfittarsi del suo stato di alterazione.
Però, per quanto si possa accettare tale parere, molte altre voci, soprattutto di esperti del diritto, hanno attutito l’atteggiamento di disprezzo iniziale nei confronti della statuizione, per introdurre una riflessione più tecnica ed adeguata a sostegno delle ragioni esposte dai giudici. Sembrerebbe, infatti, che la sentenza della terza sezione della Cassazione non abbia per niente supposto una mancanza di responsabilità penale a carico dei due stupratori, anzi, dato che la donna era stata resa indubbiamente più fragile dagli effetti dell’alcol, i due rei hanno potuto compiere più agevolmente lo stupro di gruppo e per ciò sono giustamente stati condannati.
Forti, dunque, le reazioni di coloro che dopo un primo momento di tensione mediatica hanno invitato con molta veemenza giornalisti, politici ed opinione pubblica a leggere con maggior attenzione una sentenza ed a capirla prima di trarre conclusioni spropositate. Dopo alcuni giorni di imperverso dibattito, oggi, per la maggioranza dell’opinione collettiva, l’indignazione nei confronti dei togati della terza sezione ha lasciato il posto ad un più diffuso sentimento di approvazione del testo. La decisione, letta in senso tecnico, deve essere colta proprio come “un’opportunità, preziosa, per mettere in discussione e valutare obiettivamente il sistema del codice penale italiano attualmente in vigore, a cui si è in definitiva attenuta la Suprema Corte nella sua espressione di giudice di legittimità”[8].
Difatti, è da accogliersi l’opinione di chi, come l’Avv. Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna che dal 1994 gestisce i centri anti violenza a Roma, ha affermato che “la legge prevede l’applicazione delle circostanze aggravanti quando è lo stupratore a somministrare l’alcol, quindi in questo caso la Cassazione ha giustamente affermato che essendo stata la donna a fare uso di alcol volontariamente, la stessa è vittima di violenza sessuale ma non può essere applicata l’aggravante”. Secondo l’avvocatessa, sono tante le giovani vittime di abusi sessuali subiti in stato di ubriachezza che si rivolgono ai centri disponibili ad aiutarle e questa sentenza, pur non applicando l’aggravante che era stata inizialmente riconosciuta, offre una tutela specifica alle donne che in ogni caso abbiano subito una violazione del proprio corpo.
La conclusione di quanto anteposto è più semplice del previsto: la Corte di Cassazione ha ancora una volta svolto il suo lavoro, applicando la legge e rispettandone il contenuto. La pronuncia non è per niente sconvolgente ma,anzi, sfogliando il Codice Penale, piuttosto prevedibile e, pertanto, inidonea a sollevare sterili polemiche che oggi sconsideratamente prendono le mosse da questioni di diritto e sfociano in valutazioni critiche improntate sulla moralità comune e sull’etica collettiva, alterandone la validità originaria.
[1]“Non è vero che la sentenza della Cassazione va contro la donna ubriaca vittima di stupro”, Tratto da www.tpi.it. In sostanza, “venuta meno l’anacronistica collocazione del delitto in esame tra quelli volti a tutelare la moralità pubblica e il buon costume, si pone l’accento sulla compressione del diverso e più immediatamente tangibile bene della libertà individuale, riconoscendo autonoma dignità alla capacità di autodeterminazione dei propri comportamenti in ambito sessuale e cioè, in una parola, alla libertà sessuale”. GAROFOLI R., Diritto Penale Parte generale, V ed., Nel diritto Editore.
[2] GAROFOLI R., Diritto Penale Parte generale, V ed., Nel diritto Editore.
[3] Cass. Pen. Sez. III, 11 dicembre 2007, n. 4523.
[4] Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 32462/18; depositata il 16 luglio.
[5] PAUDICE C., “Tutti contro la Cassazione sullo stupro di una donna ubriaca ma non hanno letto la sentenza”, tratto da www.huffingtonpost.it.
[6] “Stupro, Daniela Sbrollini contro la Cassazione: “non possiamo accettare la sentenza”, tratto da www.vicenzapiu.com
[7] Op. Ult. Cit.
[8] “Non è vero che la sentenza della Cassazione va contro la donna ubriaca vittima di stupro”, Tratto da www.tpi.it.
Fonte immagine: www.farodiroma.it
Sono Alessia Di Prisco, classe 1993 e vivo in provincia di Napoli.
Iscritta all’Albo degli Avvocati di Torre Annunziata, esercito la professione collaborando con uno studio legale napoletano.
Dopo la maturità scientifica, nel 2017 mi sono laureata alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli, redigendo una tesi dal titolo “Il dolo eventuale”, con particolare riferimento al caso ThyssenKrupp S.p.A., guidata dal Prof. Vincenzo Maiello.
In seguito, ho conseguito il diploma di specializzazione presso una Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali a Roma, con una dissertazione finale in materia di diritto penale, in relazione ai reati informatici.
Ho svolto il Tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Torre Annunziata affiancando il GIP e scrivo da anni per la rubrica di diritto penale di Ius In Itinere.
Dello stesso progetto sono stata co-fondatrice e mi sono occupata dell’organizzazione di eventi giuridici per Ius In Itinere su tutto il territorio nazionale.