Falsità in autocertificazione e Covid-19
- Premessa
L’attuale situazione pandemica, anche in questa seconda fase, ha spinto il Governo a riutilizzare uno strumento ormai noto e spesso aggiornato divenuto ormai indispensabile per muoversi nel territorio italiano: l’autocertificazione. Come noto attraverso tale dichiarazione un soggetto, a seguito del controllo delle Forze dell’Ordine, attesta che il mancato rispetto delle disposizioni in tema di limitazione della libertà di movimento è dovuta ad una delle ragioni (nemmeno cosi tassativizzate), previste dal potere esecutivo. Nello specifico ai sensi degli artt. 46 e 47 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 ciascun individuo è chiamato a dichiarare: le proprie generalità (tra cui, la propria utenza telefonica); di essere consapevole delle conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.); di non essere sottoposto alla misura della quarantena; di non essere risultato positivo al virus Covid-19; di essersi spostato dal luogo A con destinazione B; di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio adottate; di essere a conoscenza delle limitazioni ulteriori adottate dal Presidente della propria Regione di appartenenza; di essere a conoscenza delle sanzioni previste dall’art. 4 D.L. 25 marzo 2020, n. 19 e dall’art. 2 D.L. 16 maggio 2020, n. 33[1].
Orbene, come del resto era prevedibile, si sono moltiplicati – in maniera endemica – i procedimenti penali sorti per i c.d. reati di falso ex art. 483 e 495 e 483 c.p..
La giurisprudenza, prima di merito e poi di legittimità, è stata quindi chiamata a pronunciarsi con riferimento alla sussistenza di tali delitti dando origine a pronunce e a volte anche contrastanti.
- Sulla falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico.
Il nostro ordinamento prevede e punisce, all’art. 483 c.p., la falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico.
Tale delitto si configura quando una norma giuridica obbliga il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente. Proprio per tale ragione deve escludersi che una scrittura privata o un altro documento originariamente non costituente atto pubblico possa essere considerato tale in virtù del solo suo collegamento funzionale ad un atto amministrativo, per effetto dell’inserimento di esso nella relativa pratica dell’iter consequenziale occorrente per il provvedimento finale. Il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico quindi riguarda solo attestazioni del privato che il pubblico ufficiale ha il dovere di documentare.
Tale ipotesi criminosa presuppone un collegamento tra il privato autore della falsificazione e il pubblico ufficiale il quale abbia raccolto le mendaci attestazioni: il delitto di falsità ideologica in atto pubblico commesso dal privato può dirsi sussistente quando l’atto in cui è stata trasfusa la sua dichiarazione sia destinato a provare la verità dei fatti narrati.
Sul punto si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità[2] la quale ha stabilito che: “In tema di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico, è esclusa la configurabilità del dolo generico quando la dichiarazione ritenuta non veritiera sia contenuta in un modulo prestampato ed attesti soltanto la rispondenza di una data situazione di fatto ad una normativa genericamente indicata senza, però, la precisa indicazione delle condizioni normative e delle circostanze fattuali attestate, in quanto per l’integrazione del delitto è necessaria la coscienza e volontà di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non essendo, invece, sufficiente la mera colposa omissione di indagine sul significato delle indicazioni contenute nel modulo. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto non configurabile il reato per assenza di dolo nel caso del titolare di un opificio che aveva dichiarato, su un modello prestampato, che l’attività da lui svolta era conforme alla normativa vigente in materia di smaltimento dei rifiuti solidi e liquidi, essendosi poi accertato che l’opificio non risultava autorizzato allo scarico in pubblica fognatura)”.
Per quanto attiene all’elemento soggettivo è richiesto il mero dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere il fatto nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico dichiarare il vero. Si tratta di un reato di pura condotta sicché il perfezionamento prescinde dal conseguimento di un eventuale ingiusto profitto. Una parte della dottrina[3] ha specificato che l’art. 483 c.p. richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma – eventualmente di carattere extra-penale – che conferisca attitudine probatoria all’atto in cui confluisce la dichiarazione inveritiera, così dando luogo all’obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità. È necessario, dunque, che esista una norma giuridica che imponga l’obbligo per il privato a dire il vero, ma non è necessario che tale obbligo sia esplicito. L’obbligo di verità infatti può trovare anche un aggancio “implicito” e non necessariamente “esplicito” in una norma di legge.
La Suprema Corte[4] ha ritenuto configurabile il reato di cui all’art. 483 c.p. in assenza di una norma che esplicitasse il dovere di verità in capo al privato in sede di denuncia di smarrimento, ma rinvenendo detto dovere nella previsione normativa di un obbligo di denuncia e nel fatto che detta denuncia funge da presupposto per l’avvio dell’iter amministrativo volto alla formazione e al rilascio del relativo duplicato in favore del denunziante, affermando che “con la dichiarazione di smarrimento si attesta, nell’atto pubblico, il fatto dello smarrimento, che è condizione necessaria per l’ottenimento del duplicato della carta di identità, sicché è consequenziale l’obbligo di dire la verità al pubblico ufficiale e l’atto pubblico, in cui la dichiarazione è trasfusa, “certifica” l’evento denunciato”[5].
Orbene da un’attenta analisi del tenore letterale della disposizione di cui all’art. 483 c.p. nonché della recente giurisprudenza di legittimità, non si può non ritenere che la falsa dichiarazione in sede di autodichiarazione in emergenza Covid-19 possa integrare il reato di cui all’art 483 c.p..
L’attestazione circa la giustificazione che può derogare all’obbligo di restare a casa non può rientrare nella previsione di cui all’art. 46 D.P.R. 445/00, che consente di comprovare con dichiarazioni, anche contestuali all’istanza, sottoscritte dall’interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni, stati, qualità personali e fatti tassativamente indicati, i quali sarebbero, in assenza di autocertificazione, rinvenibili in pubblici registri o comunque sarebbero già di dominio della pubblica amministrazione.
L’attestazione parrebbe rientrare, invece, nell’ambito dell’art. 47 D.P.R. 445/00, che ammette di sostituire l’atto di notorietà con una dichiarazione sostitutiva che abbia ad oggetto, tra gli altri, “fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato” ; oltre che “nei rapporti con la pubblica amministrazione tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’articolo 46 possono essere comprovati dall’interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”(comma 3).
L’art. 47 conferisce, dunque, il potere di “comprovare” i fatti di cui si è a conoscenza con la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà; così facendo l’ordinamento attribuisce efficacia probatoria alla dichiarazione. Il successivo art. 76, per parte sua, assume la generale funzione di obbligare al vero nell’elaborazione dell’autodichiarazione, stabilendo che “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”, in questo modo richiamando il precetto di cui all’art. 483 c.p.[6]. Tuttavia è bene che l’interprete effettui una doverosa distinzione a seconda dei casi concreti. Difatti non tutte le falsità nell’autodichiarazione sono idonee ad integrare il reato di cui all’art. 483 c.p.. Se è vero che l’oggetto del falso può essere unicamente un fatto vero, allora potranno essere attestati solo fatti già compiuti. Qualora sia falsa tale attestazione il reato in parola sarà configurabile; si potrà perseguire, se falsa, l’attestazione di un fatto che si è già realizzato nella realtà fenomenica.
Diverso è dichiarare l’intenzione di compiere un fatto non ancora realizzato nella sua completezza.
La dichiarazione, in questi casi ultimi, ha per oggetto una mera intenzione e conseguentemente rientra in quegli arresti giurisprudenziali che non ammettono di ritenere configurata la fattispecie delittuosa, in quanto a essere attestato è un mero intento, un proposito che, in quanto tale sfugge all’oggetto della falsità penalmente rilevante.
Insomma sarà necessario distinguere le dichiarazioni mendaci rese in ordine agli elementi identificativi rilevanti ai sensi dell’art. 495 c.p., dalle dichiarazioni rese in ordine ai fatti già compiuti, rilevanti con riguardo all’art. 483 c.p.. ed infine alle dichiarazioni inveritiere riguardanti le intenzioni (e, quindi, tutte quelle che concernono le “destinazioni” dei propri spostamenti) che, in quanto future ed incompiute, non possono rappresentare “fatti” su cui fondare la punizione per il reato di falso in parola.
Orbene, l’interprete dovrà attentamente verificare, alla luce della lettura congiunta e coordinata delle due sezioni e soppesando sapientemente le parole utilizzate, se il privato abbia dichiarato un fatto o piuttosto un’intenzione: nel primo caso, il dichiarante potrà essere tacciato di falsità; nel secondo la condotta pare sfuggire alle maglie della punibilità, in ossequio alla giurisprudenza su richiamata.
Alcuni autori[7] affermano poi che risulterà complessa la strada verso il riconoscimento della punibilità̀ di chi, sprovvisto dell’autodichiarazione ed interrogato dal pubblico ufficiale sui motivi della propria presenza in strada, renda dichiarazioni false che il p.u. recepisca a verbale.
Difatti i giudici di legittimità[8] hanno più volte chiarito che il reato di cui all’art. 483 c.p. non si configura quando in un controllo stradale il privato renda dichiarazioni mendaci al p.u. “posto che il verbale della polizia, contenente le dichiarazioni del privato, non è destinato ad attestare la verità dei fatti dichiarati ed il reato in questione è ravvisabile quando l’atto pubblico, nel quale sia trasfusa la dichiarazione del privato, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati”.
Ecco dunque che il cittadino, che deve essere sempre informato sulle modifiche legislative introdotte nonché su quelle vigenti, può incorrere in sanzioni penali particolarmente incisive qualora – con coscienza e volontà – decida di rendere delle dichiarazioni falsi e mendace in moda da poter liberamente trasgredire ai divieti e alla limitazioni della libertà di movimento costituzionalmente tutelata.
Sussistono, invero e ad una attenta ed accurata analisi, in questo caotico e intricato labirinto di norme e regolamenti delle problematiche inerenti al principio di tipicità, che è posto alla base e fondamento delle norme penali.
- Una pronuncia innovativa dal Tribunale di Milano
Una pronuncia interessante con riferimento ai reati di falso, ed in particolare all’art. 483 c.p., è arrivata recentemente dal Tribunale di Milano – sezione del Giudice per le Indagini Preliminari. In breve, il Pubblico Ministero titolare chiedeva l’emissione del decreto penale di condanna nei confronti dell’imputato per il reato di cui all’art. 76 D.P.R. 445/20 in relazione all’art. 483 c.p. in quanto lo stesso avrebbe dichiarato il falso alle Forze dell’Ordine in relazione al motivo e all’orario dei suoi spostamenti. Il giudicante ha tuttavia escluso che tale dichiarazione mendace integri il reato di cui all’art. 483 c.p.. La locuzione “fatti” contenuta nell’art. 483 c.p. concerne solamente quelli di cui l’atto è destinato a provare la verità. Definizione che viene richiamata dagli artt. 46 e 47 D.P.R. 445/00 che, in sintesi, consentono al privato di sostituire l’atto di notorietà con l’autocertificazione mediante la quale attestare la veridicità dei fatti. Ed in tal senso la giurisprudenza[9] di legittimità è intervenuta, con una pronuncia un po’ risalente sul punto, evidenziando come non rientrano nelle ipotesi di cui all’art. 483 c.p. le mere manifestazione di volontà, propositi ovvero intenzioni.
Analizzando anche il dato letterale della norma non si può non giungere alla medesima conclusione.
Il “fatto” è in re ipsa riferibile a qualcosa che si è già manifestato nella realtà esteriore e quindi che è suscettibile di valutazione e accertamento, mentre l’intenzione necessita di una valutazione ex post. Da un punto di vista prettamente teleologico la ratio della norma è quella di incriminare la condotta del privato che rende una falsa dichiarazione al p.u. e che quindi inficia l’attitudine probatoria della dichiarazione. Conseguentemente si deve ritenere che qualora il privato renda una falsa dichiarazione con riferimento ad una situazione passata, già concretamente venuta ad esistenza, risulterà integrato il reato di cui all’art. 483 c.p.; al contrario la mera attestazione di un’intenzione – sia essa di recarsi in un luogo ovvero effettuare una determinata attività – non rientra nella definizione di fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. In conclusione quindi, la mera dichiarazione di intenti in autocertificazione non assume rilevanza ai sensi dell’art. 483 c.p. che concerne solamente i fatti già accaduti suscettibili quindi di valutazione e controllo e nemmeno ai sensi dell’art. 495 c.p. in quanto estranea al novero delle dichiarazioni previste dalla norma. L’intenzione non può essere sottoposta al vaglio del giudice penale in quanto in contrasto con il c.d. principio di materialità di cui all’art. 25 Cost. non potendo essere oggetto di una valutazione ex post da parte dei soggetti deputati ai controlli ed alle valutazioni del caso.
Il GIP di Milano, in poche pagine, ha emanato una pronuncia destinata, nei limiti della valenza di una sentenza di merito a fare scuola.
Infatti, a seguito dell’obbligatorietà delle autocertificazioni necessarie per gli spostamenti durante la quarantena o nei giorni in cui la libertà di movimento viene limitata, i procedimenti penali in ordine ai reati di falso, specialmente i delitti di cui agli art. 483 e 495 c.p., hanno subito un notevole incremento.
Non rari poi sono i casi del tutto assimilabili a quello oggetto del giudizio avanti al Tribunale ambrosiano che quindi potrebbe essersi posto come precursore di un orientamento giurisprudenziale che, interpretando in maniera letterale il dato normativo e la ratio sottesa alla volontà punitiva, mira ad evitare che il cittadino venga sottoposto ad un processo e ad una – almeno ipoteticamente – sanzione penale per una mera intenzione o per fatti che ancora non trovano riscontro e valutazione nella realtà esteriore.
Fonte immagine: www.interno.gov.it
[1] NIZZA V., NIZZA D., Emergenza sanitaria: le autodichiarazioni e i reati di falso, in IlPenalista, 03.04.20.
[2] Cass.pen., sez. V, 19.12.19, n. 2496
[3] CORBETTA S., Falsità commessa dal privato in atto pubblico (nota Cass. pen. Sez. V, 14 dicembre 2010, n. 3681), in Dir. pen. e proc., 3, p. 295.
[4] Cass.pen., sez. V, 17.09.18, n. 48884
[5] LOMBARDI F., Op. cit.
[6] NIZZA V., NIZZA D., Op. cit.
[7] LOMBARDI F., Op. cit.
[8] Cass.pen., sez. V, 19.01.16, n. 9195.
[9] Cass.pen., sez. III, 12.10.82, n. 10.
Dopo il diploma presso il liceo classico Cavanis di Venezia ha conseguito la laurea in Giurisprudenza (Laurea Magistrale a Ciclo Unico), presso l’Università degli Studi di Verona nell’anno accademico 2016-2017, con una tesi dal titolo “Profili attuali del contrasto al fenomeno della corruzione e responsabilità degli enti” (Relatore Chia.mo Prof. Avv. Lorenzo Picotti), riguardante la tematica della corruzione e il caso del Mose di Venezia.
Durante l’ultimo anno universitario ha effettuato uno stage di 180 ore presso l’Ufficio Antimafia della Prefettura UTG di Venezia (Dirigente affidatario Dott. N. Manno), partecipando altresì a svariate conferenze, seminari e incontri di studi in materia giuridica.
Dal 30 ottobre 2017 ha svolto la pratica forense presso lo Studio dell’Avv. Antonio Franchini, del Foro di Venezia. Da gennaio a luglio 2020 ha ricoperto il ruolo di assistente volontario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia (coordinatore Dott. F. Fiorentin) dove approfondisce le tematiche legate all’esecuzione della pena e alla vita dei detenuti e internati all’interno degli istituti penitenziari.
Nella sessione 2019-2020 ha conseguito l’abilitazione alla professione forense presso la Corte d’Appello di Venezia e dal 9 novembre 2020 è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Venezia.
Da gennaio a settembre 2021 ha svolto la professione di avvocato presso lo Studio BM&A – sede di Treviso e da settembre 2021 è associate dell’area penale presso MDA Studio Legale e Tributario – sede di Venezia.
Da gennaio 2022 è Cultore di materia di diritto penale 1 e 2 presso l’Università degli Studi di Udine (Prof. Avv. Enrico Amati).
Nel luglio 2022 è risultato vincitore della borsa di ricerca senior (IUS/16 Diritto processuale penale), presso l’Università degli Studi di Udine, nell’ambito del progetto UNI4JUSTICE.
Nel dicembre 2023 ha frequentato il corso “Sostenibilità e modelli 231. Il ruolo dell’organismo di vigilanza” – SDA Bocconi.
È socio della Camera Penale Veneziana “Antonio Pognici”, e socio A.I.G.A. – sede di Venezia.