sabato, Dicembre 14, 2024
Di Robusta Costituzione

I controlli dei lavoratori nel contesto tecnologico: un difficile tentativo di bilanciamento d’interessi contrastanti

È quasi superfluo sottolineare l’importante impatto che le apparecchiature tecnologiche hanno apportato e continueranno ad apportare nella nostra realtà e, in particolar modo, nel settore del lavoro e nei poteri del datore di lavoro. Indubbiamente, la tecnologia, prima industriale e poi telematica e robotica, permette di organizzare i settori produttivi, rendendoli più efficienti, ed offre ad alcuni lavoratori uno sgravio in termini di intensità lavorativa, sperando, comunque, che tale sgravio, in un futuro prossimo, non si trasformi in una totale sostituzione del fattore umano a favore dell’esclusiva presenza del capitale tecnologico. La tecnologia, oltre a favorire i processi produttivi, si presta ad esercitare vari controlli continuativi ed intrusivi sulle persone, e quindi anche sui lavoratori, con l’effetto di porre il Legislatore e gli operatori del diritto nella non sempre facile posizione di mediatori tra opposte esigenze. Il campo del diritto del lavoro, dovendo far fronte a diversi e spesso contrastanti interessi, in primis quelli fra datori di lavoro e prestatori di lavoro, è in un continuo e disperato tentativo di porre in equilibrio tali interessi, tentando strenuamente di definire e limitare i diritti e di imbrigliare i poteri, senza perder d’occhio la ragionevolezza tra le situazioni soggettive e le finalità perseguite dai soggetti coinvolti. Nonostante ciò, le problematiche non sono assenti. Per poter comprendere al meglio gli elementi e le dinamiche del conflitto, occorre preliminarmente tracciare i confini delle situazioni soggettive coinvolte e i rispettivi fondamenti giuridici, per passare, in seguito, ad analizzare la disciplina dei c.d. controlli a distanza, effettuati tramite le tecnologie.

 

1.I poteri del datore di lavoro e i limiti a favore del lavoratore

 

Il co. 1 dell’art. 41 Cost. esordisce statuendo che «l’iniziativa economica privata è libera», espressione di principio che ha, tra le sue varie implicazioni pratiche, quella di riconoscere ai soggetti privati la libertà di avviare un’attività d’impresa, organizzarla nei modi ritenuti più opportuni e di imprimerne un indirizzo produttivo[1]. Tale libertà dell’imprenditore non può essere esercitata al di fuori di determinati limiti, riportati dallo stesso art. 41 Cost.[2], e di vincoli amministrativi, definiti da leggi speciali.

L’attività d’impresa è un’attività economica organizzata dall’imprenditore, come prevede l’art. 2082 c.c.[3]: necessariamente, almeno al momento iniziale, è richiesta la presenza di un soggetto che dia impulso organizzativo ai fattori della produzione, ossia capitale e lavoro, che vanno a formare quel complesso unitario di beni, chiamato azienda[4].

L’art. 2086 c.c. attribuisce esclusivamente all’imprenditore la titolarità e la direzione, diretta o per interposta persona, dell’impresa e dei suoi dipendenti, in un contesto organizzato secondo il principio gerarchico, desumibile dalla stessa disposizione dell’articolo in commento[5].

Leggendo in modo sistematico i summenzionati articoli, emerge che l’imprenditore ha la libertà e il potere, attraverso la sua iniziativa, di predisporre ed organizzare i fattori produttivi, nel modo e nella quantità necessari per una certa produzione oppure nel modo che ritiene più conveniente, al fine di trarne uno scopo produttivo e, per ultimo, di trarne un vantaggio economico e speculativo[6]. La ragione per cui l’ordinamento giuridico riconosce all’imprenditore una posizione di supremazia gerarchica all’interno della propria organizzazione risiede negli oneri e nella potenziale e continua pericolosità dell’attività d’impresa: il rischio d’impresa, che incombe dalle fasi iniziali e per l’intera attività, ricade direttamente sull’imprenditore, e dunque spetta a quest’ultimo tutta quella serie di poteri necessari a scongiurare gli effetti distorsivi, secondo il principio generale che correla la responsabilità e l’assunzione di alee, favorevoli o sfavorevoli, all’esercizio di un potere.

L’imprenditore si avvale di fattori produttivi e, tra questi, rientrano i lavoratori. L’art. 2094 c.c., inserito nella Sezione del Codice dedicata ai collaboratori dell’imprenditore, individua i collaboratori citati genericamente dall’art. 2086 c.c. e richiama, pertanto, i concetti di gerarchia e di direzione, i quali riecheggiano in ben tre articoli: il 2086, il 2094[7] e il 2104[8] c.c. La collaborazione è un concetto ampio, che mitiga la soggezione gerarchica del dipendente, nonostante non manchino Autori che lo riconducano ad una logica autoritaria del periodo corporativo fascista[9]. La collaborazione sembrerebbe proprio quell’azione di fare che, in termini generici, contraddistingue le varie prestazioni lavorative e ne costituisce il risultato dell’aspettativa dell’imprenditore. In tale ottica, la collaborazione porterebbe genericamente con sé delle prescrizioni positive di fare, ed altre negative di non fare, che si adeguerebbero e determinerebbero in concreto a seconda dell’attività lavorativa presa in considerazione. In più, essa si configurerebbe quale risultato complessivo della singola obbligazione, oggetto del contratto, e dunque quale causa tipica del contratto di lavoro dipendente[10].

 

2. La collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore

 

La collaborazione è, dunque, qualificata intrinsecamente, ossia nei suoi contenuti, determinati per via legale, contrattuale ed in base a singole direttive del datore di lavoro o dei suoi preposti, e qualificata estrinsecamente, cioè nei modi e nei criteri in cui deve essere condotta. Al primo aspetto, quello contenutistico, fa riferimento il co. 2 dell’art. 2104 c.c., che attribuisce al datore di lavoro dei poteri di direzione, ai quali fa riscontro il dovere di obbedienza da parte del lavoratore. Prima di tutto, il contratto di lavoro deve avere ad oggetto, in armonia all’art. 1346 c.c., un’attività lecita, possibile e sufficientemente determinata, che ricomprende quel compito o quei compiti lavorativi che son racchiusi nel concetto di mansione. La pattuizione risente necessariamente delle altre eventuali previsioni della legge o dei contratti collettivi. Il lavoratore viene, così, ad essere incardinato all’interno dell’organizzazione aziendale ed assume, di conseguenza, la corrispondente qualifica[11]. All’obbligazione principale, cioè quella di lavorare, dedotta in contratto, si aggiunge il dovere di obbedienza di altre disposizioni ex co. 2, art. 2104 c.c., strumentali rispetto all’esecuzione della prestazione principale, e quindi della collaborazione: il dovere di obbedienza non sarebbe un’obbligazione autonoma[12]. Il co. 2 dell’art. 2104 c.c. indica il contenuto del potere direttivo per l’«esecuzione» e la «disciplina del lavoro». Tali espressioni fanno ricadere nella norma due generi di comando, quello relativo alle modalità cui il lavoratore è tenuto ad adeguarsi per rendere la prestazione e quello relativo alla regolamentazione per la convivenza nei luoghi di lavoro e per la tutela dei beni aziendali[13]. Il dovere di obbedienza, così come altri doveri in generale, non può spingersi oltre ogni limite, considerato che il rapporto obbligatorio di lavoro deve comunque svolgersi secondo il principio di correttezza ex art. 1175 c.c., imperniato sul principio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost.: agire secondo correttezza implica una collaborazione reciproca delle parti del rapporto contrattuale, per cui non solo il debitore deve attivarsi per eseguire correttamente la sua prestazione, ma anche il creditore deve attivarsi, o quantomeno astenersi, per rendere la prestazione meno gravosa. In base alle precedenti considerazioni sull’importanza della collaborazione nel campo lavorativo, si comprende bene quale valore assuma il concetto di correttezza. Una direttiva del datore di lavoro che dovesse far trapelare un’evidente dipartita da un apprezzabile interesse dell’impresa e delle esigenze tecnico-organizzative oppure un’irragionevole sproporzione tra finalità perseguite e sacrificio imposto alla controparte non sarebbe legittima, dato che le stesse prerogative imprenditoriali di cui al co. 1, art, 41 Cost. non potrebbero prevalere sui limiti costituzionali ex artt. 2 e 41, co. 2, Cost[14]: esempi di direttive inammissibili sono quelle contrarie alla dignità umana, quelle che possano arrecare un danno prevedibile o un disagio ingiustificato al destinatario, quelle limitative della libertà personale del tutto prive di un fondamento ragionevole ed attinente a ragioni organizzative-produttive, quelle con cui si richiedono prestazioni chiaramente escluse dal contratto o incompatibili con lo stato fisico del destinatario, quelle in palese contrasto con le regole tecniche del settore di riferimento e quelle che assegnano mansioni inferiori. Il lavoratore, in queste ipotesi, deve opporsi all’esecuzione dell’ordine illegittimo, in virtù del diritto di resistenza o autotutela conservativa, in modo tale da restare indenne da un’eventuale responsabilità penale, che la condotta ordinata dal datore di lavoro potrebbe comportare al lavoratore, mentre sul piano civilistico il datore di lavoro non può esercitare l’azione disciplinare[15].

Come anzidetto, la collaborazione tra imprenditore-datore di lavoro e lavoratore è qualificata, oltre che sul piano contenutistico, come è stato dimostrato poc’anzi, anche estrinsecamente, cioè nelle modalità in cui la prestazione debba essere eseguita: viene qui in rilievo l’obbligo di diligenza, anche riguardanti i poteri del datore di lavoro.

 

3. Doveri di diligenza e obbedienza

 

I doveri di diligenza[16] ed obbedienza sono entrambi distinti dall’obbligazione principale di lavorare, al punto tale che la dottrina e la giurisprudenza li configurano come elementi integrativi e strumentali della prestazione principale[17]. La diligenza attiene al profilo estrinseco della collaborazione, alle modalità di adempimento, in quanto il suo raggio di influenza si estende sia all’adempimento dell’obbligazione principale contrattuale che alle stesse direttive dell’imprenditore, con la conseguenza che la diligenza deve sempre sussistere, pur in mancanza d’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro: la diligenza, infatti, non determina l’oggetto dell’obbligazione lavorativa, non essendo una fonte di obbligazioni, ma è la misura dell’impegno e dello sforzo del solo debitore-lavoratore nel caso concreto[18]. La disposizione indica i tre criteri su cui commisurare il grado di diligenza: 1) «natura della prestazione dovuta», espressione simile a quella del co. 2 dell’art. 1176 c.c., al punto tale da considerarla una specificazione del criterio generale della diligenza professionale, che richiede uno sforzo adeguato al caso concreto nell’utilizzo di quel patrimonio di conoscenze e capacità tecnico-professionali connaturate alla prestazione e alla qualifica del lavoratore, nonché quegli accorgimenti accessori, anche di natura personale; 2) «interesse dell’impresa», quale pretesa perseguita dall’imprenditore; 3) interesse «superiore della produzione nazionale», che ha  perso di valore a seguito del superamento dell’ordinamento corporativo, ma che potrebbe essere connesso al dovere di solidarietà espresso nel co. 2 dell’art 4 Cost[19].

La violazione dei doveri di obbedienza e diligenza importa, in via cumulativa o autonoma, l’applicazione di sanzioni disciplinari e l’obbligo di risarcimento dell’eventuale danno per responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. L’incardinamento del lavoratore nel complesso produttivo richiede allo stesso di mantenere un ritmo di prestazione adeguato all’organizzazione e ai colleghi (c.d. normale rendimento), con la conseguenza che lo scarso rendimento diviene rilevante ai fini disciplinari e/o risarcitori quando non sussistano ostacoli oggettivi[20].

Il rapporto di lavoro tende alla collaborazione fiduciaria, come già scritto, e nella generalità dei casi è una collaborazione in cui assumono rilevanza le caratteristiche personali del lavoratore, c.d. rapporto intuitu personae. La persistenza di una collaborazione fiduciaria dipende fortemente dal rispetto, da parte del lavoratore, dell’obbligo di fedeltà.

Si nota dalla lettera dell’art. 2105 c.c. l’importanza assunta dal contesto organizzativo e dal suo modo di funzionamento[21]. L’articolo in commento ha come ratio la tutela della capacità di concorrenza dell’impresa, che viene altrimenti indicata col termine avviamento, e, per questa ragione, vincola il destinatario sia durante l’attività lavorativa, come accade per gli altri doveri, sia al di fuori delle ore di lavoro, a differenza degli altri doveri. Gli obblighi negativi, di astensione, imposti dall’articolo vengono comunemente considerati come estranei all’obbligazione principale di lavorare, in quanto non inciderebbero sul suo contenuto[22]. Tuttavia, questi divieti qualificano estrinsecamente l’organizzazione, seppur presentandosi come dei meri limiti all’attività del lavoratore, e, ragionando ab absurdo, sarebbe davvero singolare non poter adottare provvedimenti disciplinari o far persistere un rapporto di lavoro in una situazione di compromessa o assente fiducia, per violata fedeltà. Seguendo un ragionamento analogo e svolgendo una lettura sistematica degli artt. 1175, 1375 e 2105 c.c., la giurisprudenza maggioritaria ha esteso le maglie dell’articolo 2105 c.c., andando oltre i divieti espressamente previsti e giungendo a ricomprendere tutte quelle condotte che, per la loro natura o le loro possibili conseguenze, risultino contrarie ai doveri relativi all’inserimento del lavoratore nell’organizzazione oppure si pongano in contrasto con l’interesse dell’imprenditore[23]. Conseguentemente, la violazione dell’art. 2105 c.c., così come accade per la violazione dell’art. 2104 c.c., importa, in modo cumulativo o autonomo, l’irrogazione di misure disciplinari, ai sensi dell’art. 2106 c.c., e l’obbligo di risarcire l’eventuale danno effettivo, ai sensi dell’art. 1218 c.c.[24].

I poteri del datore di lavoro (quest’ultimo in veste di parte attiva del rapporto obbligatorio continuativo) rispondono alla  necessità di controllare l’esatta esecuzione della prestazione. Rientrando nella più ampia categoria del potere direttivo, il datore di lavoro dispone di parametri per verificare la corrispondenza della prestazione alle proprie legittime aspettative: questi parametri sono la correttezza (art. 1175 c.c.), la buona fede (art. 1375 c.c.), la diligenza (art. 2104, co. 1, c.c.) e la fedeltà (art. 2105 c.c.). In tema di disciplina sui controlli, occorre porre l’attenzione sulla terminologia usata dal Legislatore e fare attenzione agli impatti, anche indiretti, sui diritti fondamentali dei lavoratori, quali la dignità e la riservatezza, rispettivamente tutelati dagli artt. 41, co. 2, Cost. e 8 Cedu:

  1. sotto il primo profilo, si segnalano le differenti conseguenze, in termini fattuali e giuridici, che potrebbero arrecare le espressioni «attività lavorativa», (artt. 2 e 3 Stat. lav.) ed «attività dei lavoratori» (art. 4 Stat. lav.): nonostante l’apparente somiglianza, la prima si riferisce solamente al mero svolgimento della mansione, mentre la seconda ricomprende la totalità delle condotte, attive od omissive, tenute dal lavoratore all’interno dell’azienda, e quindi sia la prestazione che le c.d. licenze comportamentali (es. pause, movimenti, spostamenti, accessi a determinate aree, ecc.)[25];
  2. sotto il secondo profilo, i controlli legittimi dell’imprenditore-datore di lavoro diretti alla tutela del patrimonio aziendale, mediante l’ausilio di guardie giurate e di apparecchiature tecnologiche, potrebbero indirettamente venire in conflitto con le prerogative del lavoratore.

 

 

[1] G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, a cura di C. Angelici e G.B. Ferri, Edizione XIV, Utet giuridica, pag. 93.

[2] L’art. 41 Cost. dispone che «l’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».

[3] L’art. 2082 c.c. contiene la definizione di imprenditore, prevedendo che «è imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi».

[4] G. Ferri, op. cit., pag. 26.

[5] L’art. 2086 c.c. indica parte delle prerogative dell’imprenditore, disponendo che «l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori».

[6] Si ricordi che non tutti gli Autori concordano sulla riconducibilità dello scopo di lucro tra gli elementi fondanti la nozione di imprenditore, contrapponendosi, da un lato, il dato testuale dell’art. 2082 c.c., che non fa riferimento esplicito allo scopo di lucro, e, dall’altro lato, la tesi secondo cui tale scopo, almeno dal punto di vista oggettivo, sarebbe connaturato ed implicito nella stessa nozione di imprenditore.

[7] «È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore».

[8] Il co. 2 dell’art. 2104 c.c. prevede che «[Il prestatore di lavoro] Deve […] osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende».

[9] G. F. Mancini, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Giuffrè, Milano 1957, pag. 124, citato in R. De Luca Tamajo e O. Mazzotta, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Edizione VI, Wolters Kluwer-Cedam, Milano 2018, pag. 611.

[10] E. Ghera, A. Garilli e D. Garofalo, Diritto del lavoro, Edizione II, Giappichelli, Torino 2015; G. Trioni, L’obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano 1982, pag. 219, citati in R. De Luca Tamajo ed O. Mazzotta, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Edizione VI, Wolters Kluwer-Cedam, Milano 2018, pag. 611.

[11] A. Vallebona, Istituzioni del diritto del lavoro, vol. II – Il rapporto di lavoro, Edizione X, Wolters Kluwer-Cedam, Milanofiori Assago (MI), 2017, pagg. 146 e 147; G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, a cura di C. Angelici e G.B. Ferri, Edizione XIV, Utet giuridica, pagg. 70 e 71.

[12] A. Vallebona, ivi, pag. 137; E. Ghera, A. Garilli e D. Garofalo, op. cit., in R. De Luca Tamajo ed O. Mazzotta, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Edizione VI, Wolters Kluwer-Cedam, Milano 2018, pag. 612.

[13] A. Vallebona, ivi, pag. 138; E. Ghera, A. Garilli e D. Garofalo, ivi, pag. 613.

[14] L. Tramontano, Codice civile – Studium, Edizione XVI, La Tribuna, Piacenza 2017, commento all’art. 1175 c.c., pagg. 870 e 871.

[15] A. Vallebona, op. cit., pag. 138.

[16] Co. 1, art. 2104 c.c. – rubricato Diligenza del prestatore di lavoro

«Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale».

[17] R. De Luca Tamajo ed O. Mazzotta, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Edizione VI, Wolters Kluwer-Cedam, Milano 2018, pag. 610.

[18] Ivi, pag. 611; L. Tramontano, op. cit., commento all’art. 1176 c.c., pag. 873; F. Bocchini e E. Quadri, Diritto privato, Edizione VII, Giappichelli Editore, Torino 2018, pagg. 689 e 690.

[19] Co. 2, art. 4 Cost. –

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».

Secondo la Relazione illustrativa della Costituzione, il dovere di solidarietà sottende che «il lavoro non si esplica soltanto nelle sue forme materiali, ma anche in quelle spirituali e morali che contribuiscono allo sviluppo della società» (Relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana, 1947).

[20] R. De Luca Tamajo ed O. Mazzotta, op. cit., pag. 613.

[21] Art. 2105 c.c. – rubricato Obbligo di fedeltà –

«Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio». 

[22] R. De Luca Tamajo ed O. Mazzotta, op. cit., pag. 615.

[23] Cass., sez. lavoro, sent. 11220 del 2004; Cass., sez. lavoro, sent. 7427 del 1995; Cass., sez. lavoro, sent. 13906 del 2000; Cass., sez. lavoro, sent. 14176 del 2009; Cass., sez. lavoro, sent. 19096 del 2013; Cass., sez. lavoro, sent. 25161 del 2014; Cass., sez. lavoro, sent. 2550 del 2015; Cass., sez. lavoro, sent. 996 del 2017.

[24] A. Vallebona, op. cit., paragr. 18.2 –L’obbligo di fedeltà-, pagg. 140 a 143 (si consiglia la consultazione della giurisprudenza riportata nelle note a pag. 141).

[25] M. Bari, M. Conti, F. Schiavetti, Il lavoro nei call center: profili giuridici, Jovene editore, Napoli 2012, pag. 163.

Angelo Ciarafoni

Nato il 23 febbraio 1993 a Roma, città che ha sintetizzato il mio crogiolo di origini, che vanno dalle Marche, passando per Rieti, fino a giungere alle comunità Arbëreshë di Calabria. Affascinato dalla politica, dalla psicologia e dall’umano senso di Giustizia, ho intrapreso gli studi giuridici all’Università degli Studi "Roma Tre" per comprendere i risvolti del potere, i suoi vincoli e le risposte alla non sempre facile convivenza civile. Sono volontario in varie associazioni, anche in campo legale. Da febbraio 2017 svolgo l'attività di tutor con le cattedre di "Informatica giuridica e logica giuridica (aspetti applicativi)" e di "Documentazione, comunicazione giuridica e processo civile", tenute dal Prof. Maurizio Converso. Da marzo 2019 inizio a collaborare con la Rivista giuridica Ius in itinere, contribuendo a scrivere articoli divulgativi per l'area di Diritto costituzionale. In particolare, mi soffermo sulle tematiche connesse al campo del lavoro, delle nuove tecnologie e del c.d. Terzo settore.

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