lunedì, Ottobre 14, 2024
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Luci e ombre sulla retroattività della legge più favorevole

In uno stato liberal-democratico, il privato deve poter conoscere preventivamente le conseguenze delle sue azioni e quindi valutare se da esse ne potrà derivare una responsabilità penale.

Questa premessa trae linfa dalla lettura combinata dell’art. 2 comma 1 del codice penale e dell’art. 25 c. 2 della Costituzione, i quali, insieme sanciscono il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole al reo, ovvero che non può essere punito per un fatto, che secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.

Predetto principio, oltre a costituire un baluardo dell’Ordinamento italiano, svolge la principale funzione di garanzia per l’agente, difatti in linea con i principi europei della prevedibilità e conoscibilità della norma penale, il consociato deve poter conoscere anticipatamente la sanzione nella quale eventualmente incorrerà, a seguito della commissione di un dato fatto delittuoso.

D’altronde, questa impostazione permette al cittadino,  in un’ottica di calcolabilità delle conseguenze, la piena autodeterminazione individuale[1].

Inoltre, giova ricordare che il principio dell’irretroattività costituisce un limite sotto una duplice accezione, specificatamente l’art. 2 comma 4 codice penale, vieta al giudice di applicare retroattivamente la legge sfavorevole al reo, diversamente l’art. 25 c.2 Cost. sancisce medesimo limite per il legislatore[2], ovverosia di non poter attribuire efficacia retroattiva ad una legge che configuri una nuova fattispecie criminale.

Il quadro dei referenti normativi si completa, altresì, con l’art. 49 della Carta dei diritti fondamenti dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), art. 7 CEDU ed infine con l’art. 15 Patto internazionale dei diritti civili e politici. L’approvazione del principio di irretroattività da parte degli ordinamenti sovranazionali, limita la possibilità di una deroga a tale principio. Specialmente se si tiene conto che, in virtù del “principio di primazia”delle norme europee rispetto agli ordinamenti interni, l’impatto dell’art. 49 Carta di Nizza risulta ancora più incisivo.

Ciò nonostante, i rapporti tra i due sistemi, in riferimento al principio di irretroattività non è sempre stato pacifico, soprattutto considerando che i predetti ordinamenti attribuiscono alla materia penale, una diversa interpretazione, per cui non tutti gli istituti sono inquadrati analogamente.

A tal proposito, giova ricordare, il dubbio sorto in merito all’istituto della prescrizione, individuato dalla Corte di Strasburgo e dalla Corte di Giustizia dell’UE come un istituto processuale, per cui sottoposto al principio del tempus regit actum. A soluzione differenti sono approdate la Corte italiani, che hanno evidenziato la natura sostanziale della prescrizione e per cui coperta dalla garanzia della irretroattività. Il diverso inquadramento offerto all’istituto della prescrizione non desta particolari problemi tra i due ordinamenti, poiché la stessa Corte di Giustizia ha confermato nella sentenza del 5 novembre del 2017 che spetta ad ogni Stato membro statuire se la prescrizione abbia o meno carattere processuale[3].

Margini di incompatibilità sembravano emergere anche con riguardo all’applicazione retroattiva della legge favorevole al reo; detto principio rileva espressa disciplina nell’art. 49 Carta di Nizza e nell’art. 15 Patto di New York, specificamente l’art. 49 Carte di Nizza recita quanto segue, se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima.

Diversamente, il principio di retroattività della lex mitior sembrerebbe non rinvenibile nell’art. 7 CEDU, ma la Corte Edu nella nota sentenza Scoppola, ha stabilito che l’art. 7 CEDU, non solo individua espressamente il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, ma riconosce implicitamente [4] l’applicazione retroattiva della legge più mite.

A livello nazione il principio di retroattività trova il suo referente normativo nell’art. 2 c.4 c.p. , che prevede l’applicazione retroattiva del trattamento più favorevole per il reo, ma sul profilo Costituzionale l’istituto non rinviene la sua fonte normativa nell’art. 25 c. 2 Cost., che invece stabilisce il principio di irretroattività della legge più sfavorevole. Detta assenza è giustificata dall’intima ragione che muove il principio di retroattività, che non incide sulla libertà delle scelte dell’agente[5], e per cui non svolge la funzione di orientamento dei consociati. Ciò nonostante, anche se l’applicazione della norma penale non trovi espresso richiamo nella Costituzione, i giudici della Corte Costituzionale hanno asserito che lo stesso è coperto da garanzia Costituzionale.

Secondo la ricostruzione operata dalla Corte Costituzionale il fondamento normativo dell’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole, non andrebbe rintracciato nell’art. 25 c. 2 bensì nell’art. 3 della e nell’art. 117 Cost., che rinvia alla norma interposta dell’art. 7 CEDU. Questa impostazione implica delle consegue pratico-applicative non irrilevanti, difatti, si garantisce l’uguale trattamento di simili situazioni, evitando quindi discriminazioni ingiustificate, garantisce la ragionevolezza dell’ordinamento e enfatizza la funzione general/special- preventiva.

Non sempre però, in caso di successione nel tempo di leggi penali,  risulta agevole individuare quale sia il trattamento più favorevole da applicare all’agente, la soluzione più condivisibile sembrerebbe quella alla quale è pervenuta la Corte di Cassazione, che ha asserito che, in caso di successione di leggi penale nel tempo, ai fini dell’applicazione retroattiva della legge più favorevole, è necessario che il giudice effettui una comparazione in concreto tra tutte le leggi succedutesi nel tempo.

Questa conclusione non ha però sciolto tutti i dubbi, soprattutto nell’ipotesi, non rara,  in cui la lex mitior intervenuta successivamente alla commissione del fatto, fosse dichiarata, poi, costituzionalmente illegittima. Questione che si è presentata nella nota sentenza Camicie Verdi[6], ove era intervenuta una lex mitior che aveva comportato l’abrogazione della fattispecie criminale dell’associazione militare a scopi politici. In un secondo momento, la Corte Costituzionale aveva dichiarato  l’incostituzionalità della legge favorevole, implicando la reviviscenza del reato della associazioni paramilitari.

Orbene, ci si interrogava se la lex mitior potesse essere applicata, indipendentemente dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale e quindi concludere il caso in esame con una sentenza di assoluzione per gli imputati. La questione è stata posta all’attenzione della Corte di Cassazione la quale ha evidenziato che, in conformità con l’art. 3 Cost. e nel pieno rispetto degli obblighi comunitari, si deve dare precedenza alla retroattività della legge più favorevole per il reo, sicché il fenomeno della reviviscenza inciderà unicamente per i fatti commessi successivamente alla pubblicazione della decisione della Corte Costituzionale.

Predetta impostazione, non ha pienamente convinto la dottrina che ha evidenziato come l’abrogazione e la dichiarazione di illegittimità costituzionale, attengano a due fenomeni differenti: il primo si riferisce ad un aspetto fisiologico dell’ordinamento, il secondo, invece, guarda ad un profilo strettamente patologico, per cui la legge non conforme ai canoni costituzionali, non potrà trovare applicazione.

Nonostante l’interessante critica manifestata dalla dottrina, la giurisprudenza, appare più incline ad una visione garantista, enfatizzando il principio della retroattività della lex mitior.

Caso analogo si è infatti presentato anche relativamente alla materia delle sostanze stupefacenti, disciplinata dal DPR 309/90[7], disciplina che è stata costellata da continui interventi legislativi.

Senza ripercorrere tutte le questioni inerenti al TU in materia di droga, risulta utile ricordare che le Corti italiane , più volte sono intervenute sulle zone d’ombre che aleggiavano sul predetto decreto.

Giova ricordare, a tal proposito, l’intervento delle SU[8] che, in virtù della dichiarazione di illegittimità ad opera della Corte Costituzionale della legge Fini-Giovanardi -che nel 2006 aveva unificato il trattamento sanzionatorio di droghe pesanti e leggere, prevedendo come limite edittale la pena da 6 a 20 anni di reclusione –  chiedevano la rideterminazione della pena da parte del giudice dell’esecuzione.

Con la sentenza n. 32/2014 la Corte Costituzionale, quindi, “riportava in vita” la precedente e più favorevole disciplina esistente prima delle legge del 2006, ovvero prevedendo una cornice edittale da 2 a 6 anni per le droghe leggere e da 8 a 20 anni per le droghe pesanti. La questione di incostituzionalità, però, veniva, nuovamente sollevata nel 2017 e  in detto episodio la Corte Costituzionale con la sentenza n. 179/2017 respingeva la questione, poiché preferiva adottare una sentenza monito, nella misura in cui lasciava un ultimatum al legislatore, invitandolo a rivedere la comminatoria edittale di otto anni di reclusione nel minimo in quanto manifestamente eccessiva rispetto alla condotta concreta commessa dall’imputato nel caso di specie.

Tuttavia nel biennio 2017-2019, il legislatore resta silente rispetto alla nuova quantificazione del profilo punitivo per la detenzione di sostanze stupefacenti e per ciò, in forza del silenzio serbato, la Corte Costituzionale ritorna nuovamente sulla questione, che con la sentenza Corte cost.,  23 gennaio 2019 (dep. 8 marzo 2019), n. 40[9] dichiara l’incostituzionalità dell’art. 73 DRP 309/90, nella parte in cui prevede la pena minima edittale di 8 anni di reclusione, per la detenzione di sostanze stupefacenti e nella medesima sentenza individua come pena minima la reclusione quella pari a 4 anni.

“Ictu oculi” emerge chiaramente che la sentenza n. 40/2019 prevede un trattamento sanzionatorio più favorevole per il reo e per cui deve retroagire anche per i fatti pregressi. La problematica, però, sembra persistere per coloro i quali sono stati condannati con sentenza definitiva alla pena minima di anni 8 di reclusione. La questione è stata risolta in linea con il principio del favor rei, nella misura in cui il trattamento favorevole può retroagire sino a travolgere il giudicato.

Per cui il reo che è stato condannato può azionare mediante  l’istituto dell’incidente esecutivo il riesame del quantum della sua pena, con la possibilità di una  rideterminazione in conformità delle specificazione indicate nella sentenza 40/2019.

[1] Manuale di diritto penale, VII Ed., G. Marinucci, E. Dolcini.

[2] Corte Cost. sen. dell’8 Novembre del 2006, n. 394.

[3] A tale conclusione è pervenuta anche la Corte Costituzionale nella nota sentenza Taricco n. 115/2018.

[4] Causa Scoppola (n. 2) c. Italia – Grande Camera – sentenza 17 settembre 2009 (ricorso n.
10249/03)

[5] Corte Cost. sen. n. 230/2012.

[6] Per un approfondimento vedi: www.penalecontemporaneo.it.

[7] Per un approfondimento vedi: www.altalex.com.

[8] Cass. Sez. Un.  del 26 Febbraio del 2015.

[9] www.cortecostituzionale.it.

FONTE IMMAGINE : www.altalex.com. 

Tayla Jolanda Mirò D'Aniello

Tayla Jolanda Mirò D'aniello nata ad Aversa il 4/12/1993. Attualmente iscritta al V anno della facoltà di Giurisprudenza, presso la Federico II di Napoli. Durante il suo percorso univeristario ha maturato un forte interesse per le materie penalistiche, motivo per cui ha deciso di concludere la sua carriera con una tesi di procedura penale, seguita dalla prof. Maffeo Vania. Da sempre amante del sistema americano, decide di orientarsi nello studio del diritto processuale comparato, analizzando e confrontando i diversi sistemi in vigore. Nel privato lavora in uno studio legale associato occupandosi di piccole mansioni ed è inoltre socia di ELSA "the european law students association" una nota associazione composta da giovani giuristi. Frequenta un corso di lingua inlgese per perfezionarne la padronanza. Conseguita la laurea, intende effettuare un master sui temi dell'anticorruzione e dell'antimafia.

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