I reati culturalmente motivati: definizione, casistica e normativa
A cura di: Antonio Fabio Esposito
Preliminare all’analisi della fattispecie di “reato culturalmente motivato” è la definizione del concetto di cultura: infatti senza tale enucleazione sarebbe eccessivamente vago ed indeterminato l’esame di tale tipologia di illecito.
Il termine indicato ha un campo di applicazione notevolmente ampio: può indicare ad esempio l’insieme delle consuetudini di un determinato gruppo oppure può più estensivamente identificare il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un dato gruppo etnico.
Strumentale invece allo svolgimento dell’analisi in questione è la definizione eticamente qualificata del concetto di cultura, per cui tale termine diviene sinonimo di “popolo o comunità che occupa un determinato territorio e che condivide una data lingua e tradizione”.
A conferma di questa definizione è possibile citare i Mandla criteria: criteri elaborati da una sentenza della House of Lord per identificare un gruppo etnico in base alla storia condivisa, alla tradizione culturale, all’origine geografica e alla lingua comune; ne consegue che il concetto di “reato culturalmente motivato” ruoterà esclusivamente sulla diversità culturale che connota i gruppi etnici diversi da quello dominante (identificato in base alla detenzione del potere politico e legislativo).
Dopo una breve analisi della terminologia in uso è possibile identificare come reato culturalmente motivato quel “comportamento realizzato da un membro appartenente ad una cultura di minoranza, considerato reato dall’ordinamento giuridico della cultura dominante. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale dell’agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura è sostenuto e incoraggiato in determinate situazioni”. [1]
Per quanto riguarda una corretta e casistica identificazione dei reati in questione è necessario citare alcuni esempi giurisprudenziali ricorrenti nelle dottrine europee ed internazionali:
– State v. Kargar: nel 1993 Mohammad Kargar, afgano residente nello stato del Maine, viene accusato di gross sexual assault (molestie sessuali gravi) ai danni del figlio di diciotto mesi; nel caso di specie una vicina di casa affermò di aver visto l’imputato baciare il pene del bambino.
Il soggetto imputato dedusse a propria difesa la totale liceità del comportamento secondo le usanze afgane, eccependo come nella cultura d’appartenenza tale atto fosse una dimostrazione molto comune dell’amore genitoriale verso il figlio.
Il giudice di primo grado, nonostante la conferma da parte di numerosi esperti di culture medio-orientali riguardo la liceità e frequenza di tale comportamento, condannò il soggetto a tre anni di reclusione ritendendo la sussistenza di sexual assault nel caso in cui ci sia contatto diretto tra bocca e genitali.
Il giudice d’appello rovesciò la sentenza di primo grado: egli constatò la criminalità della condotta (nel luogo in qui l’atto era stato compiuto) ma eccependo come le circostanze dell’illecito implicassero clemenza in seguito ai motivi culturali del soggetto e alla non conoscenza dei divieti vigenti.
– Caso Chen: nel 1997 a New York Dong Lu Chen uccise la moglie a seguito della confessione di una relazione extraconiugale. [2]
Nel processo di primo grado Chen eccepì come nella cultura cinese l’omicidio della donna fedifraga costituisse un modo per ristabilire il proprio onore in seguito alla lesione dello stesso a causa del tradimento.
Durante il processo un esperto antropologo confermò la tesi del soggetto: inoltre chiarì come, nella cultura d’appartenenza dell’imputato, il tradimento costituisse un’offesa non solo per il marito ma anche per gli avi e i familiari dello stesso.
Nella comunità cinese, secondo lo studioso, raramente le ipotesi di tradimento sfociano in omicidio, in quanto è il gruppo stesso di familiari ed amici a mediare tra i coniugi; il caso in questione rappresentò un’eccezione in quanto l’isolamento culturale di Chen impedì il verificarsi delle condizioni che avrebbero evitato l’omicidio.
Il giudice di primo grado condannò Chen a cinque anni di probation (piena più lieve possibile rapportata al fatto), derubricando il reato da omicidio di primo grado ad omicidio attenuato a causa di diminished capacity defense (vizio parziale di mente).
Nella decisione si constatò come la condotta del soggetto fosse viziata dai valori tradizionali cinesi circa l’adulterio, i quali spinsero l’imputato a perdere il controllo e a ristabilire l’onore familiare tramite l’omicidio della moglie.
– Mutilazioni genitali femminili: pratiche aventi ad oggetto la modificazione degli organi genitali femminili; esse sono ampiamente diffuse in numerosi gruppi etnici dislocati nell’Africa subsahriana (come Somali e Kenya), in Egitto e in alcune regioni dell’Asia. [3]
L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1995 ha definito le mutilazioni genitali femminili come ‘’ quelle pratiche che comportano la rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili esterni o altri danni agli organi genitali femminili, compiute per motivazioni culturali o altre motivazioni non terapeutiche’’; fornendo, in tal modo, una definizione variegata e complessa del fenomeno che potesse con maggior precisione identificare questa tipologia di pratiche.
La forma più estrema individuata dalla WHO di mutilazione è l’infibulazione: essa consiste nella escissione parziale o totale dei genitali esterni con la conseguente cucitura degli stessi mediante l’utilizzo di fili di seta o spine; in tal modo si mira ad occludere, a seguito della cicatrizzazione della ferita, quasi del tutto il canale vaginale con l’unica eccezione di un piccolo foro per il passaggio di sangue mestruale ed urina.
Secondo l’indagine della WHO tali pratiche possono derivare da numerose e diverse motivazioni: ad esempio in alcune comunità mirano a rafforzare il senso d’appartenenza al gruppo e fungono da segno di riconoscimento (operando, quindi, in un’ottica socio-culturale); secondo alcune credenze religiose, invece, le mutilazioni hanno come obiettivo la purificazione della donna tramite la preservazione della verginità.
In Europa la fattispecie di reato culturalmente motivato è condannata oltre che dagli atti di diritto internazionale anche dalle normative interne dei singoli stati.
Ad esempio per quanto riguarda l’infibulazione i membri dell’UE garantiscono i diritti fondamentali della donna in due modi: tramite l’adozione di leggi ad hoc (come il caso della Svezia o dell’Italia) oppure tramite la ricollocazione della fattispecie incriminata nell’ipotesi di lesioni personali (come in Francia, lo stato europeo col maggior numero di procedimenti aventi ad oggetto le mutilazioni genitali femminili).
L’Italia in base alla recente legge nr° 7/2006, rubricata “disposizioni concernenti la prevenzione ed il divieto di mutilazione genitale femminile”, ha adottato una normativa ad hoc: infatti sono state introdotte nel codice penale tali tipologie di reato, adottando un sistema sanzionatorio che commina pene più gravi di quelle previste dagli artt. 582 e 583 c.p. (che hanno ad oggetto le lesioni dolose); nella fattispecie si prevede la reclusione da un anno a sei anni con l’aumento di un terzo nel caso in cui il fatto sia commesso a danno di un minore, disponendo anche la responsabilità amministrativa verso il medico o altro sanitario che abbia praticato l’intervento.
Secondo il parere di numerosi studiosi, da Basile a Palazzo, tale disciplina esalta i valori di un gruppo sociale e scredita quelli di una comunità di minoranza, dimostrando un chiaro atteggiamento di intolleranza verso la stessa; infatti il conflitto normativo-culturale raggiunge la massima evidenza quando il legislatore, nelle disposizioni in esame, adotta una disciplina per i reati in questione molto più penalizzante rispetto a quella prevista nelle ipotesi ex art 582 e 583 c.p.
Dall’analisi della normativa è evidente la difficoltà nel disciplinare adeguatamente i casi specifici caratterizzati dall’incidenza del fattore culturale e religioso sulla commissione del reato: il percorso verso una corretta previsione legislativa presuppone il riconoscimento della diversità e pluralità culturale presente in Europa ed Italia, evitando qualsiasi legge simbolica e discriminatrice.
La soluzione più equilibrata sembra essere quella adottata dalla giurisprudenza americana: in base al modello della cultural evidence in assenza di una norma o istituto che riconosca esplicita rilevanza ai motivi culturale dell’agente, il giudice deve attribuire rilevanza a tali motivazioni solo nella misura in cui possano integrare ipotesi di justification o di excuse. [4]
Questa metodologia permette di poter valutare l’incidenza del fattore culturale caso per caso, evitando i rischi presenti nella rigidità delle disposizioni legislative.
[1] Nell’opera di F. Basile “Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati”, in Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale, viene fornita una lucida ed attenta analisi dei reati in questione, costituendo una fonte di spessore per l’identificazione delle caratteristiche di tali fattispecie di reato.
[2] C. Sorio, ‘’I reati culturalmente motivati: la cultural defense in alcune sentenze statunitensi’’ in Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale: nell’approfondimento in questione l’autore analizza dal punto di vista casistico i vari modi in cui si presenta il reato determinato da motivo culturale, utilizzando in maniera esemplificativa soprattutto casi provenienti dalla giurisprudenza americana.
[3] F. Basile, “immigrazione e reati culturalmente motivati”, 2010.
[4] Fondamentale è sottolineare come mentre la dottrina continentale basa la propria analisi sul concetto di “reato culturale”, la dottrina dei paesi di common law (soprattutto nord-americana) pone l’attenzione sulle “cultural defenses”; invero, dunque, vengono utilizzati approcci diversi riguardo la medesima tematica, tale distinzione è facilmente deducibile dalla lettura di J. Van Broeck, “Cultural Defence and Culturally Motivated Crimes” in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice.