I veli islamici e la Corte europea dei diritti umani: una questione aperta
Recentemente, il Senato francese ha approvato un disegno di legge che proibirebbe l’uso del velo islamico – l’hijab, che copre solo testa e collo – da parte di ragazze minori di diciotto anni e introdurrebbe il medesimo divieto nelle competizioni sportive nazionali[1]. Seppur non convertito ancora in legge, la notizia ha riportato alla luce una più complessa riflessione sull’uso dei veli islamici, i quali, da diversi anni, si trovano al centro di un dibattito molto acceso in Europa.
Anche se, fino al 2011, nessuno Stato europeo aveva adottato misure nazionali volte a limitare l’uso dei veli, alcune restrizioni locali erano state già adottate in Belgio, Olanda e Italia[2]. Inizialmente, queste assumevano una natura molto generica, i.e. il divieto di usare mezzi che potessero rendere difficile l’identificazione di una persona in pubblico, ma già allora avevano importanti conseguenze per le donne che esprimevano la volontà di vestire il velo integrale in pubblico.
Parimenti, in Francia e Belgio, i primi divieti nazionali concernenti la copertura del volto non erano esplicitamente indirizzati al velo islamico, ma de facto ne compromettevano l’utilizzo. Inoltre, dalle ragioni addotte dai legislatori per giustificare tali divieti, si può evincere che l’obiettivo principale delle misure era proprio il velo[3].
I divieti sull’uso dei veli islamici hanno suscitato non poche polemiche; si sono espressi contro, tra gli altri, il Consiglio d’Europa, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, diverse ONG e numerosi accademici di matrice anglo-liberale[4].
Dal dibattito sul velo islamico emergono, inevitabilmente alcune domande. “Quali sono i limiti che lo Stato può porre alla libertà personale, alla libertà religiosa e alle sue manifestazioni? Quali le ragioni sulla base delle quali è possibile subordinare la libertà personale ad altri diritti o principi fondamentali?”[5]. A tali domande ha cercato di dare una risposta anche la Corte europea dei diritti umani (“Corte EDU” o “Corte di Strasburgo”), di cui segue un’analisi della giurisprudenza a tal riguardo[6].
Premessa linguistica
L’espressione “velo islamico” include realtà molto diverse, sia ontologicamente, sia simbolicamente. Seppur non essendo questo il luogo per sciogliere in maniera approfondita tale definizione, si rende necessario chiarire quali termini si vogliono utilizzare nel presente articolo e offrire alcuni spunti per comprendere quale complessità si celi dietro questo indumento.
In una lista non esaustiva di tipi di velo islamico più utilizzati, figura indubbiamente l’hijab – che si può tradurre dall’arabo con la parola “coprire” – il quale copre la testa ed il collo, lasciando scoperto il viso. L’hijab si configura come un simbolo di modestia e privacy, ma può anche significare espressione evidente dell’appartenenza alla religione islamica[7].
Vi sono poi il niqāb, tipico dell’Arabia Saudita, che copre interamente la figura femminile ma lascia visibili gli occhi, il chador, che ha origine in Iran, e cinge il capo ma lascia libero il volto ed il burqa, tradizionalmente blu, che copre interamente il corpo e nasconde gli occhi di chi lo indossa dietro una fitta griglia[8]. Anche se nasce come simbolo religioso ed ha origine nel Corano[9], il velo è connotato da una polivalenza semantica, tant’è che non sono mancati casi in cui il suo utilizzo è stato adottato come pratica politica. Invero, il velo è stato utilizzato come forma di resistenza contro narrative che associavano a tale simbolo una religione fanatica e terrorista, soprattutto dopo l’11 settembre 2001[10].
In questo articolo, laddove possibile, verranno utilizzati i rispettivi nomi dei veli, mentre si ricorrerà a “velo islamico” o “copricapo islamico” solo quando nei documenti non vengono forniti dettagli sul tipo di velo in questione.
I veli islamici nella giurisprudenza della Corte EDU
Per individuare il primo caso della Corte EDU inerente al velo islamico dobbiamo fare un salto indietro di vent’anni e tornare al 2001. In Dahlab c. Svizzera[11], la ricorrente, una donna islamica residente in Svizzera, ha lamentato una violazione dell’articolo 9 CEDU[12] perché impossibilitata a vestire il copricapo – probabilmente l’hijab, poiché si parla di “headscarf” – sul posto di lavoro.
La donna, un’insegnante della scuola primaria a Ginevra, pur essendo stata cattolica, aveva deciso di abbandonare la sua religione originaria, per abbracciare quella islamica. Per questo motivo, aveva cominciato a vestire il velo islamico in classe, senza che per cinque anni vi fossero reclami da parte né dei colleghi, né genitori, né degli alunni. Tuttavia, dopo un periodo di maternità, tale libertà le veniva negata dal Direttore generale della pubblica istruzione[13].
Nella sentenza, la Corte ha dapprima riconosciuto un ampio margine d’apprezzamento[14]in capo allo Stato, in assenza di specifiche norme comunitarie che regolamentassero l’uso del velo. La Corte ha poi sottolineato che il divieto di indossare il velo fosse limitato al solo ambiente scolastico, in ottemperanza al principio di neutralità delle scuole pubbliche e come forma di tutela del sentimento religioso degli alunni. Il velo islamico viene quindi definito un “powerful external symbol” per tre ragioni. Prima di tutto, viene asserito che esso ha un forte impatto sugli studenti dell’insegnante i quali, ancora in giovane età – tra i quattro e gli otto anni – sono più facilmente influenzabili. Inoltre, poiché il velo islamico viene “imposto” dal Corano, non rispetta il principio di eguaglianza tra i sessi. Infine, il copricapo islamico non risponde al messaggio di tolleranza, rispetto, eguaglianza e non discriminazione che l’insegnante dovrebbe trasmettere alla classe.
Dopo quattro anni a partire da Dahlab c. Svizzera, la Corte, riuntasi nella Grande Camera[15], è tornata a pronunciarsi in merito all’Islamic headscarf nel caso Leyla Sahin c. Turchia[16]. La ricorrente, proveniente da una famiglia che praticava la religione musulmana, portava il foulard islamico – quindi, probabilmente, l’hijab – per rispettare il precetto religioso contenuto nel Corano.
Quando la ricorrente era una studentessa del quinto anno alla facoltà di medicina dell’Università di Bursa, si iscrisse alla facoltà di medicina di Cerrahpasa dell’Università di Istanbul. Negli anni a Bursa, aveva indossato il velo islamico senza che nessuno ne contestasse l’utilizzo. Tuttavia, alla ricorrente venne negato l’accesso ad una serie di corsi e prove scritte dopo che il rettore dell’Università di Istanbul adottò una circolare che vietava agli studenti con la barba o la cui testa era coperta di partecipare alle lezioni, ai tirocini o alle esercitazioni[17].
Parimenti, poiché la ricorrente continuava a non osservare le norme contenute nella circolare, fu avviata una procedura disciplinare che prevedeva, tra l’altro, l’annullamento di un semestre. In seguito a questi avvenimenti, la ricorrente decise dunque di abbandonare gli studi in Turchia, per proseguirli a Vienna.
Nella sentenza, la Corte EDU ha confermato il ragionamento già formulato nel caso Dahlab, promuovendo il principio di neutralità dell’istruzione pubblica. Invero, la Corte ha dichiarato che il regolamento adottato dall’Università di Istanbul – e dunque il divieto di indossare l’hijab in università – fosse legittimo perché, anche se costituiva un’interferenza con la libertà di espressione religiosa ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della Convenzione, essa rientrava nei requisiti previsti dal secondo paragrafo del medesimo articolo affinché un’interferenza statale possa considerarsi[18] .
Per di più, la Corte ha fortemente basato il suo nullaosta verso le misure restrittive turche sull’assenza di una posizione unanime tra gli Stati membri per ciò che concerne la relazione tra religione e società, in particolar modo sull’uso di simboli nelle istituzioni scolastiche[19].
Inoltre, anche in questo caso la Corte di Strasburgo ha individuato il velo come simbolo che, potenzialmente, può porsi in contrasto con l’uguaglianza di genere e, di conseguenza, contro il principio di secolarismo statale[20].
Le ragioni addotte nella sentenza Dahlab sono state riprese anche nel caso Köse c. Turchia del 2006. I giudici si sono affidati ancora una volta alla dottrina del margine di apprezzamento per dichiarare, indirettamente, che indossare il velo può ammontare ad un atto di pressione ed esclusione, ponendosi in contrasto con il pluralismo e la libertà delle idee. Il concetto di “powerful external symbol” viene ripreso anche in questa sentenza, sottolineando come al velo sia associato a un effetto di proselitismo sulle donne che scelgono di non indossarlo perché “sembra che esso venga imposto sulle donne da un precetto religioso”[21].
Nulla di nuovo è stato aggiunto, poi, nel caso Dogru c. Francia[22], giudicato dalla Corte EDU nel 2008. In tale circostanza, il divieto di indossare il velo era stato imposto su alcune studentesse delle scuole superiori le quali, dopo aver rifiutato di osservare questa proibizione durante le ore di educazione fisica, erano state espulse dalla scuola. La scuola aveva giustificato questa misura in virtù dell’incompatibilità tra il velo e le attività svolte in classe, mentre le ragazze avevano rivendicato il loro diritto all’espressione religiosa ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della Convenzione.
Tuttavia, secondo la Corte il divieto adottato dall’istituto scolastico non si configurava come una violazione dell’articolo 9 perché la misura era prescritta dalla legge ed era finalizzata a rispettare le regole della scuola in materia di salute, sicurezza e frequenza costante in classe. Anche in questo caso, la Corte si è avvalsa della dottrina del margine d’apprezzamento per dichiarare che è compito degli Stati membri assicurare che la manifestazione del credo religioso all’interno dei locali scolastici non diventi una forma di ostentazione, pressione ed esclusione[23].
Dopo sei anni, la Corte è tornata sulla questione del velo islamico nel caso S.A.S. c. Francia[24]. La vicenda ha visto coinvolta una cittadina francese, praticante islamica, che era solita indossare il burqa ed il niqāb in pubblico. La ricorrente ha impugnato una legge francese, approvata nel 2010, che vietava in pubblico quei veli che coprono interamente il volto. Lo Stato francese ha addotto tre principali motivazioni per cui riteneva legittima la misura restrittiva: sicurezza pubblica, eguaglianza di genere e armonia sociale. La Corte, riunitasi nella Camera Grande, ha rifiutato i primi due motivi, abbandonando così l’idea che il velo possa promuovere la diseguaglianza di genere, ma ha accolto il terzo motivo, dichiarando che l’importanza del “vivre ensemble” può essere considerata una legittima ragione per imporre restrizioni al diritto di manifestare la propria religione, tanto più se il velo sul volto viene percepito dallo Stato come un ostacolo alla socializzazione[25].
Nel 2015, La Corte di Strasburgo ha nuovamente analizzato il rapporto tra Stato e misure restrittive contro il velo islamico nel caso Ebrahimian c. Francia[26] . Di nuovo, la Corte non ha più definito il velo come “simbolo esteriore forte”, ma in questo caso lo ha interpretato come “ostentatious manifestation”[27] della religione, incompatibile con la neutralità del servizio offerto dalla ricorrente. Se il nesso tra diseguaglianza di genere e velo islamico viene abbandonato, Ebrahimian c. Francia ripropone, però, l’idea – già formulata nel caso Dahlab – che il copricapo islamico possa avere un’influenza così irruenta sui soggetti deboli da ledere i loro diritti.
Infine, l’11 luglio 2017 la Corte EDU ha emesso due sentenze simili – Belkacemi e Oussar c. Belgio[28] e Dakir c. Belgio[29] – entrambe concernenti la legge belga approvata nel 2011 che criminalizzava l’utilizzo in luoghi pubblici di indumenti che coprissero parzialmente o totalmente il volto[30]. Pur trattandosi di circostanze fattuali diverse, la Corte è arrivata alla medesima conclusione in entrambi i casi, confermando la ratio decidendi elaborata in S.A.S. c. Francia e, dunque, legittimando il divieto messo in atto dal Belgio. Si legge, infatti, che proibire il velo in luoghi pubblici non si pone in contrasto né con il diritto alla vita privata, ai sensi dell’articolo 8 CEDU, né con il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione, ai sensi dell’articolo 9.
Inoltre, anche in questi casi la Corte di Strasburgo ha concesso un ampio margine di apprezzamento alle autorità locali, lasciando decidere a queste quali siano i presupposti per garantire il principio del “vivre ensemble”[31].
Due pesi, due misure? Il crocifisso al vaglio della Corte EDU
Alla luce delle considerazioni che la Corte EDU ha avanzato nei confronti dei veli islamici, può senz’altro essere rilevante capire come la medesima Corte abbia analizzato altri simboli religiosi. Il primo caso preso in esame ai fini di tale comparazione, Lautsi e Altri c. Italia[32], è interessante per diversi motivi e si ricorda che l’oggetto principale della sentenza – il crocifisso nelle scuole pubbliche – ha avuto un grande eco mediatico che, di tanto in tanto, ancora riaffiora nel dibattito pubblico.
La vicenda Lautsi ha avuto origine nel 2002, quando la famiglia di due studenti che frequentavano l’istituto pubblico di Abano Terme (PD) si è scagliata contro la possibilità di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, poggiandosi sul principio di laicità dello Stato[33]. Il ricorso è stato, di seguito, respinto dall’istituto ed il caso, dopo un lungo iter giudiziario, ha raggiunto la Corte EDU. La Corte si è pronunciata sul caso per la prima volta nel 2009[34], bocciando i crocifissi perché parte integrante dell’ambiente scolastico e, dunque, considerati “powerful external symbols”[35] – al pari del velo islamico in Dahlab. Nella sentenza del 2009 si legge inoltre che, in relazione all’educazione pubblica, lo Stato ha il dovere di mantenere la neutralità confessionale, soprattutto considerando i casi ove la frequenza scolastica è obbligatoria[36].
In seguito alla sentenza del 2009 che condannava l’Italia, il Governo italiano ha chiesto rinvio alla causa dinnanzi alla Grande Camera della Corte di Strasburgo, che dopo due anni ha ribaltato la sentenza precedente costruendo il proprio ragionamento su tre principali motivazioni.
In primo luogo, la Corte ha abbandonato la definizione di “segno esteriore forte” per descrivere il crocifisso, adducendo che le circostanze fattuali dei due casi Dahlab e Lautsi fossero del tutto diverse[37]. Dopodiché, la Grande Camera ha dichiarato che l’articolo 2 del Protocollo 1 della Convenzione EDU, pur stabilendo l’obbligo da parte dello Stato di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori nell’esercizio dell’educazione pubblica, non impedisce tuttavia allo Stato di diffondere attraverso l’insegnamento delle informazioni o delle conoscenze che abbiano un carattere religioso o filosofico[38]. Infine, nel legittimare la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, la Corte ha dichiarato che questo sia “un simbolo essenzialmente passivo”[39].
Un altro caso che ha preso in esame il crocifisso risale al 2013 ed è Eweida e Altri c. Regno Unito[40]. La ricorrente, un’impiegata di British Airways, ha denunciato di esser stata licenziata dall’azienda perché portava una croce al collo, ponendosi in contrasto con le politiche aziendali. La sentenza della Corte, a favore della ricorrente, ha difeso il diritto della suddetta di manifestare la propria religione e di comunicare agli altri il proprio credo. Inoltre, i giudici hanno dichiarato che, nonostante il Regno Unito sia dotato di mezzi legali idonei al riconoscimento della libertà di religione, le autorità statali non hanno poi, di fatto, garantito tale diritto. Infine, le politiche di British Airways sono state dichiarate non proporzionate e non giustificabili ai sensi dell’articolo 9 CEDU, perché la ricorrente portava il crocifisso in maniera discreta e non vi era alcuna evidenza che l’uso di altri capi di abbigliamento religioso precedentemente autorizzati dalla compagnia – come turbanti e hijab – da parte di altri dipendenti, abbia avuto un impatto negativo sul marchio o sull’immagine di British Airways[41].
Conclusioni
L’approccio della Corte EDU nei confronti dei veli islamici è connotato da un’importante complessità, sia per la difficoltà che permea il rapporto tra Stato e religione – da declinarsi poi a livello europeo – sia perché l’interpretazione che la Corte ha fornito nel corso del tempo è mutata notevolmente.
Se inizialmente, soprattutto in relazione ai casi Dahlab e Sahin, la Corte ha individuato l’hijab come una forma di discriminazione di genere[42], ci sono voluti tredici anni prima che tale interpretazione venisse abbandonata in S.A.S c. Francia. È interessante notare che, proprio in quest’ultimo caso, la ricorrente abbia enfatizzato che né il marito né alcun membro della sua famiglia avessero esercitato qualche tipo di pressione su di essa affinché vestisse il burqa ed il niqāb[43].
Inoltre, nei casi precedenti alla sentenza S.A.S, sembra che la Corte si sia basata su premesse di significato dei veli generiche e non comprovate, invece che attuare un’analisi approfondita sulle ragioni che hanno portato gli Stati a adottare i divieti[44].
Da una parte, il cambio di rotta che è avvenuto con la sentenza S.A.S. non può che apportare beneficio al modo in cui i veli islamici vengono percepiti e interpretati nella giurisprudenza CEDU, ma vi sono alcune criticità che, purtroppo, rimangono latenti anche dopo tale caso.
Prima di tutto, anche se i veli islamici hanno cessato di essere in diretto contrasto con l’uguaglianza di genere, è necessario considerare che le giustificazioni comunemente addotte dai legislatori nazionali per vietare i copricapi islamici riguardano principi generali, come quello del “vivre ensemble”, che non possono essere invocati a costo delle libertà civili delle donne. Soprattutto, se non vi è altra scelta all’infuori di un divieto che limiti il diritto alla libertà di religione e di espressione, è essenziale che vi sia completa trasparenza nei ragionamenti che portano a tale restrizione e che si instauri un effettivo dialogo tra tutte le parti coinvolte[45].
Inoltre, nei casi che concernono i veli islamici, la Corte ha concesso un ampio margine di apprezzamento agli Stati, ritenendo che le autorità statali siano più competenti a definire i loro rapporti con la religione. Orbene, se da una parte questo può essere vero, la dottrina del margine d’apprezzamento non può configurarsi come una concessione illimitata; invero, tramite un approccio case by case, la Corte ha il dovere di controbilanciare tale margine monitorando la proporzionalità, lo scopo perseguito e la necessarietà in una società democratica di misure che prevedono un’ingerenza statale nell’esercizio delle libertà e dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione EDU.
Se tale esercizio di bilanciamento fosse stato compiuto, ci si sarebbe potuti aspettare che, ad esempio, le misure adottate in Francia e Svizzera avessero avuto un esito diverso da quelle adottate in Turchia[46]. I contesti nazionali, infatti, sono molto diversi ed il principio di laicità statale in tali contesti ha avuto origine per motivi differenti, ma nei ragionamenti della Corte di Strasburgo, non vi è cenno di un’analisi comparata a riguardo.
Soprattutto, non si tiene conto che, nei diversi casi, i divieti di utilizzare i veli islamici vengono adottati in ambienti molto differenti: in Dahlab, per esempio, la ricorrente era un’insegnante, in Sahin, una studentessa universitaria e in Ebrahimian un’assistente sociale presso un ospedale pubblico. Di volta in volta, manca una effettiva e concreta valutazione in merito all’influenza che queste figure possono esercitare nei confronti, rispettivamente, di altri studenti e studentesse, degli alunni e dei pazienti psichiatrici.
Parimenti, la Corte sembra arrivare alle stesse conclusioni anche in casi – come S.A.S. c. Francia – ove la sicurezza e problemi di identificazione sono in ballo. Poggiandosi su principi semplicistici – come quello del “vivre ensemble”, o del velo come “ostentatious manifestation” – la Corte EDU ha legittimato misure altamente ingerenti nella vita di queste donne, non preoccupandosi di fornire una più dettagliata definizione, né motivando le ragioni che hanno portato all’utilizzo di tali espressioni.
Inoltre, si riscontra un importante paradosso se si considera la giurisprudenza CEDU concernente i veli islamici con quella che ha interessato il crocifisso cristiano. Le ragioni addotte a legittimare il divieto del velo islamico in contesti scolastici per preservare la libertà di religione e la neutralità dell’insegnamento, a rigor di logica, avrebbero forse dovuto guidare la Corte anche in Lautsi, eppure in quest’ultimo caso, data l’apparente “passività” del crocifisso – definizione, tra l’altro non corroborata da attenta disamina – i giudici sono arrivati ad una conclusione differente.
Peraltro, sembra che sia in vigore un “doppio standard”: per ciò che concerne le misure che hanno interessato i veli islamici indossati in contesti pubblici, la Corte ha lasciato un ampio margine d’apprezzamento ai governi, considerando i divieti come necessari in una società democratica, mentre i giudici CEDU hanno notevolmente ridotto il suddetto margine a favore del crocifisso, ribadendo il diritto di manifestare la propria religione[47]. Sembra dunque lecito chiedersi, soprattutto in riferimento al caso Ebrahimian, quale sia il confine tra “manifestazione” e “ostentatious manifestation” e in virtù di quale ragione la seconda espressione non sia legittima in Europa.
Prima facie, la complessità della relazione tra gli Stati membri ed i veli islamici sembra “paralizzare” la Corte di Strasburgo, che volentieri si affida alla dottrina del margine d’apprezzamento. Pur essendo comprensibile tale atteggiamento, alla luce di quanto il dibattito sulla religione sia notevolmente politicizzato nel dibattito pubblico europeo, ciò non basta a validare divieti che hanno un considerevole impatto sulle vite delle donne islamiche che decidono di manifestare la propria appartenenza religiosa.
In ogni caso, dal momento che l’argomento non cessa di essere oggetto di accese discussioni, sembra improbabile che la Corte non tornerà sulla questione dei veli islamici nel futuro, sperando possa sciogliere alcuni nodi fondamentali del discorso, lasciati ancora in sospeso.
[1] E. Beardsley, “French Senate Voted To Ban The Hijab For Minors In A Plea By The Conservative Right”, disponibile qui: https://www.npr.org/2021/04/08/985475584/french-senate-voted-to-ban-the-hijab-for-minors-in-a-plea-by-the-conservative-ri
[2] E. Brems, The Experiences of Face Veil Wearers in Europe and the Law, Cambridge Studies in Law and Society, 2014.
[3] Ibidem.
[4] S. Mechoulan, “The case against the face-veil: A European perspective”, International Journal of Constitutional Law, Volume 16, Issue 4, Ottobre 2018, pp. 1267–1292, disponibile qui: https://doi.org/10.1093/icon/moy099
[5] L. Mancini, “Burqa, niqab e diritti della donna”, Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, Fascicolo 1, aprile 2012.
[6] Si veda anche A. Giusti, “Velo islamico sul posto di lavoro: il divieto di indossarlo è legittimo”, Ius in Itinere, 30 marzo 2017, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/velo-islamico-sul-posto-lavoro-divieto-indossarlo-legittimo-1781
[7] A. A. Rita, “Assertion of Wearing Hijab in the Community: an Analysis”, American Scientific Research Journal for Engineering, Technology, and Sciences (ASRJETS), Volume 29, No. 1, pp 340-347, 2017, disponibile qui: https://www.asrjetsjournal.org/index.php/American_Scientific_Journal/article/view/2815/1090
[8] R. Aluffi Beck-Peccoz, “Burqa and Islam”, in A. Ferrari e S. Pastorelli The Burqa Affair Across Europe: Between Public and Private Space, Cultural Diversity and Law in Association with RELIGARE, 2013.
[9] Cor., XXXIII:59 recita così: “O Profeta, di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate. Allah è perdonatore, misericordioso”, disponibile qui: https://www.sufi.it/Corano/33.htm
[10] A. Frisina, C. Hawthorne, “Italians with veils and Afros: gender, beauty, and the everyday anti-racism of the daughters of immigrants in Italy”, Journal of Ethnic and Migration Studies, 44:5, 718-735, 2018, disponibile qui: https://doi.org/10.1080/1369183X.2017.1359510
[11] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 42393/9, Dahlab contro Svizzera, 2001, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-22643
[12] L’articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che stabilisce la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, così recita. “1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”.
[13] B. Kooner, “The veil of ignorance: a critical analysis of the French ban on religious symbols in the context of the application of Article 9 of the ECHR”, Mountbatten Journal of Legal Studies, Vol. 12, No. 2. pp. 23-71, 2008, disponibile qui: https://pure.solent.ac.uk/files/23974409/2008_12_2_2_.pdf
[14] Per “margine d’apprezzamento” si intende un metodo di interpretazione della Corte EDU nell’applicare le norme della Convenzione EDU, secondo il quale viene concesso agli Stati membri un certo livello di discrezionalità nell’implementazione della Convenzione. Tale dottrina si basa sulla constatazione che le autorità nazionali, avendo una più profonda conoscenza della realtà politico-sociale specifica del proprio Stato, si trovino, in certi casi, in una posizione più favorevole rispetto alla Corte EDU. Esso non compare esplicitamente nella Convenzione, ma è stato menzionato per la prima volta nel caso Irlanda c. Regno Unito del 18 gennaio 1978. Per approfondimenti, Macdonald R. St. J., “The Margin of Appreciation in the Jurisprudence of the European Court of Human Rights” in Collected Courses of the Academy of European Law, 1992.
[15] Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 30 CEDU, si ricorre alla Grande Camera CEDU “se la questione oggetto del ricorso all’esame di una Camera solleva gravi problemi di interpretazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o se la sua soluzione rischia di dar luogo a un contrasto con una sentenza pronunciata anteriormente dalla Corte”.
[16] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 44774/98, Leyla Sahin contro Turchia, 2005, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-70956
[17] Ivi, paragrafo 16, la circolare in oggetto così recita: “By virtue of the Constitution, the law and regulations, and in accordance with the case-law of the Supreme Administrative Court and the European Commission of Human Rights and the resolutions adopted by the university administrative boards, students whose ‘heads are covered’ (who wear the Islamic headscarf) and students (including overseas students) with beards must not be admitted to lectures, courses or tutorials. Consequently, the name and number of any student with a beard or wearing the Islamic headscarf must not be added to the lists of registered students”.
[18] R. Nigro, “The Margin of Appreciation Doctrine and the Case-Law of the European Court of Human Rights on the Islamic Veil”, Hum Rights Rev 11:531–564, 2010, disponibile qui: https://link.springer.com/article/10.1007/s12142-010-0161-z
[19] S. Pei, “Unveiling Inequality: Burqa Bans and Nondiscrimination Jurisprudence at the European Court of Human Rights”, 122 Yale L.J. 1089, 2012, disponibile qui: https://ssrn.com/abstract=2171049
[20] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 44774/98, Leyla Sahin contro Turchia, 2005, paragrafo 116.
[21] R. Nigro, op. cit.
[22] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 27058/05, Dogru contro Francia, 2008, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-90039
[23] R. Nigro, op. cit.
[24] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 43835/11, S.A.S. contro Francia, 2014, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-145466
[25] A. Balto, “The Position of the Islamic Veil in Europe: Analysing How the European Court of Human Rights Interprets Article 9 of the European Convention on Human Rights.”, 2015, disponibile qui: https://www.semanticscholar.org/paper/The-Position-of-the-Islamic-Veil-in-Europe%3A-How-the-Balto/493064337bc38c9091e49239a9da57efc753af71
[26] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 64846/11, Ebrahimian contro Francia, 2015, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-159070
[27] Ivi, paragrafo 61.
[28] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 4619/12, Belcacemi e Oussar contro Belgio, 2017, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-175141
[29] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 4619/12, Dakir contro Belgio, 2017, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-175660
[30] M. Ferri, “Belkacemi and Oussar v Belgium and Dakir v Belgium: the Court again addresses the full-face veil, but it does not move away from its restrictive approach”, Strasbourg Observers, 2017, disponibile qui: https://strasbourgobservers.com/2017/07/25/belkacemi-and-oussar-v-belgium-and-dakir-v-belgium-the-court-again-addresses-the-full-face-veil-but-it-does-not-move-away-from-its-restrictive-approach/
[31] Ibidem.
[32] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 30814/06, Lautsi contro Italia, 2011, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-104040
[33] “Crocifisso in classe, controversia infinita: ecco cosa dice la legge”, Il Messaggero, martedì 1° ottobre 2019, disponibile qui: https://www.ilmessaggero.it/politica/crocifisso_scuola_cosa_dice_legge_oggi_1_ottobre_2019-4769659.html
[34] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 30814/06, Lautsi contro Italia, 2009, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-95589
[35] Ivi, paragrafo 54.
[36] Ivi, paragrafo 56.
[37] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 30814/06, Lautsi contro Italia, 2011, paragrafo 73.
[38] Ivi, paragrafo 63.
[39] Ivi, Paragrafo 72.
[40] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorsi n. 48420/10, 59842/10, 51671/10 e 36516/10, Eweida e Altri contro Regno Unito, 2013, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-115881
[41] Ibidem.
[42] R. Nigro, op.cit.
[43] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 43835/11, S.A.S. contro Francia, 2014, paragrafo 11.
[44] R. Nigro, op.cit.
[45] A. Balto, op.cit.
[46] R. Nigro, op.cit.
[47] Y. Yamashita, “The Polysemous Veil in Contemporary Europe: Striking a Balance between Universal and Particular Identities in Modern Secular States”, Transcommunication Vol.5-1, Spring 2018, disponibile qui: https://core.ac.uk/reader/154931240
Martina Molinari, classe 1996, laureata in Scienze Internazionali, dello Sviluppo e della Cooperazione, ha conseguito la laurea magistrale European Legal Studies presso la Facoltà di Giurisprudenza di Torino con tesi in diritto comparato (“Intersexuality and the Law: Current European Approaches”). Appassionata di diritti umani ed Unione Europea, collabora con StraLi, associazione torinese per la Strategic Litigation e frequenta il master di primo livello in Studi e Politiche di Genere presso L’Università Roma Tre. Collaboratrice dell’area di diritto internazionale, con particolare interesse per i diritti umani fondamentali ed il diritto alla non discriminazione all’interno dell’Unione Europea.