mercoledì, Novembre 13, 2024
Criminal & Compliance

Il dolo colpito a mezza via dall’errore: principi, casistica e criticità

1. Definizione e questione problematica

La fattispecie del dolo colpito a mezza via dall’errore si verifica quando “l’agente tiene un determinato comportamento sulla base di una direttiva psicologica rapportabile ad una falsa rappresentazione della realtà fenomenica ed in tali condizioni realizza il risultato preso di mira anteriormente al formarsi dell’erroneo convincimento di averlo già cagionato[1]. L’elemento soggettivo del dolo risulta dunque, in questi casi, colpito in itinere dall’errore, proprio perché è la falsa rappresentazione della realtà a determinare il successivo comportamento del reo.

Si tratta di una problematica di non poco momento, in quanto entrano in gioco svariate e contrapposte esigenze: da un lato, il rispetto del principio di colpevolezza imporrebbe di dare rilevanza all’errore sul fatto che, com’è noto, esclude il dolo; dall’altro lato, esigenze di prevenzione generale suggerirebbero una lettura più restrittiva della questione, in modo da comminare sanzioni penali adeguate al disvalore sociale di siffatte condotte lesive.

Sul punto, come si vedrà in seguito, in dottrina ed in giurisprudenza si sono formati due differenti orientamenti.

2. La teoria del dolus generalis

Secondo un primo orientamento, le sopracitate condotte condurrebbero il reo ad una responsabilità penale per omicidio volontario, sulla base di un elemento psicologico riconducibile allo schema del dolus generalis.

Tale atteggiamento psichico sarebbe in grado di estendere il dolo della prima condotta anche alla seconda, diretta all’occultamento del cadavere. Si giustificherebbe, dunque, il dolo di omicidio sulla base di una presunzione, tale per cui se l’agente si fosse reso conto della vitalità della vittima, avrebbe comunque perseverato nella condotta omicidiaria.

Il dolo è costituito dalla rappresentazione e dalla volizione dell’evento: la morte, pur avvenuta a seguito di altra condotta non sorretta dall’elemento rappresentativo, sarebbe comunque compatibile con la rappresentazione e volontà iniziale, ricollegabile all’animus necandi con cui l’imputato ha compiuto la prima condotta lesiva. “L’agente voleva la morte, l’agente ha causato la morte[2]”.

Un ulteriore argomento ricavabile dalla tesi in discorso è rappresentato dall’irrilevanza, nel nostro ordinamento, dell’aberratio causae: si tratta dell’ipotesi in cui l’agente commette il delitto preveduto e voluto attraverso uno sviluppo causale diverso da quello prospettato (per esempio, Tizio vuole cagionare la morte di Caio investendolo con un pesante automezzo ed invece ne provoca il decesso poichè, sobbalzandolo in aria per effetto dell’investimento, gli fa sbattere il capo contro il muro di un’abitazione). Perciò, nemmeno nella casistica in parola potrebbe avere rilevanza il differente sviluppo causale che porta alla morte della vittima tramite le condotte di occultamento, atteso che l’elemento soggettivo del dolo di omicidio non verrebbe meno per effetto dell’aberratio causae.

Appare evidente come una simile lettura sia improntata a ragioni di politica criminale: sarebbe iniquo non punire l’autore per omicidio volontario soltanto perché, per cause indipendenti dalla sua volontà, non sia riuscito a cagionare la morte per effetto della prima condotta.

3. La teoria del dolo colpito a mezza via dall’errore

L’opinione assolutamente prevalente in giurisprudenza riconduce le ipotesi in premessa nell’ambito della disciplina del dolo colpito a mezza via dall’errore.

Come già riportato, l’atteggiamento psicologico dell’agente viene colpito in itinere da un errore sul fatto: nell’erronea convinzione di aver cagionato la morte della vittima, il reo ne occulta o distrugge il cadavere, provocandone il decesso tramite la condotta successiva.

Secondo la giurisprudenza, tale schema criminoso non può, in astratto, ricondursi alla fattispecie di omicidio volontario: “quando la condotta dell’agente sia consapevolmente diretta a realizzare un determinato evento, ma questo si verifica non per effetto di quella condotta, bensì di un comportamento sorretto dall’erroneo convincimento della già avvenuta produzione dell’evento, quest’ultimo non può essere imputato a titolo di dolo, se non sotto il profilo del delitto tentato, mentre l’ulteriore frammento della condotta può essere ascritto solo a titolo di colpa, ove il fatto da essa integrato sia previsto come delitto colposo[3]“. La Suprema Corte, ordunque, afferma che in tali ipotesi l’imputato risponderebbe del reato di tentato omicidio in concorso con quello di omicidio colposo.

La correttezza di tali coordinate ermeneutiche è da ricercarsi in plurime argomentazioni.

Anzitutto, non pare profilarsi nei casi di specie un’ipotesi di aberratio causae. Invero, nei casi di aberrazione dei fattori causali la condotta è unica, mentre nelle ipotesi di dolo colpito a mezza via dall’errore vi sono due distinte condotte: la prima, lesiva, e la seconda di occultamento o distruzione del cadavere. Inoltre, il fattore di aberrazione non è costituito da un fattore naturalistico, bensì da una condotta successiva dell’agente, che deve essere autonomamente valutata sotto il profilo dell’elemento soggettivo.

Ancora, la lettura interpretativa in parola appare rispettosa del principio di colpevolezza e dei criteri di accertamento del dolo. Scomponendo la condotta dell’agente, si può ragionevolmente sostenere come la prima condotta, sorretta da animus necandi, non possa integrare la fattispecie di omicidio, poiché l’evento morte non si è verificato: il reo risponderà ordunque di omicidio solo tentato. In via successiva, se l’imputato risulti erroneamente convinto dell’avvenuta morte, ed occulti il cadavere della vittima, non potrebbe mai essere in dolo di omicidio, ma soltanto in dolo di occultamento di cadavere. Cagionando infine la morte per effetto di tale ultima condotta, l’errore sul fatto, ai sensi dell’art. 47 c.p. escluderà il dolo di omicidio: qualora, tuttavia (come quasi sempre accade) sia ravvisabile una colpa in concreto in capo all’agente nei confronti del successivo decesso, l’autore dell’occultamento risponderà certamente di omicidio colposo (in concorso con la fattispecie di tentato omicidio).

L’orientamento interpretativo della Cassazione necessita tuttavia di due precisazioni. La prima, di cui si è già trattato, richiede che ai fini dell’applicazione del regime giuridico in esame si ravvisino in concreto due distinte condotte imputabili all’agente (e non una soltanto, potendo eventualmente ricorrere in tal caso la figura dell’aberratio causae che non esclude il dolo).

La seconda, di rilevante importanza, riguarda l’erroneo convincimento sull’avvenuto decesso. Sottolinea la Cassazione che “se l’agente non è certo di avere prodotto l’evento letale e le manovre dirette ad occultare il corpo sono idonee a cagionare la morte, ove non ancora sopravvenuta, egli si prefigura comunque il decesso quale premessa necessaria dell’ulteriore risultato perseguito e la sua azione è caratterizzata da dolo (alternativo) di omicidio[4]”. Si ritiene dunque necessario, ai fini dell’applicabilità del principio in esame, che l’agente non nutra alcun dubbio sulla vitalità del corpo: se non vi è certezza soggettiva circa il decesso della vittima, l’agente risponderà di omicidio volontario, integrando l’elemento soggettivo del reato con dolo diretto nella forma del dolo alternativo, ovvero con dolo eventuale.

Conclusivamente, per rispondere all’interrogativo oggetto dell’esempio riportato in premessa, Tizio, applicando l’orientamento prevalente, risponderà dei reati di tentato omicidio in concorso col delitto di omicidio colposo per la morte di Caio.

4. La casistica giurisprudenziale

Descritti gli orientamenti interpretativi in tema di dolo colpito a mezza via dall’errore, è opportuno verificare alcuni casi concreti per valutare come la Suprema Corte abbia trasposto i principi di diritto poc’anzi ricordati alle fattispecie oggetto del suo sindacato giurisdizionale.

In un primo caso[5], la Corte ha correttamente escluso la ricorrenza della fattispecie in discorso, condannando l’imputata per omicidio volontario, in quanto la stessa colpiva la vittima con 39 coltellate, non essendo peraltro convinta del decesso e senza neppure attuare una seconda condotta di occultamento (appariva dunque infondata la tesi difensiva che, sottolineando l’erronea convinzione della morte in capo all’imputata, affermava che il decesso sarebbe avvenuto per effetto di una successiva attività omissiva da parte della medesima, riconducibile alla fattispecie di omicidio colposo, ovvero di omissione di soccorso).

In altra pronuncia[6], la Cassazione si è occupata di un caso in cui l’imputato colpiva la vittima per 4 o 5 volte con un oggetto contundente, dopodichè caricava la stessa nel bagagliaio dell’auto, spogliandola dei suoi averi (tra cui collane, anelli ed un orologio) ed infine appiccava il fuoco all’automezzo, cagionandone la morte proprio attraverso quest’ultima condotta. In tale fattispecie, i giudici hanno escluso trattarsi di dolo colpito a mezza via dall’errore, valorizzando la condotta dell’imputato nella parte in cui spogliava la vittima dei suoi averi: ad avviso della Suprema Corte l’imputato, per effetto di un contatto così ravvicinato con la vittima, non poteva non essersi accorto della vitalità del corpo. E dunque, la sua condotta sarebbe stata sorretta da un dolo diretto, sufficiente per l’accertamento della responsabilità penale a titolo di omicidio volontario.

Già in ordine a tale ultima pronuncia possono muoversi alcune considerazioni critiche, in quanto i giudici si sono affidati ad un dato (quello del contatto) del tutto presuntivo, forse peccando di motivazione nella fase dell’accertamento del dolo, punto cardine ed essenziale nella risoluzione di un caso di questa portata; infatti, pur aderendo alla teoria del dolo colpito a mezza via dall’errore, la Corte ne esclude la riconducibilità al caso in esame, forse in modo semplicistico, nonostante i condivisibili dubbi espressi dalla difesa dell’imputato in merito alla rilevanza dell’errore sull’avvenuto decesso.

Si legge infatti in sentenza, nel punto in cui si richiamano i motivi di impugnazione: “a conferma della tesi difensiva concorre l’interrogatorio del 14.6.2011, nel corso del quale l’imputato ha parlato della sua intenzione di sbarazzarsi del cadavere, della sua intenzione di gettare la macchina nel lago e della decisione di appiccarvi invece il fuoco perchè il bagagliaio non si chiudeva; da qui le conferme alla ricostruzione difensiva, l’uso della parola “cadavere”, il fuoco appiccato non già per uccidere ma per cancellare ogni traccia; la stessa contestazione, inoltre, conferma la tesi difensiva, giacchè, se accusato di aver occultato il cadavere, ciò presuppone che l’imputato, per lo stesso P.M., avesse a che fare con un corpo senza vita e non già con una vittima ancora in vita finita con il fuoco appiccato[7]”. La Corte sembrerebbe disinteressarsi di tali evenienze fattuali, del tutto convergenti verso la rilevanza dell’errore, affidandosi a criteri presuntivi e forse, come si dirà in seguito, ribaltando l’onere della prova dell’errore a carico dell’imputato.

Da ultimo, si è occupata della problematica una recente sentenza della Cassazione[8] in ordine ad un tragico fatto: l’imputato colpiva il figlio con un oggetto contundente, tramortendolo. Il colpo era di tale forza da ridurre il figlio in uno stato di coma: al che l’imputato appiccava il fuoco al suo corpo, condotta secondaria che purtuttavia ne cagionava la morte.

Anche in questo caso la Corte, pur accogliendo in linea teorica il principio della rilevanza dell’errore che colpisca in itinere il dolo, ne esclude la sussistenza: affermano i giudici della Corte che il comportamento dell’imputato può dirsi di tipo unitario, poiché durato per un breve lasso di tempo e connotato da una volontà omicida anche nel frammento successivo della condotta; peraltro, secondo gli Ermellini, l’imputato, pur potendo rendersi conto della vitalità del corpo, ha ciononostante proseguito l’azione criminosa, sicchè nel suo agere sarebbe quantomeno ravvisabile un dolo diretto, nella forma del dolo alternativo.

Tale pronuncia non può, tuttavia, sottrarsi ad alcuni rilievi critici.

Infatti, la censura difensiva, richiamata in sentenza, appare non priva di pregio nella parte in cui sostiene la rilevanza dell’errore sul decesso nel caso di specie: infatti il figlio dell’imputato, a seguito del violento colpo “era entrato in “coma connesso al colpo ricevuto e seguito ad ipossia da occlusione delle vie aeree o da danno assonale diffuso da scuotimento”, stato tale che gli aveva impedito qualsiasi reazione, anche al momento della combustione[9]”. Si trattava ordunque di uno stato di coma che impediva qualsiasi tipo di reazione della vittima, financo nel momento della combustione; appare dunque chiaro come l’imputato avrebbe potuto rappresentarsi l’avvenuta morte e come la condotta di distruzione del corpo fosse finalizzata a farne perdere le tracce; di tal guisa, il caso in discorso sembrerebbe proprio un caso di scuola, riconducibile al principio del dolo colpito a mezza via dall’errore. Per effetto di tali considerazioni, i giudici avrebbero dovuto compiere un accertamento maggiormente penetrante sull’elemento soggettivo ravvisabile nella condotta successiva di carbonizzazione del corpo.

Eppure, la Corte si limita ad affermare che l’imputato si sarebbe reso conto della vitalità della vittima, richiamando le motivazioni della sentenza impugnata. La pronuncia, non dimostrando compiutamente la mancanza di un errore sul fatto in capo al reo, o comunque non provando oltre ogni ragionevole dubbio il dolo di omicidio nel frammento successivo dell’azione, sembrerebbe ancora una volta invertire l’onere della prova a carico dell’imputato, basandosi su di una presunzione per ricostruire in capo all’agente un elemento soggettivo compatibile con il dolo diretto di omicidio, nella forma del dolo alternativo.

5. Conclusioni e criticità

Nonostante la correttezza della ricostruzione dogmatica operata dalla giurisprudenza in tema di dolo colpito a mezza via dall’errore, sono emerse, come si è visto, criticità nell’applicazione di tale principio interpretativo ai casi concreti.

Tutte le pronunce analizzate, infatti, pur aderendo al tema della rilevanza dell’errore in itinere, sembrerebbero non applicarne correttamente i principi, talora affidandosi a criteri del tutto presuntivi, talora utilizzando le altre forme di dolo (ed in particolare, quelle del dolo diretto nella forma del dolo alternativo, e del dolo eventuale) come mezzo per rievocare l’esistenza di un dolus generalis.

Così facendo, la giurisprudenza sembrerebbe tradire la volontà di adeguare la risposta sanzionatoria a fatti certamente efferati, nell’ottica di esigenze specialpreventive e di politica criminale; in tal modo, tuttavia, le Corti compiono un passo indietro, vulnerando il principio di colpevolezza e difettando nel compiere il rigoroso accertamento dell’elemento soggettivo del dolo.

Si auspica, dunque, che in futuro la giurisprudenza faccia buon uso di un principio che la stessa ha correttamente enunciato. E’soprattutto davanti ai crimini di maggior allarme sociale che deve essere massimamente garantito il rispetto dei principi cardine del diritto penale, tra i quali, ovviamente, spicca il principio di colpevolezza.

[1] Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 12466, 26 Marzo 2007

[2] R. Garofoli, Diritto Penale – Parte Speciale, Edizione 2019-2020

[3] Ex plurimis, Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 48260, 20 Novembre 2014

[4] Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 12466, 26 Marzo 2007

[5] Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 12466, 26 Marzo 2007

[6] Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 15774, 15 Aprile 2016

[7] Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 15774, 15 Aprile 2016

[8] Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 22807, 23 Maggio 2019

[9] Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 22807, 23 Maggio 2019

Dario Quaranta

https://avvocatodarioquaranta.it/ Avvocato penalista, nato nel 1993. Ha conseguito il Master universitario di secondo livello in Diritto Penale dell'Impresa, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, con la votazione di 30/30 e lode, ottenendo altresì il premio indetto dall'Associazione AODV231 destinato ad uno studente del Master distintosi per merito, ex aequo con altro partecipante. E' membro dell'Osservatorio Giovani e Open Day dell'Unione delle Camere Penali Italiane ed è responsabile della Commissione Giovani della Camera Penale di Novara. Frequenta dal 2021 il Corso biennale di tecnica e deontologia dell’avvocato penalista, attivato dalla Camera Penale di Torino. Si laurea in Giurisprudenza all'Università del Piemonte Orientale con la votazione di 110/110, discutendo una tesi in diritto penale intitolata: "La tormentata vicenda del dolo eventuale: il caso Thyssenkrupp ed altri casi pratici applicativi". Durante gli studi universitari ha effettuato un tirocinio di 6 mesi presso la Procura della Repubblica di Novara, partecipando attivamente alle investigazioni ed alle udienze penali a fianco del Pubblico Ministero. Da Maggio 2018 è Praticante Avvocato presso lo Studio Legale Inghilleri e si occupa esclusivamente di diritto penale. Da Dicembre 2018 è abilitato al patrocinio sostitutivo. Ad Ottobre del 2020 consegue l'abilitazione all'esercizio della professione di Avvocato presso la Corte d'Appello di Torino, riportando voti elevati nelle prove scritte (40-35-35) ed agli orali. Nel corso della sua attività professionale ha affrontato molte pratiche di rilievo, inerenti in particolar modo i delitti contro la Pubblica Amministrazione,  i delitti contro la persona, contro la famiglia e contro il patrimonio, nonchè in tema di reati tributari, reati colposi, reati fallimentari e delitti relativi al DPR n.309/1990. Si è occupato inoltre di importanti procedimenti penali per calunnia e diffamazione. Ha sostenuto numerose e rilevanti udienze penali in completa autonomia. E' collaboratore dell'area di Diritto Penale di Ius In Itinere e di All-In Giuridica, ed ha pubblicato un contributo sulla rivista Giurisprudenza Penale . E'altresì autore della sua personale rubrica di approfondimento scientifico, denominata "Articolo 40", disponibile sul sito della Camera Penale di Novara. Vanta 46 pubblicazioni sulle menzionate riviste e banche dati, tra contributi autorali e note a sentenza. Indirizzo mail: dario.quaranta40@gmail.com

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