Il nuovo delitto di istigazione alla corruzione tra privati di cui all’art. 2635 bis del Codice civile
A cura di: Davide Costa
Profili innovativi e criticità.
Il d.lgs. 38 del 15 marzo 2017, nel più generale contesto di riforma del delitto di corruzione tra privati di cui all’art. 2635 C.c., ha introdotto al Titolo XI del Libro V del Codice civile la fattispecie di istigazione alla corruzione tra privati, peculiare ipotesi speciale di tentativo procedibile a querela della persona offesa e sanzionata con la pena detentiva prevista per il reato di cui all’art. 2635, ridotta di un terzo.
Nel dettaglio, la disposizione punisce il fatto di chi offre o promette denaro o altra utilità non dovuti agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di società o enti privati, nonché a chi svolge in essi un’attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, affinché compia od ometta un atto in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio o degli obblighi di fedeltà.
Vengono altresì puniti gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati, nonché chi svolge in essi attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, che sollecitano per sé o per altri, anche per interposta persona, una promessa o dazione di denaro o di altra utilità, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, qualora la sollecitazione non sia accettata.
L’ingresso dell’istigazione alla corruzione privata nel nostro ordinamento trova la sua ragione nella volontà del legislatore di dare attuazione alle misure contenute nella Decisione Quadro 568 del 2003 della Commissione Europea, il cui art. 3 imponeva agli Stati membri di sanzionare l’istigazione alla corruzione tra privati attiva e passiva e il favoreggiamento alla stessa.
Un esame più analitico della nuova disposizione consente però di interpretare quest’ultima come il frutto di un inspiegabile cortocircuito legislativo che presumibilmente darà vita a molteplici criticità interpretative ed applicative.
Nelle altre traduzioni il “favoreggiamento” è stato infatti tradotto in “aiding and abetting”, “complicité” e “Beihilfe”, termini che in inglese, francese e tedesco fanno riferimento non già ai reati di cui agli artt. 378 e 379 C.p. (che potrebbero invero applicarsi anche alla corruzione tra privati post 2017), bensì a condotte di concorso e di agevolazione nella commissione del reato da parte di terzi (dunque anche tramite istigazione). Come è stato correttamente riportato dalla scarna dottrina[1] in tema di art. 2635bis C.c., che la disposizione comunitaria intendesse l’istigazione come una forma di concorso di terzi nel reato proprio è del resto confermato dal paragrafo 2.2 della relazione della Commissione europea del Giugno 2011[2], la cui versione inglese (erroneamente tradotta) sottolinea come l’art. 3 “focuses on secondary participation in corruption through instigation, aiding and abetting. It does not address attempted offences”, sottolineando in nota che la corruzione attiva e passiva contemplano già condotte quali l’offerta e la richiesta.[3]
Il richiamo del legislatore europeo verso il nostro paese non era dunque rivolto all’introduzione di una fattispecie di istigazione posta in essere dai soggetti di cui all’art. 2635 C.c., bensì alla previsione di un’autonoma ipotesi di concorso materiale o morale nel reato da parte di terzi “esterni” all’accordo strictu sensu.
Il legislatore italiano, per contro, ha invece tipizzato due forme di istigazione alla corruzione poste in essere dai medesimi soggetti. La prima la si può individuare nella stessa fattispecie di cui all’art. 2635 C.c., che oggi, infatti, contempla nel fatto tipico anche la “sollecitazione” dell’intraneus corrotto a farsi dare o promettere denaro o altra utilità e l’”offerta” del suddetto denaro o utilità proveniente dal corruttore.
Si tratta di condotte che tuttavia determinano già la consumazione del delitto di corruzione tra privati, pur manifestando un’offesa sicuramente meno grave di quella originata dalla concreta accettazione e dazione del denaro o dell’utilità, condotte da cui deriva l’effettiva stipulazione dell’accordo corruttivo, elemento sul quale si incentra pacificamente il disvalore tipico di ogni corruzione.
La seconda forma di istigazione è invece quella prevista proprio dall’art. 2635bis C.c., e introduce un’ipotesi speciale di tentata corruzione tra privati integrata a seguito della mancata accettazione della sollecitazione o dell’offerta medesime, in pieno parallelismo con il reato di istigazione alla corruzione pubblica di cui all’art. 322 C.p.
Se il senso dell’art. 322 C.p. si spiega tuttavia nell’assenza delle condotte di sollecitazione e di offerta dalla lettera degli artt. 318 e 319 C.p., la contemplazione di un delitto di istigazione per la corruzione privata rappresenta al contrario un grossolano fraintendimento.
Se infatti, come già evidenziato supra, la sollecitazione e l’offerta rappresentano forme unilaterali di corruzione ex art. 2635 C.c., non si comprende quale spazio applicativo residuo potrebbe venir concesso all’art. 2635bis C.c. Si tratterebbe infatti di spiegare in che modo la medesima condotta possa integrare contemporaneamente due diversi reati: la sola apparente soluzione consisterebbe forse nel considerare necessario, ai fini della configurazione della corruzione tra privati, l’accoglimento dell’offerta o della sollecitazione (che a questo punto andrebbero però a confluire, di fatto, nelle condotte di “promettere/dare” e “accettare la promessa/ricevere”, confermando l’inutilità dell’aggiunta) e solo qualora queste non siano accolte dalla controparte ammettere la sussistenza dell’istigazione. In questo modo si eviterebbe la paradossale conseguenza paventata in dottrina per cui le semplici offerte e sollecitazioni consumerebbero il reato, per poi tuttavia degradare il fatto già consumato alla “istigazione” ex art. 2635bis C.c., qualora in un secondo momento non venissero accolte dalla controparte.[4]
Vero è che anche quest’ultima acrobazia interpretativa si presterebbe a legittime critiche: ammettendo la punibilità dell’autonoma istigazione non idonea ad essere accolta (e quindi di una tentata corruzione tra privati priva dei requisiti di cui all’art. 56 C.p.) si andrebbe inevitabilmente a riconoscere una rilevanza penale a ciò che di fatto è il “tentativo di un tentativo”, toccando un livello di anticipazione della tutela inaccettabile alla luce degli stessi principi costituzionali.[5] Sarebbe del resto difficilmente tollerabile una risposta penale verso condotte quali, ad esempio, l’offerta di un’irrisoria somma di denaro ad un amministratore affinchè voti in un certo modo nella delibera consiliare qualora, proprio per il modico valore di tale offerta, la stessa non venga accettata.
La compresenza delle condotte di sollecitazione e di offerta nel reato consumato e nel reato tentato genera un altro ordine di criticità che acuiscono i dubbi sulla ragionevolezza dell’art. 2635bis C.c.
Queste criticità sono frutto del limite applicativo della norma, che infatti restringe la sua operatività alle sole istigazioni commesse da o nei confronti dei soggetti apicali indicati dal primo comma dell’art. 2635 C.c. Si può presumere che il legislatore abbia inteso escludere la punibilità per il tentativo unilaterale commesso da o nei confronti dei soggetti sottoposti alla direzione e vigilanza dei vertici societari, coerentemente con la minor pena prevista per i fatti di corruzione privata commessa dai lavoratori subordinati e dalle altre figure soggette alla vigilanza degli apicali.
L’effetto collaterale di simile scelta sta però in una contraddittoria disparità di trattamento tra i soggetti di vertice, che per la “sollecitazione” ex art. 2635bis C.c. potrebbero beneficiare della riduzione di pena prevista dalla norma, ed i sottoposti, che invece, per il medesimo fatto vedrebbero irrogarsi la sanzione più grave di cui all’art. 2635 C.c.[6]
La difficoltà nel coordinare le due disposizioni si riflette su un altro elemento normativo dell’art. 2635bis C.c., ossia la procedibilità a querela senza possibilità di deroga neppure in caso di distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o di servizi, evento che invece autorizza la procedibilità d’ufficio per il reato di cui all’art. 2635 C.c.
Se si rifiuta la possibilità di ammettere una sollecitazione od offerta non idonee a condurre alla stipulazione dell’accordo corruttivo si giunge infatti alla conclusione che, qualora queste condotte determinino una distorsione della concorrenza, sarà rimessa alla valutazione del giudice la scelta di considerare le stesse integranti un fatto di corruzione tra privati procedibile d’ufficio ovvero di ritenerle semplici istigazioni ex art. 2635bis C.c. che necessitano della querela per essere perseguite.
Può dunque concludersi il discorso sulla fattispecie de qua riconoscendo l’inutilità di una disposizione nata per armonizzare l’ordinamento italiano con le direttive europee ma che al contrario si è risolta in un grottesco fraintendimento delle stesse.
Ci si trova così di fronte ad un reato che invece di prevedere un’ipotesi speciale di concorso di estranei nel reato proprio di cui all’art. 2635 C.c. (scelta del resto coerente con le prescrizioni europee) introduce nel diritto penale societario un ibrido tra una forma anticipata di corruzione tra privati ed un fatto della cui offensività astratta e concreta è più che lecito dubitare.
Valutazioni de iure condendo portano così ad auspicare che la riforma in cantiere dei delitti di corruzione pubblica e privata, ammesso che superi il vaglio camerale, intervenga in maniera decisa sulla disciplina de qua, trasferendo le condotte di “sollecitazione” ed “offerta” in una specifica fattispecie di istigazione concretamente offensiva ovvero, in alternativa, espungendo l’art. 2635bis C.c. dall’ordinamento.
[1] S. Seminara, Il gioco infinito, Il gioco infinito: la riforma del reato di corruzione tra privati, in Diritto penale e processo, a. XXIII, 6-2017. 720 ss.
[2] V. Commissione Europea, COM (2011) 309 final: Relazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio in merito all’art. 9 della Decisione Quadro 2003/568/GAI del 22 luglio 2003 sulla lotta alla corruzione nel settore privato.
[3] Di diverso avviso sul punto è E. La Rosa, Verso una nuova riforma della corruzione tra privati: dal modello patrimonialistico a quello lealistico, in Dir. Pen. Cont., 23 dicembre 2016, 2, il quale interpreta l’obbligo di incriminare l’istigazione alla corruzione contenuto nella Decisione Quadro 568 del 2003 non riferendosi al concorso di terzi nel reato ma ai medesimi soggetti dell’art. 2635, sottolineando che “con l’espressione “istigazione alla corruzione” il legislatore europeo sembra riferirsi non già al modello delineato dal nostro art. 322 C.p. quanto a condotte prodromiche a quelle di sollecitazione e di offerta”.
[4] Sul punto v. S. Seminara, op. cit., 721.
[5] Cfr. Cass. Pen. Sez. I, 4 Luglio 2012 n. 25833. La massima della Corte, pur riferita al reato di pubblica istigazione a violare le leggi ex art. 414 C.p., costituisce un autorevole precedente al fine dell’esclusione della punibilità di istigazioni in concreto non idonee alla commissione del delitto oggetto delle stesse.
[6] I soggetti sottoposti alla direzione e alla vigilanza degli apicali che sollecitano, accettano la promessa o ricevono denaro o altra utilità per il compimento o l’omissione di atti in violazione dei propri doveri d’ufficio o di fedeltà realizzano infatti il reato di corruzione privata “passiva” ai sensi dell’art. 2635 c. 2, che prevede la pena detentiva fino ad un anno e sei mesi.
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