Il Protocollo 16 CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’UE: modelli a confronto
Nel quadro del diritto internazionale, di particolare interesse sono le esperienze giuridiche del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea[1], dal momento che entrambe queste organizzazioni sono caratterizzate dall’esistenza di una Corte alla quale spetta il compito di vegliare sul rispetto del diritto prodotto dall’organizzazione di cui sono istituzione. In particolare, mentre la Corte di giustizia dell’Unione europea esiste praticamente da sempre, ossia da quando l’UE era ancora la CECA (Comunità economica del carbone e dell’acciaio)[2], nel caso del Consiglio d’Europa, la Corte europea dei diritti dell’uomo (c.d. Corte EDU) venne istituita nel 1959 per applicare e far rispettare una convenzione internazionale firmata a Roma il 4 Novembre 1950, ovverosia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). La funzione contenziosa non è però il loro unico compito: queste Corti possono anche offrire indicazioni sulla reinterpretazione del proprio diritto.
L’art. 267 TFUE: il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea
Ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea “la Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: i) sull’interpretazione dei trattati; ii) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione.”
Il rinvio pregiudiziale può essere sollevato dalla giurisdizione di uno degli Stati membri che maturi un dubbio in ordine agli elementi sopra indicati: se il giudice nazionale, nell’applicare il diritto nazionale, ritiene che vi sia un possibile conflitto con il diritto dell’Unione, può rivolgersi alla Corte affinché questa gli fornisca la corretta interpretazione[3]. La possibilità di rivolgersi alla CGUE si trasforma in dovere quando la domanda dovrebbe essere posta da una giurisdizione nazionale contro le cui decisioni non è ammesso ricorso di diritto interno (nell’ordinamento italiano si tratta della Suprema Corte di Cassazione): intuitivamente, l’obiettivo è quello di evitare che si consolidi una giurisprudenza che si basa su una interpretazione che sarebbe stata smentita dalla CGUE (se solo le fosse stata chiesta la propria opinione in merito!) e, considerando il principio del primato del diritto comunitario, questa eventualità non può essere assolutamente accettata.
Sul punto è da ricordare l’insegnamento della Corte nel caso Kobler[4] nel quale i giudici di Lussemburgo hanno affermato come gli Stati membri siano responsabili per “la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE [ora art. 267 TFUE]”.
In ogni caso, la pronuncia della Corte ha la forma della sentenza ed essendo l’interpretazione ufficiale di una certa disposizione dell’Unione (sia essa di rango primario o secondario[5]) essa è vincolante non solo per il giudice che ha “provocato”, con ordinanza, il rinvio pregiudiziale, ma per tutti i giudici degli Stati membri. Questi dovranno tenere in considerazione la sentenza ed interpretare la propria normativa nazionale conformemente a questa, anche giungendo a disapplicare le norme di diritto interno che si ponga in contrasto con il diritto comunitario.
Non è esclusa la possibilità per un secondo giudice di adire nuovamente la Corte in sede di rinvio pregiudiziale nei limiti in cui non si integrino gli estremi dell’art. 99 del Regolamento di procedura della Corte[6]: in tal caso, questa statuisce con ordinanza motivata e non con sentenza. Procedendo così la Corte non entrerà nel merito del ricorso presentatole, ma rimanderà il giudice a quo alle sue precedenti pronunce relative alla disposizione oggetto della domanda originaria.
Il Protocollo 16 alla CEDU: un innovativo strumento di dialogo fra Corti
Mentre la competenza della Corte di giustizia a emanare sentenze contenenti interpretazioni del diritto dell’Unione (prima delle Comunità europee) è nata con la Corte stessa[7], la Corte EDU è stata istituita ex art. 19 CEDU “per assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli”.
La possibilità di chiedere alla Corte EDU dei pareri è una novità prevista dal Protocollo n. 16 alla CEDU[8], aperto alla firma dal 2 0ttobre 2013, al fine di stabilire un proficuo rapporto di dialogo tra le autorità giurisdizionali statali e la Corte EDU, la quale potrebbe uscirne significativamente rafforzata nel proprio ruolo di garante dei diritti e delle libertà fondamentali.
L’art. 1 del Protocollo indica l’oggetto del parere consultivo, ossia “questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli” nei casi in cui ciò occorra con riferimento ad una causa pendente dinanzi al giudice che richiede l’intervento della Corte. Occorre precisare che il Protocollo parla di “Highest courts and tribunals of a High Contracting Party” lasciando libero lo Stato che ratifica il Protocollo di indicare, ex art. 10, a quale giudice nazionale consentirà di rivolgersi alla Corte EDU. È stata correttamente notata la scelta lessicale di non utilizzare il superlativo relativo (infatti non si trova l’espressione “THE Highest court and tribunal”): questa accortezza lessicale consente ad ogni Stato di scegliere liberamente a quali Corti consentire il ricorso al giudice di Strasburgo.
Ad esempio, l’Italia potrebbe pensare di indicare, in sede di ratifica, sia la Suprema Corte di Cassazione sia le Corti d’Appello le quali sono giudici di merito di ultimo grado[9]. È da rilevare che si tratterebbe di una scelta sensata, dal momento che la Cassazione, in quanto giudice di legittimità, ha una funzione – e, conseguentemente, una serie di poteri – ben diversi e, se vogliamo, più limitati rispetto a quelli conferiti al giudice di merito. Peraltro, questa via è già stata percorsa dalla Romania con apposita dichiarazione dell’ottobre 2014 prevista dall’art. 10 succitato[10].
All’art. 2 è prevista la composizione del panel che, in caso di accoglimento della richiesta, redigerà il parere consultivo: si tratta di cinque giudici della Grande Camera e tra questi è compreso il giudice eletto per l’Alta Parte contraente cui appartiene l’autorità giudiziaria che ha richiesto il parere. Per garantire una sorta di rappresentatività “se tale giudice è assente o non è in grado di partecipare alla riunione, una persona scelta dal Presidente della Corte da una lista previamente sottoposta a tal Parte sarà presente in qualità di giudice”.
L’art. 3 consente al Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa e all’Alta Parte contraente di presentare osservazioni per iscritto e di prendere parte alle udienze così come ammette che il Presidente possa invitare soggetti ulteriori come altre Alte Parti contraenti o persone a presentare osservazioni per iscritto o prendere parte alle udienze.
I pareri consultivi emessi dalla Corte sono motivati e pubblicati, ma non sono vincolanti per l’autorità giurisdizionale richiedente. Inoltre, è ammessa la c.d. dissenting opinion, ossia la possibilità per ciascuno dei giudici di allegare separatamente la propria opinione nel caso in cui la decisione non sia unanime. Questa previsione difficilmente potrebbe sposarsi con la vincolatività del parere consultivo (questo ragionamento è sicuramente condivisibile da chi fa parte di un sistema giuridico di civil law, mentre non potrebbe esserlo osservando i maggiori sistemi di common law), ma, data la libertà del giudice nazionale di ispirarsi a questa opinione nella redazione della propria sentenza (come anche di disattenderla per seguire un proprio iter argomentativo), è da ritenere che la presenza di una “pluralità di voci” all’interno del parere può risultare un arricchimento significativo per i giudici degli Stati aderenti di ogni grado. In fin dei conti anche i giudici di gradi inferiori alle “Highest courts and tribunals” devono interpretare il diritto nazionale alla luce della CEDU e della giurisprudenza della Corte EDU!
L’ultimo nodo da sciogliere riguarda l’entrata in vigore del Protocollo: solitamente i trattati internazionali entrano in vigore quando sono soddisfatte delle precise condizioni ivi previste e questo Protocollo non fa eccezione; infatti all’art. 8 si prevede che “entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data in cui dieci Alte Parti contraenti della Convenzione avranno espresso il loro consenso a essere vincolate dal Protocollo”. La Francia è il decimo Stato che ha ratificato il Protocollo (prima di lei Albania, Armenia, Estonia, Finlandia, Georgia, Lituania, Romania, Slovenia e Ucraina), così dal 1° Agosto 2018 i primi dieci Paesi aderenti possono chiedere “lumi” alla Corte EDU. Per quanto riguarda il nostro paese, l’Italia ancora non ha ratificato il Protocollo, ma lo ha solamente firmato.
In conclusione
È possibile concludere che le differenze fra i due istituti sono il riflesso della diversità delle organizzazioni del cui circuito le Corti fanno parte: la CGUE ha come compito fondamentale quello di garantire l’interpretazione e l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione da parte di tutti i giudici dei 28 Stati membri, mentre la Corte EDU si pone come “corte sussidiaria” (questo vuol dire che ci si può rivolgere alla Corte di Strasburgo solo quando non sono esperibili ricorsi interni avverso una determinata decisione giudiziaria) che vigila sul rispetto della CEDU e sanziona direttamente gli Stati che nel caso concreto l’hanno violata.
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[1] Quest’ultima è, per l’esattezza, un’organizzazione sovranazionale e non internazionale.
Un’organizzazione sovranazionale, a differenza di una internazionale, consiste in un vero e proprio ordinamento sovraordinato rispetto a quello degli Stati che decidono di aderirivi. L’esempio classico di organizzazione sovranazionale è appunto costituito dall’Unione europea e dal suo percorso di integrazione che parte dall’esperienza delle Comunità europee.
[2] Al Capitolo IV del Trattato istitutivo della CECA si trova una serie di articoli relativi ai compiti assegnati alla Corte.
[3] Da un punto di vista pratico il giudice deve in prima battuta provare a formulare un’interpretazione del diritto interno conforme a quello sovranazionale ed eventualmente deve passare in rassegna la giurisprudenza della CGUE che potrebbe essersi già espressa con riferimento specifico a quell’atto o a quell’articolo del Trattato.
[4] Corte di Giustizia UE, sentenza n. 513, 30 settembre 2003
[5] Quando si utilizza l’espressione “rango primario” si fa riferimento ai Trattati istitutivi dell’Unione europea che, a seguito della revisione di Lisbona, hanno preso il nome di Trattato sull’Unione europea (TUE) e Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Con l’espressione “rango secondario” invece si intende il complesso del diritto c.d. derivato, ossia i regolamenti, le direttive e le decisioni. Questi atti trovano la loro regolazione nell’art. 288 TFUE. In particolare si definire derivato in quanto, nella sua formazione, occorre rispettare gli obiettivi, i limiti e gli iter di adozione previsti nei Trattati medesimi.
[6] L’art. 99 del Regolamento di procedura della Corte recita: “Quando una questione pregiudiziale è identica a una questione sulla quale la Corte ha già statuito, quando la risposta a tale questione può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o quando la risposta alla questione pregiudiziale non dà adito a nessun ragionevole dubbio, la Corte, su proposta del giudice relatore, sentito l’avvocato generale, può statuire in qualsiasi momento con ordinanza motivata.”
[7] L’art. 41 Trattato CECA recita “Solo la Corte è competente a giudicare, a titolo pregiudiziale, della validità delle deliberazioni dell’Alta Autorità e del Consiglio, qualora una controversia proposta avanti un tribunale nazionale ponga in causa tale validità.”
[8] Il testo del Protocollo 16 nelle versioni inglese e francese e ulteriori informazioni sono disponibili qui: https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list/-/conventions/treaty/214
[9] F. Tumminello, “Il rinvio pregiudiziale alla Corte EDU: il protocollo 16”, ottobre 2018, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/il-rinvio-pregiudiziale-alla-corte-edu-il-protocollo-16-12586
[10] In particolare si veda la ratifica da parte della Repubblica di Romania, presente, insieme alle altre, all’indirizzo: https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list/-/conventions/treaty/214/declarations?p_auth=phjNcRD4
Alberto Meniconi, nato il 24 Agosto 1995 a Prato. Mi sono laureato con lode in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Firenze, discutendo una tesi in Diritto dell’Unione Europea dal titolo “La protezione civile e gli aiuti umanitari nel diritto dell’Unione Europea. Caso di studio: la risposta europea alla pandemia di Covid-19” (relatrice Prof.ssa Chiara Favilli).
Attualmente sono un tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 (conv. con mod. in l. 98/2013) presso la Corte d’Appello di Firenze – Sezione III Penale.
Collaboratore dell’area di diritto internazionale e dell’Unione Europea.