Inerzia del legittimario pretermesso e strumenti di tutela del creditore personale tra azione di riduzione e azione surrogatoria
A cura del dott. Francesco Zoppi
Il frastagliato universo delle successioni mortis causa non può prescindere da un incipit idoneo a segnare l’apertura temporale dell’intero fenomeno successorio e costituito dalla morte del defunto: “La successione si apre al momento della morte, nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto” (art. 456 c.c.).
Invero, le vicende relative alla proiezione del compendio patrimoniale del c.d. de cuius presentano una conformazione eterogenea, la cui variabilità è strettamente legata al regime giuridico operante di volta in volta. L’architettura del Libro II (“Delle successioni”) del codice civile reca traccia di un preambolo di comune applicazione (Titolo I “Disposizioni generali sulla successione”),idoneo ad affasciare le disposizioni contenute nei successivi Titoli II e III, quali loci iurische positivizzano la fondamentale bipartizione operante in materia successoria, ovverosia quella intercorrente tra “Successioni legittime” e “Successioni testamentarie”.
Lo statuto fenomenico e normativo delle successioni legittima o ab intestato(artt. 565 ss. c.c.) e testamentaria(art. 587 ss. c.c.) diverge, anzitutto, in considerazione della fonte da cui scaturiscono le regole della rispettiva disciplina. Invero, non è revocabile in dubbio che detta summa diviso rinvenga il proprio regime normativo nelle disposizioni codicistiche. Nondimeno, si evince de plano come la successione testamentaria segni la destinazione impressa all’asse ereditario in conformità alla volontà manifestata e cristallizzata nel testamento[1], mentre quella legittima prescinda da qualsivoglia atto di ultima volontà del de cuius, deceduto senza (ovvero prima di) aver esercitato la facoltà di disporre per testamento delle proprie sostanze patrimoniali. Emerge, pertanto, anche una necessaria base negoziale fondante il fenomeno della successione testamentaria ed assente in quello della successione ab intestato, la cui concreta operatività è difatti subordinata al difetto di testamento[2].
Rispetto alla mentovata dicotomia, dottrina e giurisprudenza da tempo dibattono in ordine alla collocazione teorico-dommatica della c.d. successione necessaria[3]. Sebbene l’impiego di un’etichetta nominativa autonoma possa prima facie indurre l’interprete a qualificarla come tertium genus, giustapposto a quelli della successione legittima e della successione testamentaria, preme osservare come la locuzione “successione necessaria” non corrisponda ad un nomen iuriseffettivamente impiegato dal legislatore. Per converso, la disciplina di riferimento di tale morfologia successoria è contenuta nel Capo X (artt. 536 ss. c.c.) delle disposizioni generali sulle successioni, la cui struttura letterale-normativa rivela l’eminente enfatizzazione del profilo soggettivo della vicenda de qua: il legislatore, infatti, ricorre per la rubrica dell’indicato Capo X, della sottostante Sezione I e dell’articolo 536 c.c. alla rispettiva nomenclatura “Dei legittimari”, “Dei diritti riservati ai legittimari” e “Legittimari”.
A ciò si aggiunga il dato significativo affiorante dalla collocazione sistematica del Capo in esame, ubicato all’interno del medesimo Titolo I – recante, appunto, le disposizioni generali in materia successoria – e non strutturante un autonomo titolo posizionato a latere rispetto a quelli dedicati alle successioni legittime e testamentarie.
Insomma, l’ermeneusi incardinata sui criteri letterale e sistematico parrebbe confermare la tesi della dottrina maggioritaria, avallata anche dalla prevalente giurisprudenza, in forza della quale la successione necessaria costituirebbe un limite rispetto alle successioni testamentaria e legittima e non un tertium comparationisdotata di uno statuto autonomo[4].
La dottrina maggioritaria, inoltre, concorda nel ritenere che i legittimari non possano essere sempre ascritti al novero degli eredi, “in quanto il legittimario non sempre diventa (necessariamente) erede”[5]. Difatti, se il legittimario è chiamato all’eredità per legge o per testamento, allora egli acquisirà lo statusdi erede legittimo o testamentario. Se, invece, il legittimario viene leso in totodalla scelta testamentaria dell’ereditando, allora acquisterà il diverso status di legittimario pretermesso, il quale non può essere qualificato né in termini di erede testamentario né di erede legittimo, con la conseguenza che egli non potrà accettare una chiamata inesistente[6]. La tesi testé indicata è stata recentemente ribadita dalla Suprema Corte di Cassazione: “Il legittimario totalmente pretermesso, proprio perché pretermesso dalla successione, non acquista per il solo fatto dell’apertura della successione, ovvero per il solo fatto della morte del de cuius, né la qualità di erede, né la titolarità dei beni ad altri attribuiti, potendo acquistare i suoi diritti solo dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento, e quindi dopo il riconoscimento dei suoi diritti di legittimario (v. Cass., sent. n. 16635 del 2013)”[7].
Aver lumeggiato la posizione del legittimario in ordine alla scelta lesiva del testatore, che decida di escludere il primo dalla sfera dei successibili, consente di interrogarsi circa lo strumentario rimediale apprestato dall’ordinamento giuridico in favore del creditore personale del legittimario stesso.
È circostanza nota, difatti, che la principale garanzia (ancorché in senso atecnico), sulla quale il soggetto attivo di un rapporto obbligatorio può fondare la propria pretesa creditoria, sia costituita dal patrimonio del debitore[8]. Eventuali condotte distrattive – perpetrabili dal titolare di un determinato compendio patrimoniale e idonee a causare una deminutio patrimonii– non debbono necessariamente rivestire la morfologia commissiva, ben potendo concretizzarsi in comportamenti omissivi.
Per quanto d’interesse, il soggetto legittimario – che sia, al contempo, debitore nei confronti di un dato creditore –, nonostante la lesione integrale della propria sfera giuridico-patrimoniale, operata dal de cuius, potrebbe conformare la propria linea comportamentale ad una scelta di pati: potrebbe, in altri termini, restare inerte, nonostante le disposizioni testamentarie (ovvero le donazioni compiute in vita dal de cuius) abbiano completamente leso la porzione di legittima a lui riconosciuta dalla legge.
Siffatta scelta di soggezione da parte del legittimario risulta suscettibile di incidere in negativo sulla pretesa giuridica del creditore personale. Nondimeno, a fronte di detta condotta direttamente lesiva della posizione giuridica soggettiva del legittimario ed indirettamente pregiudizievole nei riguardi del creditore (in quanto causativa di un mancato incremento patrimoniale), l’atteggiamento esegetico dottrinale e pretorio si è mostrata ondivago in ordine all’individuazione dell’inventario di tutela al quale il creditore potrebbe attingere.
Lo strumento principe perfezionato dall’ordinamento giuridico in funzione di tutela del legittimario leso ovvero pretermesso è costituito dall’azione di riduzione, teleologicamente positivizzata onde consentire di ridurre le disposizioni testamentarie (e/o le donazioni) eccedenti la quota di cui il defunto poteva disporre (c.d. quota disponibile) e la cui disciplina è dato rinvenire nell’art. 554 c.c.
Per quanto afferisce al piano della legittimazione attiva, invero, il legislatore giustappone alla persona del legittimario anche quelle degli eredi e degli aventi causa del primo (art. 557, comma 1 c.c.)[9].
Con specifico riguardo ai creditori personali del legittimario pretermesso è insorto, pertanto, il dubbio relativo all’estendibilità del novero soggettivo dei titolari di legitimatio ad causa, al fine di ricomprendere anche loro.
Non v’è dubbio circa la mancata contemplazione expressis verbi dei creditori personali del legittimario leso o pretermesso, cosicché il baricentro del dibattito si è spostato su una diversa prospettiva analitica: la possibilità di qualificare i creditori personali del legittimario leso o pretermesso quali “aventi causa” del legittimario[10]. Dottrina minoritaria, ancorché autorevole, sostiene che nella categoria de qua rientrerebbero anche i creditori personali del legittimario (oltre all’acquirente a qualsiasi titolo dall’erede necessario e al legatario dei diritti di legittima), mentre la dottrina maggioritaria e la prevalente giurisprudenza di merito affermano il contrario, atteso che nell’orizzonte soggettivo degli “aventi causa” potrebbero annoverarsi esclusivamente i soggetti ai quali vengono ceduti diritti ereditari[11].
L’esclusione del creditore personale del legittimario dalla sfera soggettiva dei legittimati all’esperimento dell’azione di riduzione, sebbene consenta di delimitare con maggior precisione la categoria dei legittimati attivi, determina un successivo scompenso, costituito dal difetto di strumenti di tutela attivabili da parte del soggetto che – a fronte di fenomeni, concretantisi nel mancato incremento patrimoniale del proprio debitore – non potrebbe opporsi ad una simile scelta inerte.
Invero, siffatto comportamento di patì del debitore, negligente nella cura della propria sfera giuridico-patrimoniale, rappresenta inequivocabilmente un evento che il legislatore intende contrastare con altro strumento processuale: l’azione surrogatoria(art. 2900 c.c.).
La qualificazione aggettivale di tale strumento rimediale, congegnato in favore del creditore, consente di ravvisarne il tratto pregnante nella sostituzione operata dal soggetto attivo di un rapporto obbligatorio, legittimato ad esercitare diritti ed azioni spettanti al proprio debitore verso terzi.
Con imprescindibile approfondimento ermeneutico è necessario analizzare rapidamente le condizioni fissate ex lege, la cui sussistenza è necessaria affinché il creditore possa effettivamente surrogarsi al proprio debitore.
Seguendo l’ordine testuale dell’art. 2900 c.c., viene anzitutto in rilievo l’elemento teleologico della tutela della pretesa creditoria, considerato che la disposizione de qua consente al creditore di agire in surrogatoria “per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni”. Pertanto, a presidio delle proprie ragioni, il creditore “può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore”, a condizione che siano diritti ed azioni “che questi trascura di esercitare”. Seconda condizione fissata ex art. 2900 c.c., dunque, è quella dell’inerzia da parte del debitore nella cura del proprio microcosmo giuridico. In aggiunta a dette condizioni, la norma de quapermette, sì, al creditore di surrogarsi nella posizione del debitore, ma soltanto laddove “i diritti e le azioni abbiano contenuto patrimoniale enon si tratti di diritti o di azioni che, per loro natura o per disposizione di legge, non possono essere esercitati se non dal loro titolare”.
Dalla lettera legis testé citata emergono due ulteriori condizioni, la prima delle quali è costituita dal contenuto patrimoniale dei diritti e/o delle azioni esercitate. Autorevole dottrina sostiene che il requisito del contenuto patrimoniale sia soddisfatto laddove l’esercizio del diritto e/o dell’azione comporti un incremento del patrimonio del debitore.
Sorgono dubbi interpretativi nel caso in cui il diritto o l’azione, pur non avendo un contenuto patrimoniale, possano comunque determinare un incremento in termini patrimoniali. In ogni caso, non si può ritenere che un diritto o un’azione privi di contenuto patrimoniale ma comunque incidenti in melius sulla sfera patrimoniale del debitore possano essere fatti valere dal creditore in surrogatoria, stante l’indubitabile circostanza per cui “non esiste nel nostro ordinamento un diritto o un’azione che non sia collegato direttamente o indirettamente a vicende patrimoniali […]”[12].
Requisito cumulativo rispetto a quello del contenuto patrimoniale del diritto o dell’azione è quello della maturano personale dello stesso. Un diritto o un’azione connotata in tal modo risulta inscindibilmente legata al soggetto legittimato ex legge al suo esercizio, con la conseguenza dell’impossibilità di riconoscere una legittimazione attiva a persone non ricomprese nel novero soggettivo già perimetrato dal legislatore[13].
Ne deriva che, in tali ipotesi, il creditore potrà attivare lo strumento giudiziale dell’azione surrogatoria.
La premessa appena tracciata è indispensabile per comprendere quale proda esegetica sia stata raggiunta da dottrina e giurisprudenza in merito alla operatività dell’azione surrogatoria anche come strumento di tutela del creditore del legittimario preterito.
Come dianzi chiarito, dottrina e giurisprudenza di merito prevalenti sostengono che il creditore del legittimario pretermesso non possa esercitare l’azione volta ad ottenere la riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della quota di riserva del legittimario debitore, stante l’impossibilità di ricondurre la figura in esame in alcuna delle tre categorie menzionate dall’art. 557 c.c. (legittimari, loro eredi o aventi causa).
In subiecta materia autorevoli studiosi nutrono dubbi, altresì, circa l’esperibilità dell’azione surrogatoria ex art. 2900 c.c. da parte del creditore del legittimario pretermesso.
L’ostacolo non è individuato nel carattere familiare del rapporto intercorrente tra de cuius e legittimario, bensì nella circostanza di imporre al legittimario pretermesso la scelta di esperire l’azione di riduzione, anche al fine di essere riconosciuto erede: in tal modo si inciderebbe su una scelta che il legittimario deve poter operare in totale discrezionalità[14].
Nonostante la posizione contraria, su cui si assestano la richiamata dottrina e i giudici di merito rispetto al riconoscimento dell’azione surrogatoria in favore del creditore del legittimario pretermesso, di recente il Supremo Consesso ha avallato l’opposta tesi (Cass. Civ., Sez. II, sentenza n. 16623, 20 giugno 2019)[15].
L’iter logico-giuridico seguito dalla Corte di Cassazione si sviluppa lungo un parallelo, delineato ponendo mente ad un diverso strumento di tutela, previsto dal codice civile in favore del creditore dell’erede che rinunzi all’eredità: l’impugnazione della rinunzia all’eredità da parte dei creditori (art. 524 c.c.).
Occorre, anzitutto, far luce sull’ontologica differenza intercorrente tra la rinunzia all’eredità e la rinunzia all’esercizio dell’azione di riduzione.
Circoscrivendo l’esame della rinunzia all’eredità a quanto d’interesse, essa costituisce un atto dismissivo di diritti, in ordine alla cui decriptazione in termini di rinuncia stricto sensu ovvero di rifiuto non v’è unanimità di vedute in dottrina. Alcuni autori ritengono che si tratti di atto idoneo ad impedire l’ingresso dei beni ereditari nella sfera patrimoniale del chiamato, in tal modo qualificandolo come rifiutoe non come rinuncia, implicando quest’ultima il già verificato innesto di detti beni nella sfera patrimoniale del vocatus, con successiva dismissione degli stessi[16]; la tesi, preferibile, è altresì accolta dalla giurisprudenza di legittimità[17]. Altri, invece, sostengono si tratti di vera e propria rinuncia, in quanto con detta dichiarazione l’erede dismetterebbe un diritto già penetrato nel proprio patrimonio giuridico, ovverosia il diritto di accettazione dell’eredità.
Diversamente, con la rinunzia all’azione di riduzione, il soggetto legittimario non reagisce alla lesione della quota a lui assegnata ex lege (c.d. quota di riserva o porzione legittima[18]), in tal modo acconsentendo alle scelte testamentarie (e/o donative) compiute dalde cuiusin suo danno.
In materia l’Organo nomofilattico ha precisato quanto segue: “La rinuncia all’azione di riduzione da parte del legittimario totalmente pretermesso diverge, sul piano funzionale e strutturale, dalla rinuncia all’eredità, non potendo il riservatario essere qualificato chiamato all’eredità prima dell’accoglimento dell’azione di riduzione volta a rimuovere l’efficacia delle disposizioni testamentarie lesive dei suoi diritti […]”[19].
Insomma, il legittimario totalmente pretermesso non è ipso factosoggetto chiamato all’eredità, acquistando siffatto status soltanto a seguito dell’accoglimento della domanda di riduzione delle disposizioni testamentarie e/o delle donazioni fatte in vita dal de cuius.
Ne consegue che – ove questirinunzi all’esercizio dell’azione di riduzione avverso le suddette disposizioni lesive – una simile rinunzia non potrà essere qualificata come “rinunzia all’eredità”, in quanto un soggetto, che non è stato neppure chiamato all’eredità (qual è il legittimario totalmente pretermesso), a fortiori non può neppure rinunziarvi.
L’ipotesi va correttamente inquadrata in termini di rinuncia all’azione di riduzione.
Con la pronuncia n. 16623/2019, la Corte di Cassazione pone a fondamento della propria disamina il distinguo tra rinunzia all’eredità e rinunzia all’azione di riduzione, al fine di valutare le posizioni del creditore dell’erede rinunziante all’eredità e del creditore del legittimario rinunziante all’azione di riduzione[20].
Anzitutto, al fine di ricomprendere quali siano i soggetti legittimati all’esercizio dell’azione di riduzione, è doveroso interpretare con precisione la lettera dell’art. 557 c.c.
Tra i soggetti legittimati, difatti, vanno individuati – accanto al legittimario, ai suoi eredi e aventi causa (figure delineate dal comma 1) – anche i creditori ereditari.
Invero, ai sensi del comma 3 della norma cit., i creditori ereditari non possono chiedere la riduzione delle disposizioni lesive né possono trarne beneficio se il legittimario ha accettato l’eredità con beneficio d’inventario. Si desume a contrario, dunque, che i creditori ereditari ben potranno esercitare l’azione di riduzione ove il legittimario abbia accettato puramente e semplicemente.
In sostanza, il novero dei soggetti legittimati all’esercizio dell’azione di riduzione si amplia, ricomprendendo il legittimario stesso, i suoi eredi e aventi causa nonché i creditori dell’eredità.
La Corte enfatizza detta estensione, prevista dall’art. 557 c.c., condensando, inoltre, la chiave di volta del sentiero logico-giuridico nella metamorfosi di habituscui vanno incontro proprio i creditori ereditari: “Pertanto, se tale legittimazione viene espressamente riconosciuta per l’ipotesi in cui l’accettazione è pura e semplice (grazie alla quale i creditori del defunto divengono creditori personali del legittimario a seguito della confusione patrimoniale che viene a determinarsi), non si rinviene la ragione dell’esclusione della tutela patrimoniale degli originari creditori personali, trovandosi questi ultimi nella medesima condizione giuridica di quelli e, perciò, destinatari dello stesso grado di tutela”.
Con altre parole, l’art. 557, comma 3 c.c. consente di affermare, anzitutto, che il legittimario – laddove abbia compiuto un’accettazione pura (ossia non beneficiata) dell’eredità – acquisti la qualità di erede del de cuiuse che, in virtù del fenomeno di confusione patrimoniale che scaturisce dall’affluenza del patrimonio ereditario in quello personale dell’erede, i creditori del defunto acquistino la veste di creditori personali dell’erede. Ne deriva che, essendo positivamente contemplata siffatta tutela (azione di riduzione) per detto ceto creditorio (id est creditori del defunto), non vi sarebbe una valida ragione per escludere analoga forma di tutela in favore dei creditori personali del legittimario.
Non sfugge, tuttavia, il rilievo eminentemente logico piuttosto che giuridico del primo segmento strutturante la parte motivazionale-narrativa della pronuncia, come tale bisognoso di un consolidamento di carattere giuridico.
Difatti, sembra comunque insuperabile il dato letterale dell’art. 557 c.c., che non menziona i creditori personali del legittimario tra i legittimati ad agire in riduzione.
A questo punto, il Collegio sposta il fuoco della propria indagine, analizzando il disposto dell’art. 2900 c.c. – e, dunque, lo statuto dell’azione surrogatoria– al fine di verificare la possibilità, per i creditori del legittimario totalmente pretermesso, di surrogarsi a quest’ultimo nell’esercizio di un’azione (quella di riduzione)che questi trascuri di esercitare.
La principale obiezione avanzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito s’impernia sulle conseguenze che deriverebbero dall’esercizio in surrogatoria dell’azione di riduzione da parte del creditore: in seguito all’accoglimento dell’azione di riduzione, esperita in surrogatoria dal creditore del legittimario totalmente pretermesso (che non ha voluto contestare le disposizioni lesive della propria quota ereditaria e, quindi, non ha voluto neppure acquistare la qualità di erede), si produrrebbe nella sfera del legittimario un effetto che quest’ultimo ha invece declinato: l’accettazione dell’eredità. In altri termini, siccome è l’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione che consente al legittimario di acquistare la qualità di erede, una volta che detta azione sia stata esercitata dal creditore di lui, detto effetto si produrrà ugualmente; in tal modo si consentirebbe al creditore di imporre al legittimario la scelta di accettare l’eredità, così violando il carattere totalmente discrezionale delle menzionata scelta.
Il Supremo Consesso confuta la principale critica formulata dalla contraria dottrina, valorizzando la diversa azione riconosciuta ai creditori dell’erede che rinunzi all’eredità a lui devoluta (art. 524 c.c.). Il ragionamento condotto dalla richiamata dottrina dovrebbe valere altresì nel caso in cui l’erede dichiari di rinunziare all’eredità a lui spettante e, tuttavia, i creditori impugnino detta rinunzia per farsi autorizzare ad “accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante”.
Anche in tal caso, la circostanza che la scelta di accettare l’eredità sia compiuta dal creditore – e non dal chiamato all’eredità – dovrebbe tradursi nell’imposizione di una scelta eteronoma a carico del vocatus ad hereditatem, la cui discrezionalità risulterebbe irrimediabilmente violata (giacché semel heres semper heres), con il beneplacito del legislatore, che legittima siffatto intervento creditorio ex art. 524 c.c.
L’evidente paradosso induce i Giudici di legittimità a correggere – in punto esegetico – la lettera legis dell’art. 524 c.c., in quanto al vittorioso esperimento dell’impugnativa della rinunzia all’eredità non consegue alcuna accettazione dell’eredità e neppure risulta revocata la precedente rinuncia, sicché non è corretto ragionare in termini di accettazione dell’eredità da parte del creditore[21].
Di conseguenza, neppure l’azione di riduzione – ove esercitata in via surrogatoria dal creditore del legittimario pretermesso – può tradursi nella scelta, imposta al legittimario, di accettazione dell’eredità.
Nonostante la riconosciuta possibilità – in astratto – per il creditore del legittimario pretermesso di agire in surrogatoria, detta domanda potrà beneficiare – in concreto – di esito positivo, esclusivamente laddove sussistano le condizioni richieste dall’art. 2900 c.c.
Il punctum pruriens della decodificazione di dette condizioni potrebbe essere individuato nel necessario carattere non personale del diritto o dell’azione da esercitare in via surrogatoria.
Ebbene, se da un lato è pacifico in dottrina e giurisprudenza il carattere personale del diritto di accettare l’eredità, dall’altro si ritiene che l’azione di riduzione non presenti siffatta connotazione. L’Organo nomofilattico ha colto l’occasione per ribadire anche detta ricostruzione, sostenendo che “la circostanza […] che la legittimazione exart. 557 c.c. è riconosciuta anche agli aventi causa lascia intendere che nonsi verte in tema di azione indisponibileovvero personalissima” ed ancora che “Non possono, peraltro, sottacersi le differenti nature dell’azione di riduzione e dell’accettazione di eredità: la prima […] di contenuto patrimoniale; l’altra, strettamente personale, ed implicante profili di carattere morale e sociale”.
Sulla scorta del complessivo quadro teorico, la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “è ammissibile l’esercizio in via diretta dell’azione surrogatoria– prevista dall’art. 2900 c.c. – nella proposizione della domanda di riduzionedelle disposizioni testamentarie lesive della quota di legittima da parte dei creditoridei legittimari totalmente pretermessiche siano rimasti del tutto inerti”.
[1]Sebbene qualificato dalla dottrina tradizionale in termini di negozio unilaterale mortis causa, non mancano opinioni difformi, che pongono in rilievo la carenza nel testamento di “due tra le caratteristiche tipiche del negozio e cioè la produzione di effetti nel proprio patrimonio […] e la irrevocabilità dell’impegno”. In questi termini F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XIX edizione aggiornata, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2019.
[2]Il principio romanistico nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest– in virtù del quale il de cuius (o antecessor), anche ove avesse testato soltanto per una parte del proprio patrimonio, avrebbe implicitamente escluso l’operatività della successione ab intestato– non trova, tuttavia, accoglimento nell’ordinamento giuridico italiano, che invece ammette la cumulabilità della successione testamentaria e di quella legittima. Ne consegue che la successione ab intestato può trovare applicazione anche in presenza di un testamento con il quale il de cuius abbia disposto dei propri beni soltanto pro parte.
[3]La c.d. vocatio contra testamentum del diritto privato romano.
[4]F. Gazzoni, op. cit.;conforme anche R. Giovagnoli, Manuale di diritto civile, I edizione, Itaedizioni, Torino 2019.
[7]Cass. Civ., Sez. II, ordinanza n. 2914, 7 febbraio 2020.
[8]Art. 2740, comma 1 c.c.: “Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”.
[9]Art. 557, comma 1 c.c.: “La riduzione delle donazioni e delle disposizioni lesive della porzione di legittima non può essere domandata che dai legittimari e dai loro eredi o aventi causa”.
[10]Cfr. F. Gazzoni, op. cit. A chi scrive pare che l’Autore menzioni lapidariamente la vexata quaestiosenza indicare una effettiva soluzione percorribile, preferendo vagliare i diversi strumenti di tutela delle azioni surrogatoria (art. 2900 c.c.) e revocatoria (art. 2901 c.c.).
[11]Cfr. R. Giovagnoli, Atti e pareri per l’esame di avvocato, Itaedizioni, Torino 2020.
[13]Ivi. L’Autore specifica che “[…] si parla al riguardo di diritti inerenti alla persona. Oltre a quelli non esercitabili a mezzo di rappresentante o legati o status, vi rientrano quelli la cui tutela è intrinsecamente basata su un profilo di discrezionalità assolutain favore del titolare”.
[14]Ivi. Il ragionamento induce l’Autore a dubitare anche in ordine alla possibilità, da parte del creditore del legittimario pretermesso, di esercitare l’azione revocatoria (art. 2901 c.c.). La tesi negativa sposa l’argomento in forza del quale il legittimario acquista la proprietà dei beni, necessari a reintegrare la propria quota di riserva, non al momento dell’apertura della successione, ma soltanto dopo aver vittoriosamente esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive.
[15]Pronuncia consultata al seguente indirizzo: http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20190620/snciv@s20@a2019@n16623@tS.clean.pdf.
[16]F. Gazzoni, op. cit., in cui è impiegata la locuzione “rifiuto impeditivo”.
[17]Cass., Sez. II, sentenza n. 2394, 10 agosto 1974.
[18]Cfr. A. Guarino, Diritto privato romano, XII edizione, Jovene, Napoli 2001. La ragione dell’impiego di una simile denominazione è da ricercare, verosimilmente, nelle modalità di calcolo della quota legittima (portio legitima): si riteneva che la quota riservata ai legittimari fosse pari ad almeno un quarto di quella che sarebbe spettata loro ab intestato(ossia in qualità di eredi legittimi), “ragion per cui la portio debitafu detta usualmente portio legitima o, più in succinto,«legitima»[…]”.
[19]Cass., Sez. II, sentenza n. 3389, 22 febbraio 2016.
[20]“Osserva, tuttavia, il collegio che, ai fini del riconoscimento di tale legittimazione, occorre valutare, in una interpretazione sistematica, le previsioni normative di cui agli artt. 557, 2900 e 524 c.c.”.
[21]“[…] ilnomen iuris utilizzato («accettazione») eccede («al solo scopo di»), in effetti, la più circoscritta finalità di ricondurre al patrimonio del debitore la sola quantità di beni occorrente all’adempimento”. È doveroso, pertanto, “ripensare il significato della condotta consistente nell’«accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante» di cui all’art. 524 c.c., il quale individua, in sostanza, un rimedio ibrido e del tutto particolare”.