domenica, Aprile 28, 2024
Fashion Law Influencer Marketing

Il vestiario è strumento essenziale di lavoro dell’influencer: il caso Anna Dello Russo

Il vestiario è strumento essenziale di lavoro dell’influencer: il caso Anna Dello Russo

A cura di Stefano Seminara

  1. Il caso.

In data 12 febbraio 2024 la Corte di Giustizia Tributaria della Lombardia si è trovata a decidere sulla delicata e quantomai peculiare vicenda coinvolgente la nota giornalista italiana, ex direttrice di Vogue Japan, nonché Fashion Influencer di fama mondiale, Anna Dello Russo. Nel caso concreto che ci apprestiamo ad analizzare, quest’ultima proponeva appello avverso la precedente decisione emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano che disconosceva la deducibilità dei costi – e indetraibilità della relativa IVA – da lei sostenuti nell’espletamento della propria attività d’impresa, e ciò in quanto ritenuti come ad essa non inerenti. Nello specifico, le spese in cui l’Influencer era incorsa afferivano a beni di consumo, spese amministrative pratiche auto e spese di viaggio per un totale di € 157.613,88.

L’elemento di particolare interesse, tuttavia, risiede nella voce relativa a beni di consumo, i quali nel caso di specie corrispondono a vestiti, con ogni probabilità vista l’allure che circonda il personaggio coinvolto, di alta moda.

  1. Il concetto di Inerenza

Prima di entrare nel merito della questione, al fine di meglio comprendere quanto deciso dalla Corte di II grado, è necessario chiarire il fondamentale presupposto dell’inerenza delle deduzioni al reddito d’impresa, il quale è stato oggetto di importante dibattito in dottrina e in giurisprudenza. Innanzitutto, secondo la teoria “classica” essa è da ricondursi all’odierno art. 109, comma 5, N.d.A., al contrario, un orientamento più moderno – ad oggi maggioritario – configurerebbe lo stesso come un principio di carattere generale slegato da qualsiasi previsione codicistica[1]. La Corte di Cassazione nel 2018 avrebbe definito tale concetto sostenendo che “l’inerenza esprime la riferibilità del costo sostenuto all’attività d’impresa, anche se in via indiretta, potenziale od in proiezione futura, escludendo i costi che si collocano in una sfera estranea all’esercizio dell’impresa (giudizio qualitativo oggettivo). In proposito va precisato che il principio dell’inerenza, quale vincolo alla deducibilità dei costi, non discende dall’art. 75, comma 5, Tuir [ora 109, comma 5, N.d.A.][2]. Inoltre, il giudizio di inerenza non è una valutazione di carattere utilitaristico in quanto il concetto aziendalistico e quello civilistico di spesa non sono necessariamente legati all’elemento dell’utilità, essendo configurabile quale costo anche ciò che, nel singolo caso, non reca utilità all’attività d’impresa. Non dovrà quindi effettuarsi un giudizio quantitativo, connesso all’utilità o vantaggio, ma al contrario un giudizio qualitativo in cui tra gli indici rivelatori della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa, sono da annoverarsi l’incongruità e l’antieconomicità della spesa[3].

  1. Il vestiario come elemento immanente alla professione di Influencer nel settore della moda

Chiarito tale presupposto è interessante approfondire ora le valutazioni effettuate dalla C.G.T. della Lombardia nel caso Dello Russo. La Corte, ritornando sui suoi passi, ritenendo nel caso di specie l’utilizzo dei beni come promiscuo – e quindi del possibile loro sfruttamento sia nell’esercizio della professione che nella sfera personale privata –, ha ribaltato il giudizio di primo grado accordando la parziale deducibilità dei costi al 50%. Nell’esprimersi sulla sussistenza di inerenza essa avrebbe dichiarato “Risulta infatti provato, attraverso le varie recensioni e articoli di giornale prodotti, che la stessa non si limita a svolgere una semplice attività di giornalista ma è una influencer nel campo dell’immagine e della moda, di conseguenza che anche il vestiario utilizzato è parte integrante del personaggio e dell’immagine che viene professionalmente spesa. In altri termini, l’acquisto di vestiario di vario tipo e genere è una condizione strettamente collegata con l’attività svolta e ne rappresenta il necessario presupposto di modo che va ritenuto inerente alla particolare attività professionale esercitata[4]. Ebbene, tale valutazione merita particolare occhio di riguardo, infatti la stessa è manifesto dell’intrinseco legame tra la professione di Influencer e il vestiario utilizzato, tanto da poter configurare quest’ultimo come un vero e proprio costo d’impresa. In proposito, è utile effettuare approfondite riflessioni sulla tipologia di attività che viene svolta dall’Influencer, e ciò in quanto l’apparenza si configura come un elemento funzionale anche ad altre differenti professioni, come ad esempio quella di avvocato o di banchiere. Non è insolito che all’interno delle linee guida di studi legali o banche, in quanto, volenti o nolenti, ambienti connotati da una qual certa formalità, si prevedano espressamente dei dress code. È indubbio, infatti, che anche in questa tipologia di attività lavorativa sussista un’aspettativa del cliente, il quale certamente sarà portato a conferire una maggiore fiducia al professionista qualora esso sia conforme ai canoni di estetica classici connessi a tale lavoro. In proposito, interessante decisione sarebbe stata presa nel contesto della Corte di Giustizia Tributaria II del Veneto in relazione alla deducibilità del vestiario acquistato ai fini dello svolgimento della professione di promotore finanziario. Sebbene in primo grado fosse stata accordata la parziale deducibilità in virtù dell’utilizzo promiscuo degli abiti, nell’appello proposto dall’Ade la Corte ha sovvertito tale valutazione ritenendo non rispettato il principio di inerenza di cui all’art. 109 TUIR, definendo indeducibile il costo in quanto “le spese per l’abbigliamento inteso in senso generico e non specifico per lo svolgimento dell’attività, quale ad esempio una toga per un avvocato e/o una tuta per un artigiano, non rientri in tale disposizione non essendo sufficiente la mera considerazione che anche l’abbigliamento concorra all’immagine del professionista[5]. Per quanto questa decisione possa portare ad escludere la deducibilità dell’abbigliamento semplicemente funzionale, è doveroso sottolineare come la Corte si sia conformata ad un indirizzo giurisprudenziale passato ricollegante il principio di inerenza al predetto art. 109 TUIR, talché la decisione de qua potrebbe non apparire idonea a predire l’esito di eventuali simili giudizi. Sebbene questo esercizio ermeneutico possa risultare stimolante per comprendere i possibili ulteriori ambiti di applicazione della sentenza Dello Russo, esso risulta piuttosto forzato, bisogna infatti tenere a mente la differenza di base per cui l’immagine nell’ambito dell’attività di promotore finanziario non presenti la medesima valenza che nel settore dell’Influencer marketing. Quest’ultima, d’altronde, è una attività in cui l’apparenza si configura immanente al personaggio. È proprio grazie a questa che il Creator è capace di far presa sul pubblico, il quale inevitabilmente verrà attratto più facilmente dal design – e quindi dall’estetica – di prodotti di determinati brand piuttosto che altri.

  1. L’antieconomicità e l’incongruità

Proprio in riferimento a tale ultimo elemento intervengono i fattori precedentemente citati ovvero, i c.d. “campanelli d’allarme” – riprendendo il contenuto della sentenza Dello Russo -, oppure, i c.d. “indici rivelatori” – riprendendo invece la sentenza della Suprema Corte del 2018 sopracitata -. Non è infatti agevole determinare quando un costo possa definirsi come incongruo. Un abito di Dior determinerà un esborso certamente più importante rispetto che un abito di Shein, ma in quale occasione il primo potrà dirsi “antieconomico”? Inoltre, può essere effettuata tale valutazione in base al tempo dedicato, nonché all’attenzione prestata, nella recensione dell’articolo, o si tratta di un giudizio scevro di tali considerazioni? Pensiamo all’influencer di fama mondiale Zheng Xiang Xiang, quest’ultima, come altre Fashion Influencer, presenta e recensisce per propri followers abiti e accessori di alta moda, sennonché, differentemente da altri, la durata dei video da essa prodotti non supera i 3 secondi, ovvero il tempo utile alla semplice apertura della scatola.  Paradossalmente quindi, un video di 3 secondi in cui venga presentata una borsa Birkin di Hermes, potrebbe avere un costo variabile dai 12 ai 300 mila dollari. Può dirsi tale costo incongruo o antieconomico in ragione del risultato finale ottenuto? Possibile risposta a questi interrogativi sarebbe stata fornita dalla giurisprudenza, la quale, sempre in merito al concetto di inerenza, avrebbe dichiarato “In tema di imposte sui redditi, affinché un costo sostenuto dall’imprenditore sia fiscalmente deducibile dal reddito d’impresa non è necessario che esso sia stato sostenuto per ottenere una ben precisa e determinata componente attiva di quel reddito, ma è sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all’impresa in quanto tale, e cioè sia stato sostenuto al fine di svolgere una attività potenzialmente idonea a produrre utili, non essendo richiesta la prova di un rapporto diretto tra spesa e ricavo secondo una correlazione puramente meccanica e atomistica[6]. Logica conseguenza di tale valutazione sarebbe quindi che, qualora il professionista svolga il ruolo di Fashion Influencer come nel caso di specie, la deducibilità sarà accordata a prescindere dal costo, e ciò in virtù del combinato disposto dell’appena citata decisione con la sentenza Dello Russo.

Interrogativo spontaneo è quello se possa o meno impattare sulla sussistenza di inerenza la popolarità o meno dell’influencer, e quindi se ci siano delle soglie di riferimento prima delle quali tale attività non può considerarsi come attività d’impresa vera e propria. Le teorie moderne del marketing, infatti, distinguono diverse tipologie di influencer in ragione del seguito dagli stessi presentato, così abbiamo i nano-influencer (1.000 – 10.000 followers), micro-influencer (10.000 – 50.000 followers), medio-influencer (50.000 – 500.000 followers), macro-influencer (500.000 – 1 mln followers) e infine i mega-influencer (1mln > followers)[7]. È evidente che l’Agenzia dell’Entrate si troverà ad affrontare tali interrogativi e che quindi, tramite le proprie future decisioni, dovrà prendere una posizione in merito.

  1. Il precedente

È importante precisare come la decisione commentata non sia la prima nel suo genere. Già nel 2016, infatti, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano aveva affrontato un simile caso coinvolgente la nota Showgirl Belen Maria Rodriguez e le spese dalla stessa dedotte, in particolare si trattava di vestiario e di pezzi di mobilio [8]. Anche in quel caso la Corte decise per la parziale deducibilità dei costi sostenuti ai sensi dell’art. 54 del TUIR in quanto essi erano da ritenersi inerenti all’attività da essa svolta, elemento quest’ultimo dimostrato da contratti di collaborazione da essa sottoscritti contenenti specifiche previsioni richiedenti l’utilizzo di “adeguato vestiario moderno di sua proprietà[9]. Tale condizione era stata quindi considerata come sufficiente al fine di dimostrare il presupposto di inerenza. Il caso Rodriguez, applicabile ai professionisti nell’ambito dello spettacolo, si configura tuttavia come parzialmente differente rispetto al caso Dello Russo, in quanto, sebbene afferente alla medesima tipologia di beni di consumo e applicante analogicamente il medesimo principio, l’attività svolta dai professionisti coinvolti risulta sensibilmente differente.

  1. Conclusioni

In ultimis, vale la pena soffermarsi sull’inerenza in sé e sui risvolti che la stessa può presentare sulla professione di Influencer genericamente intesa; i casi di specie affrontati in questo articolo sono infatti legati al solo ambito del Fashion. È lecito domandarsi cosa possa accadere nel momento in cui nella medesima situazione riversi il Creator che genera contenuti multimediali su Twitch oppure il Baby influencer, il quale per mezzo dei propri figli sponsorizza determinati prodotti per bambini. Logica conseguenza sarebbe la deducibilità totale o parziale delle apparecchiature tecnologiche acquistate dal primo, nonché del materiale utilizzato per la cura, e potenzialmente il mantenimento del proprio figlio dal secondo. Pertanto, posto come la professione di Influencer sia in rapida evoluzione, espandendosi continuamente inglobando nuove aree di mercato, è lecito aspettarsi in futuro lo studio approfondito delle spese dedotte da questi soggetti da parte dell’Agenzia delle Entrate in ragione della specifica area in cui il Content Creator opera.

È evidente come la decisione oggetto di questo articolo presenti molta più rilevanza di ciò che a prima vista potrebbe apparire. Tralasciando l’ulteriore – ma non minore – dettaglio del concetto di Influencer in sé con cui l’Agenzia delle Entrate certamente si scontrerà, non essendo infatti immediatamente intellegibile oltre quale soglia di popolarità questa figura potrà essere identificata in ambito tributaristico, è di palmare evidenza come il caso Dello Russo possa essere idoneo a far chiarezza sia sugli oneri che sui benefici fiscali ascrivibili a questa sempre più diffusa tipologia di imprenditori.

 

[1] P. Cappellini e R. Lugano, Testo unico delle imposte sui redditi, edizione 2023.

[2] Cass. Civ., sez V, ordinanza n. 450, 11 gennaio 2018.

[3] G. Vasapolli e A. Vasapolli, Dal bilancio d’esercizio al reddito d’impresa, XXVIII edizione 2021.

[4] C.G.T. II Lombardia, sentenza n. 468/7/24, 12 febbraio 2024.

[5] C.G.T. II Veneto, sentenza n. 177, 14 febbraio 2023.

[6] Cass. Civ., Sez. V, ordinanza n. 25863, 5 settembre 2023.

[7] M. Keenan, “Instagram influencer marketing: a complete 2024 guide”, 23 febbraio 2023, disponibile qui: https://www.shopify.com/blog/instagram-influencer-marketing .

[8] C.T. Prov. Milano, sentenza n. 6443/40/16, 22 luglio 2016.

[9] Ibidem.

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