La CEDU chiude il caso Berlusconi c. Italia
Nelle ultime ore è salita alla ribalta dei media, nazionali ed internazionali, la notizia della pubblicazione della decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Berlusconi c. Italia[1]. Come spesso accade quando è la Corte EDU a pronunciarsi, si genera una certa confusione nell’opinione pubblica, dovuta anche a giornalisti e articolisti che, a sproposito – e, speriamo, soltanto per semplice approssimazione – travisano il ruolo della Corte, la portata delle sue pronunce e i principi applicati dai giudici di Strasburgo[2].
Occorre fare dunque chiarezza: la Corte ha condannato Berlusconi? O ancora, come si sente ripetere in queste ore, Berlusconi ha “vinto” la sua battaglia legale?
Nulla di più lontano dalla realtà.
Il primissimo aspetto da considerare riguarda le doglianze portate dall’ex Primo Ministro italiano di fronte alla Corte di Strasburgo.
Nella pronuncia si legge che il ricorrente lamentava violazione di due articoli della Convenzione: l’articolo 7 CEDU, che prevede il principio nulla poena sine lege[3], e l’articolo 3 protocollo 1 CEDU, che tutela il diritto a partecipare a libere elezioni e, conseguentemente, di candidarsi per una carica pubblica.
Per quanto riguarda la prima doglianza, l’ex premier affermava infatti che l’applicazione della legge Severino (l. 190/2012) aveva portato i giudici a dichiarare, contestualmente alla sua condanna per evasione fiscale avvenuta nell’ambito del processo Mediaset, l’incandidabilità del ricorrente a qualsiasi carica pubblica e al decadimento da quelle al tempo occupate. L’articolo 1 della legge, infatti, modificando il d.l. 165/01, dispone, al §46, l’inserimento dell’articolo 35-bis, il quale prevede che “Coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti dal capo I del titolo del libro II del c.p. (…)” vengono dichiarati incompatibili rispetto ad una serie di cariche, in particolare in ambito amministrativo, dirigenziale e negli organi di indirizzo politico (lett. f). Nell’opinione di Berlusconi, la condanna, considerando anche le pene accessorie comminate ai sensi della legge Severino, aveva natura penale ed, in quanto tale, non rispettava i principi di proporzionalità, prevedibilità e legalità richiesti dall’articolo 7 della Convenzione. Inoltre, tali provvedimenti violavano anche il principio di anteriorità della legge penale, dal momento che le sanzioni comminate erano previste da una legge posteriore ai fatti commessi.
In merito all’articolo 3 protocollo 1 CEDU, invece, il ricorrente affermava che la sua decadenza da senatore, avvenuta in corso di legislatura e dovuta proprio all’applicazione della legge Severino, violasse il suo diritto a partecipare liberamente alla vita politica del paese[4].
In pendenza di ricorso, intervenne inoltre la Corte di Cassazione che, con sentenza del 18 marzo 2014, confermò la condanna e la legittimità dei provvedimenti relativi ad incandidabilità e decadenza da cariche pubbliche. Alla luce di questa nuova pronuncia, il ricorrente si rivolse alla Corte lamentando, nel medesimo ricorso, anche violazione dell’articolo 6 sul diritto ad un equo processo e dell’articolo 4 protocollo 7, che prevede il principio del ni bis in idem.[5]
Ciò detto, occorre tenere in considerazione anche le successive evoluzioni della questione occorse tra il ricevimento del ricorso e la decisione della Corte.
L’11 maggio di quest’anno, infatti, la Corte d’appello di Milano si era pronunciata in senso favorevole circa il regolare svolgimento del periodo di lavori socialmente utili imposti in conversione della sentenza di condanna a pena carceraria, sicché il ricorrente, per la giustizia italiana, risultava aver correttamente scontato la sua condanna. In altre parole, già dallo scorso maggio, Berlusconi è di nuovo candidabile per una carica pubblica[6]. Alla luce di ciò, il 27 luglio, i legali di Berlusconi inviarono alla Corte una lettera con cui richiedevano la cancellazione del ricorso dal ruolo, affermando come non fosse più necessario proseguire con l’analisi della questione dal momento che le conseguenze pregiudizievoli della condanna erano venute meno[7].
Il benestare del governo italiano e la decisione della Corte di non procedere con l’esame del ricorso – possibilità garantita dall’articolo 37 CEDU anche qualora la parte ricorrente ritiri proprio il ricorso – hanno fatto il resto, mettendo la parola fine sulla vicenda[8].
La sentenza non presenta nulla di particolarmente rilevante sul punto di diritto e, anche per questo, l’onda mediatica che si è venuta a creare è giustificata solamente dal ruolo di primo piano occupato da Berlusconi nel panorama politico italiano degli ultimi vent’anni.
Possiamo però considerarla una decisione a sorpresa?
Anche in questo caso, la risposta è negativa. Non solo la Corte aveva già annunciato il giorno prima il probabile esito della vicenda in un comunicato stampa[9], ma la dichiarazione di candidabilità della Corte d’appello di Milano del maggio scorso era un elemento sufficiente per ritenere che il ricorso di Berlusconi, indipendentemente dal ritiro, sarebbe stato inevitabilmente rigettato dai giudici, essendo venuto meno l’oggetto del contendere.
È vero però che la Corte avrebbe potuto pronunciarsi in ogni caso sul ricorso. Ma come si può facilmente immaginare una presa di posizione così netta dei giudici su un tema così spinoso per l’opinione pubblica avrebbe soltanto inasprito i rapporti tra il nostro paese e Strasburgo, esponendo la Corte a facili critiche.
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[1] Corte EDU, Berlusconi c. Italia, ricorso n. 58428/13, sentenza 27 novembre 2018.
[2] Basti pensare all’ondata mediatica di sdegno legata alla recente pronuncia Corte EDU, Provenzano c. Italia, ricorso n., sentenza, in cui la Corte ha condannato il nostro paese per violazione dell’articolo 3 CEDU per le condizioni di detenzione del boss Bernardo Provenzano.
[3] In particolare, la norma prevede che “Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.”
[4] Corte EDU, Berlusconi c. Italia, cit., §§56 – 57.
[5] Ibid., §§59 – 60.
[6] Ibid., §39.
[7] Ibid., §61.
[8] Ibid., §§67 – 69.
30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all’esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017.
Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell’Unione Europea.
Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos – Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo Paulo Pinto de Albuquerque (“I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 – 2020”).