La Legge n. 219 del 2017 e le nuove frontiere del principio di autodeterminazione
A cura di Dott. Andrea D’Introno, dottore magistrale in Giurisprudenza presso l’Università degli studi di Foggia, con votazione di 110 cum laude e plauso accademico. Attualmente iscritto al Master di Diritto Privato Europeo della Sapienza. Attualmente tirocinante presso l’Avvocatura Generale dello Stato di Roma ex art. 73 del D.L. 69/2013.
La Legge del 22 dicembre 2017 n. 219, recante “Norme in materia di consenso informato e disposizione anticipate di trattamento” è stata frutto di un accidentato iter parlamentare, all’interno del quale hanno trovato ingresso posizioni ideologiche e culturali profondamente contrapposte, ma tutte accumunate dal desiderio di apprestare una compiuta disciplina giuridica ad un tema particolarmente avvertito all’interno del tessuto sociale, quale quello del “fine vita”. Il nuovo testo di legge introduce significative novità e fa chiarezza su diversi aspetti precedentemente dibattuti all’interno delle aule di giustizia. Come tipico delle “norme manifesto” campeggiano enunciazioni solenni, tutte alimentate e sorrette dal comune principio di autodeterminazione. Principio affatto nuovo per la nostra tradizione giuridica, ritenuto a più voci implicitamente affermato all’interno della Carta Costituzionale, in relazione a svariati beni giuridici e – per ciò che qui rileva – a presidio della salute, ai sensi dell’articolo 32 della Costituzione. Tuttavia, la L. 219/2017, a causa di una probabile eterogenesi dei fini, nel risolvere tradizionali problematiche ermeneutiche finisce per introdurne delle nuove, potenzialmente più pericolose delle precedenti. Sembra allora opportuno tornare ad interrogarsi circa la portata ed i limiti del principio di autodeterminazione, in tali termini declinato, accantonando le vuote generalizzazioni in nome di una maggiore attenzione alle circostanze ed alle motivazioni che spingono a farvi appello. Le soluzioni legislative individuate per disciplinare il delicato fenomeno del fine vita, paiono tutte ritagliate sui noti casi giurisprudenziali Welby ed Englaro. Trattasi di fattispecie giuridiche tra loro differenti, ma accumunate da una medesima drammaticità umana. Ad essi si aggiunga un ulteriore caso giurisprudenziale, quello di Fabiano Antoniani (alias Dj Fabo), salito agli onori della cronaca a ridosso dell’approvazione della legge 219. Una nuova drammatica storia umana che difficilmente riesce ad incanalarsi entro le strette maglie della nuova legge sul fine vita, testimoniandone, se non il fallimento, quantomeno l’inadeguatezza. A seguito dell’ordinanza del 14 febbraio 2018 con cui la Corte d’Assise di Milano ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art. 580 c.p., la Consulta, con ordinanda n. 207/2018, ha consapevolmente scelto di non prendere una posizione, limitandosi a rinviare ogni definitiva decisione al 24 settembre 2019. Tale termine è altresì posto al legislatore italiano per porre rimedio all’evidente lacuna normativa, tornando a modificare il testo della l. n. 219/2017. A distanza di un anno, come prevedibile, il legislatore non è riuscito a produrre l’intervento normativo richiesto. Con sentenza n. 242 del 2019 la Corte costituzionale procede, come annunciato, alla dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui sanziona penalmente l’aiuto offerto all’esecuzione del libero e consapevole proposito suicidario maturato dal malato che versi in condizioni di irreversibile mantenimento artificiale in vita: con una pronuncia che finisce per ledere le prerogative parlamentari la Corte segna, dunque, l’ingresso nel nostro ordinamento dell’eutanasia attiva.
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* Il presente articolo scientifico è stato sottoposto a referaggio ai sensi dell’art. 3 del Regolamento della Rivista e pubblicato nel Numero 1/2020 della Rivista Semestrale di Diritto.