sabato, Aprile 27, 2024
Labourdì

La parità di genere ed il lavoro

A cura di Chiara Limiti

 

L’EIGE – European Institute for gender equality attraverso le proprie indagini ha dimostrato come la parità di genere nell’ambito dei Paesi dell’Unione europea avrebbe un forte impatto positivo sul PIL (prodotto interno lordo) nel tempo, fornendo anche una possibile risposta all’invecchiamento della popolazione. Nonostante questo, come certificato dal rapporto sul global gender gap[1] (che misura annualmente lo stato attuale e l’evoluzione in materia di parità di genere lungo quattro dimensioni chiave: la partecipazione e le opportunità economiche, il livello di istruzione, la salute e la sopravvivenza e l’emancipazione politica) la parità di genere è ancora lontana.

Secondo il Global Gender Gap Index 2023, nessun Paese ha ancora raggiunto la piena parità di genere, sebbene i primi nove Paesi (Islanda[2], Norvegia, Finlandia, Nuova Zelanda, Svezia, Germania, Nicaragua, Namibia e Lituania) arrivino a quozienti pari all’80%. Inoltre, il Global Gender Gap Index mette anche in evidenza come “al ritmo attuale dei progressi compiuti nel periodo 2006-2023, ci vorranno 162 anni per colmare il divario di genere nell’emancipazione politica, 169 anni per il divario di genere nella partecipazione economica e nelle opportunità”. Non solo la parità di genere non è attualmente garantita ma sembra rappresentare un miraggio anche per le generazioni future.

Il tema del lavoro delle donne rappresenta un punto centrale nell’ambito della discussione in materia di parità di genere. Dal punto di vista dell’impianto normativo esistente, la parità di genere sembra essere garantita attraverso quanto previsto in materia di accesso al lavoro e alle regole che attengono allo svolgimento dello stesso. Anche le successive novelle si muovono, già da tempo, nell’ottica di una rimozione delle discriminazioni di accesso e carriera. L’uguaglianza retributiva, ad esempio, è presente in tutti i CCNL di settore ed è riconosciuta a livello più ampio dagli articoli 2099 del Codice civile e dall’articolo 36 della Costituzione. Tuttavia, i dati mostrano un quadro decisamente meno equo di quello prospettato dalle tutele normative sia dal punto di vista dell’accesso al mercato del lavoro, che in termini di carriera, di qualificazione professionale, di formazione imprenditoriale e di parità di retribuzione. Infatti, a discapito di un impianto normativo aggiornato e completo, le differenze nell’accesso al lavoro sono più che sostanziali, come certificato recentemente dai dati dell’Istat[3]. L’Istituto nazionale di statistica, nell’ambito del rapporto 2022 sui livelli di istruzione e ritorni occupazionali mostra che le donne sono mediamente più istruite degli uomini (almeno dal punto di vista dell’accesso all’istruzione il gap tra i generi non si è solo ridotto ma si è invertito) con il 65,7% delle donne di età compresa tra 25 e 64 anni che ha almeno un diploma contro il 60,3% degli uomini. Anche quando si sale ai titoli di studio più elevati (la laurea) le donne continuano a mantenere un vantaggio nei confronti degli uomini (23,5% contro il 17,1%). Tuttavia, anche in questo caso (così come in quello relativo all’impianto normativo) le premesse non trovano la propria logica traduzione: il tasso di occupazione femminile è, infatti, decisamente più basso di quello maschile (57,3% contro il 78,0%)[4] con un divario che si amplia rispetto al passato e che marca un’importante distanza con il resto dell’Europa.

Tasso di occupazione della popolazione di 25-64 anni in Italia, nella Ue e nei più grandi Paesi dell’Unione per genere. Anno 2021 e 2022 (valori percentuali)[5]
PAESI EUROPEI 25-64 anni  
Totale  
  2021 2022  
  TOTALE
Italia 65,6 67,5  
Ue27 75,3 76,7  
Francia 75,4 76  
Germania 80,6 81,8  
Spagna 70,5 72,2  
  MASCHI
Italia 75,8 78  
Ue27 81 82,4  
Francia 78,8 79,4  
Germania 84,6 85,9  
Spagna 76,3 78,1  
  FEMMINE
Italia 55,7 57,3  
Ue27 69,6 71,2  
Francia 72,1 72,9  
Germania 76,6 77,7  
Spagna 64,8 66,5  
Fonte: EUROSTAT, European Labour Force Survey  

Le ragioni di queste differenze sono facilmente rintracciabili nello stereotipo, e nella prassi, che vede la donna curarsi maggiormente dei diversi carichi familiari. Sempre secondo l’Istat, infatti, il tasso di occupazione femminile subisce una sostanziale modifica se la donna vive da sola o se ha dei figli: la donna che vive da sola (nella fascia di età 25-49 anni) ha un tasso di occupazione pari all’81,3%, ma questo scende al 76,2% se la donna vive in coppia senza figli e al 60,2% se ha figli. Ovviamente, ci sono altri fattori che incidono sull’occupazione femminile, per cui, ad esempio, le donne laureate che vivono da sole del Nord hanno tassi di occupazione pari al 97%, mentre le madri del Mezzogiorno con un titolo di studio basso arrivano al 22,9%; tuttavia quello che rimane costante è la differenza con i tassi di occupazione degli uomini. Inoltre, il lavoro femminile si caratterizza (più di quello degli uomini) per elementi di vulnerabilità: lavori precari e impossibilità di trovare un lavoro a tempo pieno[6].

Nel pubblico impiego, invece, l’accesso e la carriera, tramite concorso o per anzianità[7] dovrebbe garantire un certo livello di uguaglianza. Tuttavia, se si prendono in considerazione le posizioni apicali nell’ambito dei Ministeri e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la presenza femminile tra i capi dipartimento, i direttori generali e i segretari generali conta 37 unità su un totale di 122 (il 30,3%)[8]. Inoltre, quello a cui si sta assistendo è un fenomeno di riduzione della presenza femminile che è maturato negli ultimi anni; infatti, alla fine del 2019 la percentuale dei donne in posizione apicale era del 41,4% con ben 11 punti percentuali in più.

La parità di genere e la retribuzione

La disparità tra uomini e donne non si ferma al solo accesso al lavoro ma prosegue nelle condizioni lavorative. Come visto, le donne hanno dei lavori “vulnerabili” in percentuali superiori agli uomini, e questa vulnerabilità trova la sua traduzione anche dal punto di vista retributivo. L’INPS, attraverso il suo Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato, certifica un gender pay gap[9] di 7.922 euro. Infatti, a fronte di una retribuzione media per gli uomini pari a 26.227 euro, il genere femminile ha una retribuzione media di 18.305 euro. L’INPS motiva questo fenomeno facendo riferimento alla sostanziale differenza nell’accesso al lavoro part time per i diversi generi[10]: infatti mentre, nel 2022, le lavoratrici che hanno avuto almeno un rapporto di lavoro part time sono 3.584.665, negli uomini questo numero si riduce a 2.066.260. “Nel 2022 il 21% dei dipendenti maschi ha avuto almeno un rapporto di lavoro a tempo parziale mentre tra le femmine la quota di lavoratrici con almeno un part time nell’anno è pari a circa il 49%”.

Tuttavia, in aggiunta al fenomeno dell’accesso differenziato al part time tra uomini e donne, un forte ruolo nella determinazione del gap retributivo deve essere riconosciuto alle diverse possibilità di carriera, al cosiddetto soffitto di cristallo. Il rapporto annuale sul tema della crescita professionale femminile, “Women in Business” di Grant Thornton, nel 2022 le donne in Italia erano rappresentate nelle posizioni manageriali delle aziende nel 32%. Inoltre, la ricerca ha messo in evidenza come nel 2021 le donne che ricoprivano la posizione di Ceo (massima posizione in ambito aziendale che non necessariamente coincide con la proprietà) sono calate dal 23 al 18%, portandoci ben al di sotto della media europea, che comunque si attesta  su una percentuale abbastanza bassa pari al 21%.

La differenza retributiva, tuttavia, rimane un problema che riguarda tutti i Paesi dell’Unione europea.

Fonte: Commissione europea[11]

Gli strumenti

Gli strumenti e l’impianto normativo, come già visto, non sono di certo deficitari, ma sembrano tuttavia essere facilmente aggirabili o solo formalmente rispettati, come dimostrano i dati poc’anzi esposti. Tuttavia, nell’ambito del lungo cammino che dovrebbe finalmente portare verso una parità di genere in merito all’accesso al lavoro[12], il legislatore, sia nazionale che europeo, dimostra di non volersi arrendere e di non volersi fermare alle dichiarazioni di principio, ma di voler intervenire con strumenti vari, con importanti ricadute economiche, al fine di forzare il cammino.

Un primo strumento normativo, introdotto ormai già da qualche anno, e che, almeno nella percezione, finisce per essere un nuovo adempimento burocratico privo di una reale ricaduta in termini pratici è il Rapporto biennale sulle pari opportunità. Infatti, sulla base di quanto definito dall’articolo 46 del decreto legislativo n. 198 del 2006, Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, ha introdotto questo nuovo adempimento. Il Rapporto, che inizialmente doveva essere redatto da tutte le aziende con più di 100 dipendenti e che a partire dalle modifiche introdotte dalla legge n. 162 del 2021 la soglia minima di dipendenti è stata abbassata a 50, rappresenta uno strumento di trasparenza sul tema e per mettere in evidenza la realtà delle diverse aziende. Tuttavia, questi rapporti difficilmente trovano un qualche tipo di utilizzo e anche la diffusione rimane molto limitata. Il rapporto consente di mettere in luce, in relazione al biennio di riferimento, le seguenti informazioni (con particolare riferimento alla componente femminile):

– informazioni generali sull’azienda;

– informazioni generali sul numero complessivo degli occupati;

– informazioni generali sulle unità nell’ambito comunale;

La diffusione del rapporto rimane confinata al Ministero del lavoro, a cui entro il 30 settembre viene inviato attraverso la piattaforma on-line predisposta ed eventualmente alle rappresentanze sindacali aziendali. Il rapporto, in realtà, dovrebbe essere inviato anche al Consigliere o alla Consigliera regionale o provinciale di parità e dovrebbe essere messo a disposizione del dipendente che ne faccia richiesta, ma difficilmente questa previsione trova un riscontro. La diffusione di questi rapporti, per esempio attraverso l’obbligo di pubblicazione sul sito istituzionale dell’azienda, il suo utilizzo per costruire dei ranking di parità potrebbero trasformarlo in un reale strumento di trasparenza, al di là del mero adempimento burocratico, che potrebbe rappresentare anche un plus nella caccia ai talenti.

Il secondo strumento è sicuramente più recente ed è rappresentato dalla Certificazione di genere delle imprese. La certificazione di genere delle imprese, peraltro, è una delle misure che il Governo ha inserito nel PNRR, nella missione 5, «Inclusione e coesione», tra le politiche per il lavoro, destinando a questa finalità 10 milioni di euro. Per le aziende virtuose sconto dell’1% sui contributi fino a 50mila euro all’anno. Si tratta di una certificazione che viene richiesta dall’azienda su base volontaria e che viene rilasciata da organismi di certificazione accreditati che operano sulla base della specifica prassi individuata (UNI/PdR 125:2022). La prassi di riferimento detta i criteri a cui si deve informare il sistema di gestione per la parità di genere attraverso la definizione e l’adozione di una serie di indicatori prestazionali (KPI) riguardanti le politiche di parità di genere nelle organizzazioni. “La Prassi di Riferimento per la parità di genere nelle organizzazioni prevede la misura, la rendicontazione e la valutazione dei dati relativi al genere nelle organizzazioni con l’obiettivo di colmare i gap attualmente esistenti nonché incorporare il nuovo paradigma relativo alla parità di genere nel DNA delle organizzazioni e produrre un cambiamento sostenibile e durevole nel tempo[13]. Per ottenere la certificazione è necessario che le aziende raggiungano un punteggio minimo complessivo del 60% sulla base di 6 aree di valutazione (Cultura e strategia; Governance; Processi Human Resources ; Opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda; Equità remunerativa per genere; Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro), ciascuna delle quali con uno specifico peso percentuale, per un totale pari a 100. La certificazione ha validità triennale ed è soggetta a monitoraggio annuale. Dei meccanismi di premialità sono previsti per le aziende che ottengano la certificazione:

  • vantaggi nel posizionamento in graduatoria per bandi di gara finalizzati allo svolgimento di servizi e forniture (art. 34, c. 2, D.L. 36/2022).
  • sgravi contributivi (art. 5, c. 1 e 2, L. 162/2021);
  • riduzione del 30% della garanzia fideiussoria, per la partecipazione a gare pubbliche (art. 34, c. 1, D.L. 36/2022);
  • punteggio premiale nell’ambito della valutazione di proposte progettuali per l’accesso ad aiuti di Stato (art. 5, c. 3, L. 162/2021).

Infine, un terzo strumento, che non ha ancora trovato una traduzione nell’ambito del nostro ordinamento, è la Direttiva europea 2023/970[14] pubblicata il 10 maggio 2023 e che deve essere recepita dai singoli Paesi membri entro giugno 2026. Lo studio che ha portato all’emanazione della Direttiva è partito dall’osservazione che “l’applicazione del principio della parità di retribuzione è ostacolata da una mancanza di trasparenza nei sistemi retributivi, da una mancanza di certezza giuridica sul concetto di lavoro di pari valore e da ostacoli procedurali incontrati dalle vittime di discriminazione[15]. La Direttiva mira, quindi, ad introdurre alcuni principi ed innovazioni negli ordinamenti degli Stati membri. Innanzitutto la Direttiva impone che la definizione della retribuzione sia basata su criteri neutrali rispetto al genere, sia nel settore privato che in quello pubblico. I datori di lavoro dovranno, quindi, fornire un quadro trasparente ai candidati alle diverse posizioni lavorative in azienda relativamente alla retribuzione iniziale, riportandolo anche nell’annuncio di ricerca del personale; mentre è introdotto il divieto di richiedere informazioni ai candidati in merito alle retribuzioni percepite negli attuali o nei precedenti rapporti di lavoro. Infine, i dipendenti dell’azienda possono richiedere dati relativi ai livelli retributivi medi, per sesso e per mansione. Annualmente le aziende con più di 250 dipendenti (quelle con più di 150 dipendenti dovranno farlo triennalmente) dovranno comunicare a degli appositi organismi di monitoraggio i dati relativi al divario retributivo tra i generi. Quest’ultima previsione ricorda molto da vicino l’obbligo prescritto a livello nazionale dal Rapporto biennale sulle pari opportunità (seppure il riferimento relativo alla grandezza delle imprese che sono sottoposte all’obbligo è differente, e più stringente nel caso nazionale). Tuttavia, qualora da questi monitoraggi dovesse essere registrato un divario retributivo superiore al 5%[16], le imprese sono obbligate ad attivare una valutazione congiunta delle retribuzioni coinvolgendo le rappresentanze dei lavoratori. Infine, qualora venisse accertata una discriminazione retributiva di genere, il lavoratore/la lavoratrice potranno richiedere un risarcimento ed il recupero integrale delle differenze retributive: diritto al risarcimento. Si tratta di un diritto che, in qualche modo, sembrerebbe già garantito nell’ambito del sistema nazionale; tuttavia, la novità introdotta dalla Direttiva è relativa al fatto che spetterà al datore di lavoro l’onere della prova, ovvero sarà il datore di lavoro a dover dimostrare davanti al giudice la parità retributiva.

Gli strumenti analizzati costituiscono esempi di tentativi passati, presenti e futuri per incidere su un fenomeno che ha radici profonde e che non ha mai subito una radicale inversione. Il legislatore europeo, tuttavia, sembra intervenire in maniera più decisa eliminando il ricorso ad incentivi di natura economica e scommettendo sulla “responsabilizzazione” del datore di lavoro.

 

[1] chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2023.pdf

[2] Per il 14° anno consecutivo, l’Islanda (91,2%) occupa la prima posizione

[3] https://www.istat.it/it/archivio/288864

[4] La narrativa racconta di un tasso di istruzione femminile più elevato ma meno “qualificato” con una difficoltà delle donne nelle materie cosiddette Stem. Tuttavia, se è vero che lo svantaggio delle donne in materia di occupazione è elevato lì dove si entri nel campo delle discipline socio-economiche e giuridiche ma tocca vette massime nelle lauree Stem, questo non necessariamente è collegato con la bassa incidenza di donne laureate nelle aree Stem. Nelle aree Stem relative a “scienze e matematica” e a “informatica, ingegneria e architettura” le donne e gli uomini presentano una sostanziale parità di titolo di studio, ma il divario occupazionale segna anche 10 punti di differenza.

[5] Fonte: EUROSTAT, European Labour Force Survey

[6]Tra il 2021 e il 2022 si osserva una flessione nel numero di occupati in part time che dichiarano di esserlo perché non sono riusciti a trovare un lavoro a tempo pieno (part time involontario): rappresentano il 10,2% degli occupati (-1,1 punti rispetto al 2021). La quota di lavoratori in part time involontario continua tuttavia a essere molto alta tra le donne (16,5% rispetto al 5,6% degli uomini)” ISTAT. chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.istat.it/it/files//2023/04/3.pdf

[7] L’anzianità, nonostante i continui richiami dei diversi Ministri per la pubblica amministrazione al merito, continua ad essere individuata dai diversi CCNL come il criterio prevalente per le progressioni interne nella pubblica amministrazione, soprattutto nel caso di progressioni economiche.

[8] Fonte Openpolis

[9] https://commission.europa.eu/system/files/2018-10/report-gender-pay-gap-eu-countries_october2018_en_0.pdf

[10] Anche in questo caso torna con prepotenza il tema della diversa distribuzione del carico di cura tra i generi.

[11] https://commission.europa.eu/system/files/2022-11/equal_pay_day_factsheet_2022_en_1_0.pdf

[12] Ricordiamo a tale proposito che l’accesso al lavoro, e la possibilità di garantire la propria sussistenza, oltre che un tema di equità lavorativa e di possibile sviluppo economico, rappresenta anche uno dei requisiti atti a garantire l’indipendenza femminile anche nell’ambito delle relazioni interpersonali.

[13] https://certificazione.pariopportunita.gov.it/public/dist/resources/prassi-di-riferimento-unipdr-pdr100866103.pdf

[14] L’attenzione del legislatore europeo in tema dimostra che la problematica non è limitata nell’ambito dei confini italiani.

[15] Considerando numero undici della Direttiva 2023/970.

[16] Che non possa essere motivato sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere.

Rossana Grauso

Studentessa della facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Napoli "Federico II" e tesista in diritto finanziario, è socia di Elsa Napoli. Appassionata di tributaristica e diritto del lavoro, prende parte al progetto "Ius in Itinere" a giugno 2016, divenendone nel gennaio 2017 responsabile dell'area di diritto tributario e diritto del lavoro. Dall'ottobre 2017 è collaboratore editoriale per AITRA - Associazione Italiana Trasparenza ed Anticorruzione. Nel futuro, un master in fiscalità d'impresa e contrattualistica internazionale. Email: rossana.grauso@iusinitinere.it

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