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La risoluzione giudiziale: presupposti e ius variandi

La risoluzione per inadempimento è il rimedio che permette al contraente fedele di liberarsi dal rapporto contrattuale inadempiuto e si inserisce nel più ampio schema della responsabilità per inadempimento.

Al di là del carattere sanzionatorio rinvenibile nei confronti del debitore (da sempre ribadito ma che non deve dar vita ad uno strumento di natura afflittiva), la risoluzione trova principalmente il suo fondamento nel consentire alla parte di non rimanere vincolata nei confronti di chi ha violato gravemente il contratto, in tal modo alterando e turbando il sinallagma contrattuale.

Brevemente si dica come sia possibile individuare diversi tipi di risoluzione nel nostro ordinamento: giudiziale (ex art. 1453 c.c., quando questa è l’effetto della sentenza) o per diffida (ex art. 1454 c.c., quando deriva da un atto di intimazione del creditore).

E immediatamente si noti come un sistema siffatto sancisca un “doppio binario”, per cui non siamo in presenza né di un rimedio necessariamente giudiziale (come adottato in Francia o in passato dal nostro codice civile previgente) né di un rimedio esclusivamente rimesso alla volontà del creditore (come previsto in Germania o dai Paesi di Common Law).

La risoluzione inoltre può essere prevista dalle parti (ex art. 1456 c.c., attraverso la clausola risolutiva espressa) o infine accedere di diritto (ex art. 1457 c.c., in caso di termine essenziale).

Ci si soffermi allora sulla risoluzione giudiziale.

Quest’ultima in passato trovava spazio nella prassi di inserire nei contratti di compravendita immobiliare una clausola risolutiva (dapprima solo espressa, poi anche tacita) che consentiva la risoluzione ma solo a seguito di provvedimento giudiziale: tale sistema fu recepito nel codice napoleonico e successivamente anche nel codice civile italiano del 1865.

La risoluzione giudiziale, come si è anticipato, dà vita allo scioglimento del contratto appunto per effetto della sentenza.

Questo rilievo è sufficiente per notare come in tal caso trattasi di sentenza costitutiva, che produce giudizialmente l’effetto sperato, sciogliendo il creditore dal vincolo inattuato. Al contrario, nel caso della diffida, trattandosi di diritto potestativo sostanziale del creditore, l’eventuale giudizio che dovesse instaurarsi avrebbe solo ed esclusivamente il compito di accertare la già avvenuta risoluzione.

È bene precisare i presupposti di tale tipo di risoluzione.

In primo luogo, primo presupposto è naturalmente l’inadempimento del contraente nei cui confronti è demandata la risoluzione. Si ricordi come l’inadempimento possa coinvolgere anche lo stesso creditore, dovendo quest’ultimo collaborare secondo buona fede al fine di rendere possibile la stessa esecuzione del contratto.

Secondo presupposto è invece la gravità dell’inadempimento: l’articolo 1455 c.c. statuisce infatti che «il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra».

È questo un presupposto che trova la sua ratio nello stesso fondamento di questo rimedio che, come si è detto, è quello di tutelare la parte non inadempiente per evitare che questa resti vincolata ad un rapporto contrattuale che ha ormai visto irrimediabilmente alterato il sinallagma.

Naturalmente allora in presenza di un inadempimento che non impedisce comunque il soddisfacimento dell’interesse del creditore, sarebbe contrario a buona fede l’esercizio del rimedio qui in esame.

Con sentenza 18 febbraio 2008, n. 3954, la Cassazione civile, sez. II, ha precisato come la gravità dell’inadempimento vada valutata non solo secondo un criterio oggettivo, ma anche tenendo conto di un criterio soggettivo.

Da un lato, infatti, il giudice ha il compito di accertare che l’inadempimento abbia inciso in maniera apprezzabile sull’economia complessiva del rapporto, creando in tal modo un sensibile squilibrio del sinallagma contrattuale; d’altro canto, tuttavia, è opportuno anche vagliare quello che è il comportamento di entrambe le parti, che, in relazione al caso concreto, può eventualmente attenuare il giudizio di gravità.

Terzo presupposto è infine l’imputabilità dell’inadempimento.

Di questo inadempimento deve infatti rispondere lo stesso debitore e l’imputabilità è requisito necessario per distinguere due ipotesi, entrambe previste nel nostro ordinamento: da una parte proprio la risoluzione per inadempimento, dall’altra invece la risoluzione per impossibilità sopravvenuta non imputabile.

Le distinzioni tra le due figure rivestono carattere essenziale: innanzitutto, quest’ultima figura non conosce il rimedio del risarcimento del danno, che è invece assolutamente connaturato all’ipotesi dell’inadempimento. Inoltre, in caso di impossibilità sopravvenuta si impone, per quanto possibile, la salvaguardia del contratto nella misura in cui permanga l’interesse alla sua esecuzione, che, al contrario, in caso di assenza dello stesso, conduce esattamente al rimedio della risoluzione.

A tal punto, si veda cosa accade al momento della proposizione della domanda giudiziale.

L’articolo 1453, terzo comma, c.c. prevede che «dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione».

È questo un effetto legale che si ricollega al più ampio principio di certezza delle posizioni delle parti e sancisce come, una volta notificata la citazione, il creditore possa legittimamente rifiutare l’adempimento (al contrario, prima di questo momento, l’adempimento potrà essere rifiutato solo in presenza di un motivo legittimo).

Altro effetto della domanda è sancito dall’articolo 1453, secondo comma, c.c. che statuisce che «la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione».

In primo luogo si noti allora come, una volta proposta domanda di risoluzione, ed avendo il contraente quindi mutato la posizione della controparte (a questo punto non più tenuta all’esecuzione del contratto), non sia più possibile agire attraverso una domanda di adempimento.

Al contrario, invece, lasciando la domanda di adempimento fermo l’obbligo del debitore di eseguire il contratto, da un punto di vista sostanziale, il creditore mantiene il suo diritto di avvalersi finanche dell’azione di risoluzione.

Da un punto di vista processuale una siffatta previsione ha una portata imponente: si prevede in questo modo la modificazione della domanda (da adempimento a risoluzione) in corso di causa, addirittura, è stato ritenuto, in appello o in sede di rinvio, pur dovendo esser rimasti fermi i fatti addotti a fondamento dell’azione.

Determinante allora è stato l’intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2014 che, con sentenza n. 8510, ha sancito il seguente principio di diritto: «la parte che, ai sensi dell’art. 1453, secondo comma, cod. civ., chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale».

Interpretando in combinato disposto i primi due commi dell’articolo 1453 c.c. (di cui il primo comma «fa salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno»), le Sezioni Unite hanno in questo modo risolto l’annosa disputa relativa allo ius variandi esercitato dall’attore, il quale in tale contesto può allora legittimamente esperire, oltre alla risoluzione, anche il rimedio del risarcimento del danno.

Marco Limone

Marco Limone nasce nel 1994 ad Atripalda (AV). Consegue il diploma di maturità con votazione 100/100 presso il Liceo Scientifico P.S. Mancini di Avellino. Da sempre bravo in matematica, decide di non rinnegare le sue vere inclinazioni e ha frequentato, dal 2012, il Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli. In data 07/07/2017 conclude il percorso universitario con votazione 110/110 e lode, discutendo una tesi in diritto processuale civile dal titolo "I profili processuali della tutela della parte nel contratto preliminare". Iscrittosi, infatti, sognando il “mito americano” della criminologia e del diritto penale, durante il suo percorso si scopre più vicino al diritto civile e alla relativa procedura, anche se, per carattere, affronta con passione qualsiasi sfida si presenti sul suo cammino. Fortemente determinato e deciso nel portare avanti le sue idee e i suoi valori, toglietegli tutto ma non la musica. E le serie tv e il fantacalcio, ma quella è un’altra storia... mar.limone1994@gmail.com https://www.linkedin.com/in/marco-limone-19940110a/

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