La società incorporante risponde per l’inquinamento dell’incorporata: la sentenza definitiva dell’Adunanza Plenaria
L’Adunanza Plenaria conclude finalmente la questione rimessa da Cons. St., sez. IV, ord., 7 maggio 2019, n. 2928 , ed ampiamente approfondita con la precedente trattazione del 10 giugno u.s., sancendo la trasmissibilità degli obblighi di bonifica ex Parte IV del T.U.A. in virtù di fusione per incorporazione dalla società responsabile del danno incorporata alla società incorporante.
I punti fondamentali posti all’attenzione dell’Assemblea possono essere riassunti, in ordine logico-strutturale:
- a) in primis, se la condotta di inquinamento ambientale commessa antecedentemente rispetto all’introduzione della bonifica dei siti inquinati sia qualificabile come illecito, fonte di responsabilità civile per il suo autore, e in quale fattispecie normativa di quest’ultimo istituto il fatto possa essere inquadrato;
- b) in caso di risposta positiva al punto sub a), quali siano i rapporti tra l’illecito individuato e la bonifica e pertanto se, incontestata la discontinuità normativa tra i due istituti, sia nondimeno possibile ordinare la bonifica per fatti risalenti ad epoca antecedente alla sua introduzione a livello legislativo;
- c) infine, ammessa anche l’ipotesi che precede, chiarire se gli obblighi e le responsabilità conseguenti alla commissione dell’illecito siano trasmissibili per effetto di operazioni societarie straordinarie quale la fusione, secondo la legislazione civilistica vigente a quell’epoca vigente.
La risposta positiva alla questione sub a) è pacifica, visti i numerosi interventi di dottrina e la giurisprudenza. Lo sviluppo di tale concetto ha origine nell’elaborazione dell’ambiente come bene giuridico autonomo ed unitario, oggetto di protezione giuridica contro le aggressioni umane sviluppatasi negli anni’70 grazie ad una serie di interventi normativi che hanno coinvolto i vari elementi costitutivi del “bene ambiente”[1].
Nell’ambito di questa evoluzione del pensiero giuridico è stato quindi messo in luce che: “la qualificazione normativa di bene ambientale nasce dal riscontro delle sue oggettive caratteristiche materiali, che tale lo qualifichi e ne istituisca il relativo regime di tutela ha natura dichiarativa, di accertamento di una qualità ad esso immanente”; ed inoltre che: “rispetto alla considerazione unitaria del bene con finalità di tutela ambientale sono recessivi gli aspetti legati alla sua composizione materiale (se cioè il bene sia composto a sua volta da un insieme di singole cose materiali) e al suo regime dominicale, pubblico, collettivo o privato cui gli lo stesso è sottoposto, poiché l’elevazione a bene ambientale determina comunque una funzionalizzazione delle relative facoltà”.
Tale elaborazione dottrinale ha trovato riscontro nella giurisprudenza dell’epoca che, traendo fondamento dalla Costituzione, ed in particolare negli artt. 9 e 32, ha elevato l’ambiente a diritto individuale, tutelabile attraverso la tecnica della responsabilità civile extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ in parallelo con la tutela della proprietà contro immissioni intollerabili prevista dall’art. 844 cod. civ., intesa tuttavia secondo una logica non più meramente dominicale, ma in funzione del benessere dell’individuo e del suo interesse personale a godere di un habitat naturale salubre ed incontaminato[2].
Sul piano tecnico-giuridico la tutela di questi “nuovi beni” viene consentita sulla base dell’atipicità della fattispecie prevista dall’art. 2043 cod. civ., imperniata sulla clausola generale del «danno ingiusto» provocato da «Qualunque fatto doloso o colposo»; e della sua natura di norma secondaria o sanzionatoria: «obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno».
In base alla descritta concezione dell’illecito civile extracontrattuale si è poi escluso che l’art. 18 della legge n. 349 del 1986 abbia avuto portata innovativa sul piano della considerazione dell’ambiente come bene giuridico protetto, in quanto la fonte genetica della sua tutela è stata individuata «direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente, come diritto vigente e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (quali gli articoli 2,3,9,41 e 42) che concernono l’individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale, ambientale[3]».
Per quanto riguarda invece il punto sub b), l’Adunanza Plenaria ha condiviso l’orientamento della Sezione rimettente che ha proposto una chiave di lettura incentrata sulla comune funzione «ripristinatoria-reintegratoria», della responsabilità civile e della bonifica, tale da consentire di ordinare quest’ultima per fenomeni di inquinamento risalenti ad epoca antecedente alla sua introduzione nell’ordinamento giuridico. Tale funzione, difatti, è comune ad entrambi gli istituti analizzati, che hanno implementato progressivamente il livello di tutela fornito dall’ordinamento.
Le misure introdotte nel 1997, ed ora disciplinate dagli artt. 239 e ss. del codice di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, hanno nel loro complesso una finalità di salvaguardia del bene ambiente rispetto ad ogni evento di pericolo o danno, nelle quali è assente ogni matrice di sanzione rispetto al relativo autore. Tali misure, difatti, non appartengano al «diritto lato sensu punitivo», sebbene per esse sia imprescindibile un accertamento di responsabilità[4], ma si collocano invece nel tessuto connettivo formato dalla normativa ora menzionata.
Il rilievo ora svolto consente di sottolineare il carattere permanente del danno ambientale, perdurante cioè fintanto che persista l’inquinamento con conseguente soggezione del responsabile agli obblighi conseguenti alla condotta illecita, secondo la successione di norme di legge nel frattempo intervenuta.
L’ultima questione affrontata dall’Adunanza Plenaria trova risposta positiva proprio sulla base del tenore letterale dell’art. 2504-bis, comma 1, cod. civ., che include espressamente nella vicenda traslativa in questione “gli obblighi delle società estinte”, ovvero di quelle incorporate (analoga formulazione reca peraltro la medesima disposizione dopo la riforma del diritto societario, con la sola differenza che in luogo delle società estinte si fa riferimento alle “società partecipanti alla fusione” e al fatto che in tutti i rapporti giuridici di queste ultime, anche quelli processuali, vi è una “prosecuzione” dell’incorporante). Sulla transizione tra regime pre e post-riforma, l’Adunanza riprende l’orientamento espresso dalla Cassazione[5], secondo la quale negli obblighi dell’incorporata di cui l’incorporante diviene l’unico obbligato a seguito di fusione rientrano anche quelli derivanti da responsabilità civile.
Sul piano dogmatico, tale conclusione è avvalorata dal fatto che: “l’espressione “responsabilità civile” designa l’insieme delle conseguenze cui un soggetto deve sottostare per legge in conseguenza di un fatto illecito da lui commesso, che nel caso dell’illecito civile consistono nell’”obblig(o) (…) a risarcire il danno” o nell’alternativa della “reintegrazione in forma specifica”, anch’essa pertanto oggetto di obbligo, rispettivamente ai sensi dei più volte richiamati artt. 2043 e 2058 del codice civile, oltre che della più generale norma contenuta nell’art. 1173 cod. civ., che pone il fatto illecito tra le fonti di obbligazione”.
La successione dell’incorporante negli obblighi dell’incorporata è pertanto espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et incommoda, cui è informata la disciplina delle operazioni societarie straordinarie, tra cui la fusione, anche prima della riforma del diritto societario. Di conseguenza, alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale. Anche prima che venisse sancito il carattere evolutivo-modificativo di quest’ultimo tipo di operazione era infatti indubbio che l’ente societario subentrato a quello estintosi per effetto dell’incorporazione acquisiva il patrimonio aziendale di quest’ultimo, di cui sul piano contabile fanno parte anche le passività, ovvero i debiti inerenti all’impresa esercitata attraverso la società incorporata.
[1] Tutela allora contraddistinta da normative di carattere settoriale poste a salvaguardia degli elementi costitutivi del paesaggio e delle bellezze naturali quali il suolo, l’aria e l’acqua, già oggetto sin da epoca antecedente alla Costituzione di tutela in altre forme e ad altri scopi, e cioè attraverso un regime di carattere essenzialmente conservativo proprio della tutela della tutela paesaggistica e culturale (in particolare con la legge 9 giugno 1939, n. 1497 – Protezione delle bellezze naturali; poi abrogata nel 1999). Alle caratteristiche tipiche della tutela conservativa tradizionale, essenzialmente incentrata sui vincoli alle attività umane a tutela del valore di bellezza naturale e paesaggistica del bene, si stava in quell’epoca di crescita industriale sviluppando per via legislativa un’azione di vigilanza, prevenzione e repressione delle condotte umane nocive per i singoli elementi costitutivi dell’ambiente sulla base di discipline normative di settore
[2] Nella descritta temperie culturale il danno all’ambiente è stato infine positivizzato, con l’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale), ora abrogato, che in assonanza con la fattispecie generale prevista dal poc’anzi citato art. 2043 cod. civ. ha tipizzato come fatto illecito «Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte», fonte di obbligo per il suo «autore» al risarcimento del danno a favore dello Stato.
[3] Come espresso da Cass. civ., III, 19 giugno 1996, n. 5650, di conferma della condanna al risarcimento dei danni subiti dai Comuni coinvolti nel disastro del Vajont, come noto avvenuto molti anni prima dell’entrata in vigore della legge n. 349 del 1986.
[4] Cfr. Cons. Stato, Ad. plen., ord. 13 novembre 2013, nn. 21 e 25.
[5] In tal senso Sezione III civile, sentenza 11 novembre 2015, n. 22998, in un caso di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 cod. civ..
Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Roma – Roma Tre, Fabrizio ha sviluppato fin da subito un forte interesse per le materie del diritto amministrativo e del diritto dell’ambiente, realizzando una tesi intitolata “Gli oneri di bonifica dei rifiuti con particolare riferimento alla c.d. Terra dei Fuochi”.
Si è specializzato in tale settore conseguendo con successo un Master di II livello in Diritto dell’Ambiente presso l’Università degli Studi di Roma – Roma Tre.
Date le peculiari esperienze ha potuto svolgere un internship presso il Dipartimento Ambiente di Roma Capitale, dove ha avuto la possibilità di collaborare con il relativo Ufficio Appalti ed altresì con la Giunta e gli Uffici preposti alla stesura del “Regolamento del Verde e del Paesaggio di Roma Capitale”, primo testo normativo e programmatico sulla gestione del verde della Capitale.
Dopo una proficua esperienza lavorativa all’interno della sezione Administrative Law, Public Procurement & Environment and Waste della Law Firm internazionale Lexxat, ottiene l’abilitazione alla professione forense e svolge attività di consulenza in diritto amministativo e appalti per SLT e Ernst&Young, oltre varie collaborazioni.
Contatti: ciotta.fabrizio@gmail.com