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Lo storico caso della: ”Legge degli Sbocchi”

Un corso di primo approccio all’economia, per qualunque livello questo sia tarato, non può che partire da una dualità storica alla base dello sviluppo delle diverse teorie: quella tra domanda ed offerta. Mancando una strutturazione assiomatica, si forniscono definizioni che sono per lo più collegate ad un, non meglio precisato, “buon senso collettivo”. Ecco, allora, uno dei paradigmi dell’economia moderna che spiega il “naturale sviluppo” di questa dualità: la “Legge degli sbocchi” o “Legge di Say”. Alla realtà della crisi inglese, il nostro economista francese, tenace estimatore della teoria classica smithiana e della sua scuola, replicava, dopo avere esaltato la novità della concezione destinata, a suo giudizio, a cambiare il pensiero economico, che nel mercato non vi potrà mai essere una carenza generale di domanda ovvero una strutturale eccedenza di beni in offerta, poiché la produzione è, per sé stessa, domanda e come tale dà vita ad un consumo di beni o ad un investimento[1].

Jean-Baptiste Say (Lione, 5 gennaio 1767 – Parigi, 15 novembre 1832) è stato un economista francese di formazione (convintamente) liberista, fondatore assieme da un altro economista d’età moderna, il britannico David Ricardo (Londra, 18 aprile 1772 – Gatcombe Park, 11 settembre 1823), della business-school “ESCP Europe” di Parigi. Le posizioni in materia economica di Say non divergono, benché le differenze nel linguaggio, da quelle del suo contemporaneo Adam Smith (Kirkcarldy, 5 giugno 1723 – Edimburgo, 17 luglio 1790), soprattutto per ciò che riguarda l’autonomia che i mercati devono avere, espressa dalla loro libertà rispetto agli interventi troppo invadenti dei governanti. “Giova notare che un prodotto terminato offre da quell’istante uno sbocco ad altri prodotti per tutta la somma del suo valore. Difatti, quando l’ultimo produttore ha terminato un prodotto, il suo desiderio più grande è quello di venderlo, perché il valore di quel prodotto non resti morto nelle sue mani. Ma non è nemmeno sollecito a liberarsi del danaro che la sua vendita gli procura, perché il valore del danaro non resti morto nemmeno esso. Ora non può liberarsi del proprio danaro se non cercando di comperare un prodotto qualunque. Si vede dunque che il fatto, solo, della formazione di un prodotto apre all’istante stesso uno sbocco ad altri prodotti […]”[2]. Con queste parole nel 1802, Say presenta quella che ai giorni nostri è più comunemente nota come “Legge degli sbocchi”[3].  Spesso, per motivi di sintesi o di semplice (e tragica) superficialità, le parole di Say vengono riassunte nella formula: “è la produzione ad aprire gli sbocchi per i prodotti”.

La precedente rischia di apparire come uno schema razionale secondo il quale produrre un qualche oggetto apre automaticamente la strada alla vendita di nuovi prodotti. Sembrerebbe, in tal modo, che la domanda sia semplice conseguenza dell’offerta, per cui “molta produzione” produrrebbe “molta vendita”. In realtà, Say, da convinto liberista moderno, fa riferimento all’economia globale: è la domanda globale dei beni a dipendere dalla loro offerta globale. Ma come cerca di giustificare questa sua “Legge”? Partendo chiaramente da un esempio. Supponiamo che un fornaio produca un certo numero di pagnotte al giorno, ricavandone un quantitativo di denaro che gli permetta, oltre tutte le spese che gravano, una vita piuttosto tranquilla. Se, come suggerisce Say, il fornaio decidesse di aumentare di un terzo la sua produzione giornaliera, questo, stante le condizioni al contorno favorevoli, vedrebbe incrementare il suo fatturato. A questo punto, il fornaio potrebbe investire il suo danaro (maggiorato dall’incremento di produzione) per acquistare altri beni, beni che prima non erano alla sua portata, o quanto meno non tutti assieme. Il primo problema che si pone è quello legato all’aumento di produzione[4]. Chi può assicurare sull’effettiva resa sul mercato di questo aumento di prodotto? Non si rischia in tal modo una sovra-produzione, con eventuale danno per il produttore? A queste domande Say risponde parlando di un equilibrio naturale (alla Smith) che raggiunge il mercato quando qualche bene abbonda e qualche altro difetta. La difficoltà, o l’inefficienza, nel fornire una risposta consistente è legata alla mancata struttura assiomatica nel modello di Say: non viene formulato un modello matematico rigoroso che possa supportare una (al di là di ogni opinione) comunque lecita idea. Il secondo problema ha più a che fare con i comportamenti umani. Siamo sicuri che un aumento di produzione ed un (eventuale) aumento di ricavi determini la volontà da parte del produttore (il fornaio dell’esempio, ndr) di “rimettere in circolazione” questo “disavanzo di danaro”?

La risposta non sembra essere scontata (come vorrebbe Say). Basta prendere in considerazione il caso italiano per avere esempio di come il risparmio possa avere un ruolo notevolmente prioritario rispetto a quello dell’investimento. Pertanto, non porterebbe questo aumento di danaro del fornaio (ndr) semplicemente ad un maggior risparmio che a nulla giova se non alle sue tasche? Questa seconda osservazione esula dalle problematiche e dalle tematiche con cui Say giunge allo sviluppo della “Sua Legge”. “Certi prodotti sovrabbondano, perché altri difettano. […] Si può quindi notare che i tempi in cui verte derrate non si vendono bene, sono precisamente quelli in cui altre derrate salgono a prezzi eccessivi; e siccome cotali prezzi sarebbero dei motivi per favorirne la produzione, è d’uopo che cause maggiori o mezzi violenti, come disastri naturali o politici, l’avidità e l’imperizia dei governi, mantengono forzosamente da un lato quella penuria la quale cagiona un ingorgo dall’altro.

Quando questa causa di malattia politica cessa, i mezzi di produzione accorrono verso le vie nelle quali la produzione è rimasta indietro; progredendo in quelle vie la produzione favorisce l’avanzamento e la produzione di tutte le altre. Di rado un genere di produzione sorpasserebbe uno altro, e di rado i suoi prodotti sarebbero sviliti, se tutti fossero lasciti in loro piena libertà […]”. Dunque, Say vede nelle “dinamiche naturali” dei mercati il meccanismo di regolazione di questa sua legge, salvo che non intervenga il governatore a forzarne le dinamiche. Ma non sarebbe questo un innesco di incremento di disuguaglianze ancor più gravoso di quelle che già non mette in atto la natura “risparmiatrice” dei membri della società economica?[5] Fermo restando che la tassazione del capitale “è la via migliore per ridurre un debito pubblico di grandi dimensioni, […] di gran lunga il metodo più trasparente, giusto ed efficiente”, l’inflazione resta, per Piketty, un’altra opzione, anche oggi possibile[6].

[1] ‘’La legge degli sbocchi’’ di Giorgio Avv. Pernigotti, ottobre 2014.

Disponibile qui: http://blogs.professionegiustizia.it/impresa_e_societa/post.php?id=80

[2] ‘’Legge di Say’’ di Wikipedia Italia, ultima modifica agosto 2018, di Messibot.

Disponibile qui: https://it.m.wikipedia.org/wiki/Legge_di_Say

[3]  ‘’Trattato d’economia politica’’ di J.B. Say, libro I, capitolo XV, 2006.

[4] ”Le idee dell’economia”, di J. Boncouer & H. Thouément, Edizioni Dedalo.

[5] ‘’Disuguaglianze’’ di T. Piketty, EGEA, spa, novembre 2014.

[6] ‘’Piketty: le disuguaglianze, il debito pubblico e l’austerità’’ di Giorgio Rodano, settembre 2014.

Disponibile qui: https://www.eticaeconomia.it/piketty-le-disuguaglianze-il-debito-pubblico-e-lausterita/

Fonte immagine: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/il-libero-scambio-in-crisi-ma-pochi-sono-preoccupati

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