sabato, Dicembre 14, 2024
Di Robusta Costituzione

L’omogenitorialità “fra realtà fattuale e realtà legale” (nota a C. Cost., sent. 230/2020)

  1. L’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia

 

Due donne unite civilmente ai sensi della l. 20 maggio 2016, n. 76, si sono recate all’estero per fare ricorso alla fecondazione eterologa, generalmente vietata in Italia[1] e comunque radicalmente preclusa ad una coppia formata da due persone del medesimo sesso[2], ma consentita, invece, dallo ius loci. Una di loro si era sottoposta, con il consenso dell’altra, a procreazione medicalmente assistita (di seguito “p.m.a.”) da donatore esterno e, portata a termine la gravidanza, aveva dato alla luce un bambino. Al momento della formazione dell’atto di nascita presso un Comune italiano, le donne avevano chiesto congiuntamente di essere indicate entrambe quali genitori, ma l’ufficiale di stato civile ha rifiutato tale richiesta. La coppia ha, pertanto, presentato ricorso[3] al Tribunale di Venezia, chiedendo di disporre la rettifica dell’atto di nascita, previa dichiarazione di illegittimità del rifiuto di rettifica opposto dall’ufficiale di stato civile, così che entrambe fossero indicate quali genitori nell’atto predetto, con attribuzione del doppio cognome.

Nell’ambito di tale giudizio, sebbene il pubblico ministero avesse concluso per l’accoglimento del ricorso, il Tribunale ha ritenuto, al contrario, che l’accoglimento della domanda di rettifica fosse precluso dalla normativa vigente ed ha, quindi, rimesso alla Corte costituzionale il giudizio sulla legittimità di siffatta normativa[4]. In particolare, il giudice a quo dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, l. 76/2016[5] e dell’art. 29, comma 2, d.p.r. 396/2000[6] che, precludendo alle donne omosessuali unite civilmente di essere indicate entrambe quali genitori nell’atto di nascita, contrasterebbero con gli artt. 2, 3, 30 e 117 Cost..

Occorre notare come l’ordinanza di rimessione abbia ritenuto di non poter aderire a quella giurisprudenza di merito che sostiene di poter pervenire in via ermeneutica all’ammissibilità della registrazione di entrambe le donne della coppia come genitori. La tesi fa leva sugli artt. 8 e 9 l. 8 febbraio 2004, n. 40[7], dai quali si desumerebbe la possibilità di attribuire lo status filiationis ai nati da p.m.a. anche in violazione del divieto di avvalersi della p.m.a. da parte di coppie same sex[8], in quanto il divieto opererebbe in un momento antecedente alla nascita, mentre nel momento successivo alla nascita perderebbe di rilevanza il requisito soggettivo dell’accesso alla p.m.a. e occorrerebbe aver riguardo soltanto all’interesse del nato ad ottenere e mantenere lo stato di figlio[9]. Secondo il giudice a quo le premesse di tale tesi si pongono in aperto contrasto con il tenore letterale delle norme, portando ad un risultato sistematicamente incoerente, restando così preclusa la possibilità di pervenire ad un’interpretazione adeguatrice.

Parimenti è stata esclusa la possibilità di poter fondare la decisione del caso sull’interpretazione analogica di norme vigenti[10] ovvero dei principi generali dell’ordinamento. In particolare, discostandosi dall’interpretazione elaborata dalla citata giurisprudenza di merito, il rimettente ha ritenuto che non si può invocare il principio dell’interesse del miniore alla bigenitorialità, operante più nella fase funzionale del rapporto di filiazione che nella fase genetica di esso, e comunque inopponibile all’ufficiale di stato civile, tenuto ad indicare nell’atto di nascita i soli soggetti tassativamente previsti dalla legge.

Alla luce di tali considerazioni, sul presupposto che “l’adeguamento ai principi fondamentali, interni ed internazionali, di un sistema di regole che preclude l’esperienza genitoriale alle coppie di donne unite civilmente (…) non può essere lasciato all’approccio casistico di un interprete[11], e rilevando una contraddizione fra la tutela riconosciuta dall’ordinamento alle unioni omosessuali quali formazioni sociali ex art. 2 Cost. ed il vuoto di tutela relativo ai rapporti di filiazione di tali unioni, il Tribunale ha rimesso alla Consulta lo scrutinio della legittimità costituzionale delle predette norme, al fine di accertare se esse si ponessero in contrasto:

  •  con l’art. 2 Cost., in quanto l’inapplicabilità delle regole sulla genitorialità intenzionale alle coppie di donne unite civilmente “non realizza il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”[12];

  • con l’art. 3, commi 1 e 2, Cost., creando una disparità di trattamento in base all’orientamento sessuale ed al reddito, poiché soltanto chi dispone dei mezzi economici per concepire e far nascere il figlio all’estero può poi richiedere la trascrizione dell’atto di nascita in Italia. Sarebbe poi compito della Repubblica rimuovere lo “stigma tradizionalmente subito dagli omosessuali” consentendo “di realizzare il desiderio di maternità”[13]. Il principio di eguaglianza imporrebbe inoltre di garantire a tutti i nati eguale tutela, a prescindere dalle caratteristiche della relazione, omosessuale o meno, dei genitori;

  • con l’art. 30 Cost. che, previo accoglimento di una concezione progressista del principio di tutela della filiazione, imporrebbe di svincolarsi dalla mera dimensione “naturalistico-fattuale” per pervenire all’affermazione di un “diritto pretensivo”, realizzabile attraverso i mezzi forniti dal progresso scientifico, e limitabile dal legislatore soltanto per tutelare interessi di pari rango;

  • con l’art. 117 Cost., in relazione a quella congerie di norme internazionali[14] dalle quali sarebbe imposta la tutela del c.d. diritto alla bigenitorialità, violato dalla disciplina interna che vieta al minore la relazione giuridica con entrambe le madri, e che dovrebbe consentire altresì agli adulti di diventare genitori “anche oltre i limiti imposti dalla natura (sterilità, identità di sesso dei partner) e comunque per effetto di una manifestazione di volontà svincolata dal dato biologico”[15].

 

  1. La decisione della Consulta: la genitorialità intenzionale non è un diritto fondamentale (però è un dovere verso il minore)

 

La Corte costituzionale ha deciso in merito alla costituzionalità dell’art. 1, comma 20, l. 76/2016 e dell’art. 29, comma 2, d.p.r. 396/2000 con la sentenza n. 230, del 4 novembre 2020[16], dichiarando l’inammissibilità della questione.

La Corte ha, anzitutto[17], affermato la correttezza della tesi, propugnata dal giudice a quo, dell’impossibilità di pervenire in via ermeneutica ad una soluzione che consenta la formazione, in Italia, di un certificato di nascita che indichi entrambe le componenti dell’unione omosessuale femminile come madri. Al riguardo è stata accolta la prospettazione dell’ordinanza di rimessione, e che era stata sostenuta anche dalla giurisprudenza di legittimità, in forza della quale se è vero che la genitorialità del nato a seguito di p.m.a. dipende anche dal consenso prestato da chi ha fatto ricorso a tale tecnica, occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità siano coppie di sesso diverso. Nella sentenza viene ricordato come il requisito soggettivo di accesso alla p.m.a. sia già stato ritenuto non discriminatorio nei confronti delle coppie omosessuali dalla giurisprudenza costituzionale ed altresì dalla Corte EDU[18].

Ciò posto, secondo la Corte “l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona[19], dunque non v’è violazione degli artt. 2 e 30 Cost. Da un lato, infatti, la scelta del legislatore del 2016 è fondata sull’idea che la “famiglia ad istar naturae”[20] rappresenti il luogo più idoneo per accogliere e crescere un figlio, e tale scelta non può dirsi irragionevole. Dall’altro lato l’atto di volontà che consente di diventare genitori non può esplicarsi senza limiti, ma va bilanciato con altri interessi costituzionalmente protetti, soprattutto quando entrano in gioco gli interrogativi di ordine etico che inevitabilmente solleva la p.m.a..

È parimenti esclusa la violazione dell’art. 3 Cost., in quanto il fatto che legislazioni estere consentano ciò l’ordinamento interno vieta (l’accesso delle coppie omosessuali alla p.m.a.) non integra una discriminazione, altrimenti si creerebbe un paradosso per cui lo Stato avrebbe l’obbligo di adeguarsi alla più permissiva della discipline straniere[21]. E neppure le fonti internazionali richiamate in relazione all’art. 117 Cost. dal giudice a quo conducono ad una diversa soluzione, in quanto esse lasciano ampia discrezionalità ai legislatori dei singoli Stati.

Tuttavia, se gli invocati parametri costituzionali non impongono il riconoscimento dell’omogenitorialità, essi neppure precludono tale soluzione[22]. Proprio perché trattasi di soluzioni non costituzionalmente imposte, la Corte ha ritenuto di doversi rimettere alla discrezionalità del legislatore che, “quale interprete della volontà collettiva”[23], è il soggetto preposto a prendere una simile scelta in una materia eticamente sensibile, che richiede un delicato bilanciamento di diversi interessi.

Con riguardo alla prospettiva parallela della tutela dell’interesse del minore, la Corte ha ritenuto che essa sia assicurata dalla soluzione, ormai pacificamente accolta in giurisprudenza, della adozione c.d. non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), l. 26 maggio 1983, n. 184. Anche in tal caso, però, va rimarcato che la Consulta non ha escluso la possibilità una diversa soluzione che consenta una migliore tutela dell’interesse del minore, ma ha comunque ritenuto che a ciò si possa pervenire soltanto in via legislativa e non anche mediante una pronuncia del Giudice delle leggi[24].

In merito a tale sentenza, i commentatori si sono divisi, fornendo diverse letture .

Secondo alcuni, essa può essere vista come l’emblema del fallimento delle “liti strategiche” portate avanti dagli attivisti LGBT, e promosse non a caso da coppie di donne omosessuali – stante l’ancor più radicale divieto di ricorso alla maternità surrogata, sanzionato anche penalmente nel nostro ordinamento – per poi eventualmente estenderne gli esiti favorevoli anche alle coppie di uomini, “facendo leva sulla logica antidiscrminatoria”[25]. Tali liti sarebbero intentate con l’”obiettivo ultimo” di una riscrittura delle norme sulla genitorialità intenzionale da parte dei giudici “attraverso ardite interpretazioni manipolative dei testi legislativi”[26]. In tale ottica, la sentenza intenderebbe scoraggiare il ricorso a tale tipologia di liti, la cui logica di fondo sarebbe inficiata dal voler porre sullo stesso piano situazioni diverse, obliterando le differenze naturalistiche e biologiche del modo in cui si viene al mondo.

Altri hanno, invece, rilevato come, nella vigenza dell’attuale quadro normativo, non scalfito dalla pronuncia in commento, le soluzioni interpretative praticate dalla giurisprudenza risultino inadeguate rispetto alle esigenze emerse nella società[27] e come la sentenza n. 230 del 2020 riprodurrebbe, al pari di alcuni precedenti, una “ricostruzione discriminatoria sul piano dell’orientamento sessuale per consentire la tenuta della legge”[28]. Infatti, l’assunto per il quale la famiglia ad instar naturae sarebbe la più idonea ad accogliere il nato dipenderebbe più da questioni culturali che naturali[29].

Per altro verso, è stato osservato che la sentenza lascerebbe aperto un vulnus alla tutela dell’interesse del minore, in quanto: si finisce per far dipendere la possibilità di costituire il rapporto di filiazione dal luogo di nascita del minore, essendo ammessa la trascrivibilità di atti di nascita formati all’estero recanti la doppia maternità, ma non la formazione di un simile atto nel caso in cui il minore nasca in Italia, e ciò anche in forza di una lettura riduttiva della giurisprudenza della Corte EDU, ed in particolare del parere del 10 aprile 2019 reso dalla Grande Camera[30]; il rapporto che si costituisce con l’adozione c.d. non legittimante non è atto ad assicurare una piena ed effettiva tutela dell’interesse del minore ed è comunque meno ampio di quello di filiazione, escludendo la creazione di legami di parentela con la famiglia dell’adottante e non interrompendo i rapporti con la famiglia d’origine[31]; si consente alla madre intenzionale di revocare in qualunque momento la propria decisione, tornando sui propri passi, semplicemente omettendo di agire per l’adozione, così rinnegando il diritto costituzionale del figlio a vedersi costituire lo status filiationis[32].

Occorre, in conclusione, rilevare che le osservazioni critiche in merito al vulunus della tutela del minore hanno trovato riscontro in due recenti pronunce della Corte costituzionale, le n. 32 e 33 del 9 marzo 2021, rese in giudizi con petitum[33] differente rispetto a quello nel quale è stata emessa la sentenza n. 230 del 2020.

Nella sentenza n. 32, in particolare, è emersa una criticità della disciplina dell’adozione c.d. non legittimante, che non può essere esperita in difetto dell’assenso del genitore biologico-legale, che ne è condizione insuperabile[34], e che finisce, così, per far ricadere ingiustamente le conseguenze della crisi della coppia sul minore[35]. Ebbene, proprio in tale sentenza la Corte sembra superare la precedente lettura, che era stata definita riduttiva, del parere CEDU, Grande Camera, del 10 aprile 2019, rimarcando come esso, pur lasciando dei margini di discrezionalità agli Stati “circa i mezzi da adottare – fra cui l’adozione – per pervenire al riconoscimento” del rapporto di filiazione tra il minore nato da una gestazione per altri effettuata all’estero e la madre intenzionale, “li vincola alla condizione che essi siano idonei a garantire la tutela dei diritti dei minori in maniera piena”[36]. La Corte ricorda come sebbene nella sentenza n. 230 del 2020 fosse stato escluso il diritto alla genitorialità delle coppie dello stesso sesso, era comunque emerso un “profilo speculare” riguardante la tutela dell’interesse del nato da p.m.a., anche nell’ottica di attenuare il “divario tra realtà fattuale e realtà legale”, ed ha poi evidenziato come l’adozione c.d. non legittimante “opera in ipotesi tipiche e circoscritte, producendo effetti limitati[37].

Per quanto riguarda la sentenza n. 33, interessa qui soltanto rilevare come la Corte, sempre escludendo che venisse in questione il diritto alla genitorialità, abbia ritenuto che, una volta espresso il consenso alla p.m.a. e dunque alla genitorialità volontaria, sorgano in capo all’adulto dei doveri di tutela verso il minore, dai quali non ci si può poi divincolare liberamente[38].

In sostanza, se la Corte, anche nella giurisprudenza successiva alla pronuncia in commento, ha confermato l’esclusione di un diritto all’omogenitorialità, sembra però, per contro, aver affermato l’esistenza del dovere di esercitare la responsabilità genitoriale nell’interesse del minore una volta manifestata la volontà di accedere alla p.m.a., e perfino alla maternità surrogata, al fine di assicurare al minore una tutela piena ed effettiva.

[1] Com’è noto, la versione originaria dell’art. 4, comma 3, l. 8 febbraio 2004, n. 40, che precludeva in maniera incondizionata l’accesso alla p.m.a. eterologa, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui vietava il ricorso a tale tecnica di procreazione qualora fosse stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili da C. Cost., sentenza n. 162, 10 giugno 2014 .

[2] La preclusione all’accesso alla p.m.a. da parte di una coppia formata da due persone dello stesso sesso è sancita dall’art. 5, l. 40 cit., rubricato “Requisiti soggettivi”, che consente l’accesso alle tecniche di p.m.a. soltanto alle “coppie di  maggiorenni  di  sesso  diverso,  coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.

[3] Trattasi di ricorso ai sensi dell’art. 95 d.p.r. 396/2000, che consente di adire, mediante ricorso, il “tribunale nel cui circondario si  trova  l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto  di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento”, al fine, per quanto qui rileva, di ottenere la rettifica di un atto dello stato civile.

[4] La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Trib. Venezia, sez. II civ., con l’ordinanza del 3 aprile 2019, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, n. 28 del 10 luglio 2019, pag. 60 e ss.

[5] Tale norma prevede che: “Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole <<coniuge>>, <<coniugi>> o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente dalla presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.

[6] Ai sensi della citata disposizione del regolamento sull’ordinamento dello stato civile, “Nell’atto di nascita sono indicati (…) le generalità, la cittadinanza, la residenza dei genitori e di quelli che hanno espresso con atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati (…)”.

[7] L’art. 8 prevede che: “I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’art. 6”. L’art. 9, poi, sancisce il divieto di disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre.

[8] Cfr. pag. 62 della GU n. 28 cit. L’ordinanza cita, in particolare, Trib. Bologna, decreto 6 luglio 2018 e Trib. Pistoia, decreto 3 luglio 2018. Oltre a tali pronunce, ve ne sono molte altre che hanno aderito a tale opzione ermeneutica, che però – successivamente all’ordinanza di remissione – è stata respinta da Cass. Civ., sez. I, sentenza n. 8029, 22 aprile 2020 e da Cass. Civ., sez. I, sentenza n. 7668, 3 aprile 2020, sul punto cfr. S. Stefanelli, “Il rapporto tra nato in Italia da p.m.a. e madre intenzionale resta confinato all’adozione genitoriale”, in Il foro italiano, fasc. 1/2021, I, pagg. 43 e ss.

[9] Cfr. S. Spatola, “Il giudice delle leggi dice “no” al riconoscimento dell’omogenitorialità per via estensiva: non è la Corte costituzionale il luogo ma il Parlamento. A margine della sentenza n. 230 del 2020 della Consulta, dicembre 2020, in federalismi.it. Per un’analisi di tale indirizzo giurisprudenziale di merito, si vedano in particolare le pagg. 112 e ss.

[10] Il giudice a quo ha, in particolare, escluso di poter effettuare un’analogia con la l. 22 maggio 1978, n. 194, disciplinante l’interruzione volontaria della gravidanza, in quanto essa si fonda su un’esigenza di tutela della salute che è invece assente in relazione alla genitorialità omosessuale. Allo stesso modo, è stata esclusa la possibilità di un’analogia con la l. 4 maggio 1983, n. 184, riguardante l’adozione dei minori, giacché questa esprime un principio di solidarietà, mentre la p.m.a. delle donne omosessuali riguarda unicamente “il desiderio di mettere al mondo e crescere una progenie” (cfr. ancora pag. 62 della GU n. 28 cit.).

[11] Pag. 63 GU n. 28, cit. In merito agli “eccessi” cui può condurre l’interpretazione conforme da parte dei giudici ordinari, è stato osservato come  “l’uso estremo dell’interpretazione conforme” possa condurre ad una sorta di sindacato diffuso di costituzionalità, con il rischio che il giudice comune disapplichi la legge e che vengano a formarsi differenti interpretazioni della Costituzione fra loro configgenti, così G. Pitruzzella, L’interpretazione conforme e i limiti alla discrezionalità del giudice nell’interpretazione della legge, specialmente a pagg. 165 e 166, gennaio 2021, in federalismi.it, che ripercorre altresì l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale. Per un commento ad una pronuncia della Suprema Corte in tema di adozione della figlia maggiorenne della propria convivente, nel quale centrale è il tema dell’interpretazione conforme, cfr. A. Ciarafoni, La Corte di Cassazione sull’adozione di maggiorenni: un tentativo di destare il Legislatore sopito?, gennaio 2021, in Ius in itinere.

[12] Pag. 65 GU n. 28 cit..

[13] Pag. 66 GU n. 28 cit..

[14] L’ordinanza di remissione richiama, in particolare, l’art. 24, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione Europea (siglata a Nizza il 7 dicembre 2000), gli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma i 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, e la Convenzione di New York sui diritto del fanciullo del 20 novembre 1989 resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 196, cfr. pagg. 66 GU n. 28 cit..

[15] Pag. 67 GU n. 28 cit..

[16] Tale sentenza è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, n. 46 del 11 novembre 2020, ed è altresì reperibile per esteso sul sito istituzionale della Corte. In merito alla pronuncia si vedano i commenti di C. Bona, “La filiazione omosessuale, tra <<rivoluzione arcobaleno>> e diritto <<postmoderno>>, in Il foro italiano, fasc. 1/2021, I, pagg. 39 e ss.; C. Trapuzzano, Unioni civili: il riconoscimento della filiazione verso due madri spetta al legislatore, novembre 2020, in il Quotidiano Giuridico; A. Di Martino, Corte costituzionale, atti di nascita di bambini nati nell’ambito di una coppia lesbica e acccesso alla p.m.a., novembre 2020, in Diritti Comparati; E. Olivito, “(Omo)genitorialità intenzionale e procreazione medicalmente assistita nella sentenza n. 230 del 2020: la neutralità delle liti strategiche non paga, marzo 2021, in Rivista AIC; M. Picchi, “”Figli di un dio minore”: quando lo status filiationis dipende dal luogo di nascita (Brevi riflessioni a margine della sentenza n. 230/2020 della Corte costituzionale, gennaio 2021, in Forum di Quaderni Costituzionali; S. Stefanelli, “Il rapporto tra nato in Italia da p.m.a. e madre intenzionale resta confinato all’adozione genitoriale”, cit.; S. Spatola, “Il giudice delle leggi dice “no” al riconoscimento dell’omogenitorialità per via estensiva: non è la Corte costituzionel il luogo ma il parlamento. A margine della sentenza n. 230 del 2020 della Consulta”, cit..

[17] In via preliminare, la Corte ha respinto l’eccezione della difesa erariale, che sosteneva l’inammissibilità della q.l.c. per difetto di adeguata motivazione in ordine all’esclusa possibilità di un’interpretazione conforme, in quanto il giudice rimettente aveva espressamente escluso tale possibilità in ragione dell’ostacolo insuperabile costituito dall’art. 1, comma 20, l. 76/2016 e dal divieto per coppie omosessuali di accedere alla p.m.a., cfr. i punti 4 e 4.1 del “Considerato in diritto”.

[18] I precedenti giurisprudenziali che escludono il carattere discriminatorio del requisito soggettivo posto dall’art. 5 l. 40/2004 vengono richiamati al punto 5.2 del “Considerato in diritto”. Viene citata la sentenza n. 221 del 23 ottobre 2019 in merito al carattere non discriminatorio della disciplina normativa vigente, nonché la sentenza n. 237 del 15 novembre 2019, che ha confermato tale orientamento anche alla luce della l. 76/2016, la quale, pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie omosessuali, comunque non consente loro la filiazione per adozione o per p.m.a.. Per quanto riguarda la giurisprudenza CEDU, viene citata la pronuncia del 15 marzo 2012, Gas e Dubois c. Francia.

[19] Punto 6 del “Considerato in diritto”.

[20] Ibidem, ove con tale concetto si intende la famiglia composta da “due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile”. Si tratta di un principio già affermato nella sentenza n. 221 del 2019, che viene ampiamente richiamata anche in altri punti della motivazione della sentenza in commento. In questo passaggio motivazionale, la Corte richiama inoltre la sentenza n. 162 del 2014.

[22] Punto 7 del “Considerato in diritto”, ove viene rimarcato come la giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite (sentenza n. 12193 del 8 maggio 2019), abbia ritenuto che la trascrizione di certificati di nascita formati all’esterno che recano la dichiarazione di una duplice genitorialità femminile non si ponga in contrasto con l’ordine pubblico.

[23] Punto 8 del “Considerato in diritto”.

[24] Punti 9 e 9.1. del “Considerato in diritto”.

[25] A. Di Martino, cit., pag. 2, che riflette anche in merito alla connessa tematica dell’accesso delle donne single alla p.m.a., ritenendolo “un’opzione ragionevole” ma da svilupparsi sempre in seno ad un dibattito pubblico e politico e non come risultato da conseguire per via giudiziale (cfr. pagg. 4 e 5).

[26] E. Olivito, cit., pagg. 13 e 14.

[27] S. Spatola, cit., pag. 113, che sul punto riporta un passaggio di R. Fadda, “Il conflitto assiologico nella legge n. 40/2004 tra morale kantiana e diritto alla procreazione”, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc.2/2020, secondo il quale la questione della trascrivibilità degli atti di nascita di nati da p.m.a. che recano la doppia maternità pone il problema “della inadeguatezza del nostro ordinamento e della necessità di adeguarlo alle nuove istanze sociali”.

[28] Così M. Picchi, cit., pag. 5. Commentando la sentenza n. 221 del 2019, anche A. Cossiri, “Coppie omosessuali e divieto di assistenza medica al concepimento”, in Giurisprudenza costituzionale, fasc. 5/2019, pagg. 2633 e ss., disponibile anche in De jure, aveva parlato di un solco “prevalentemente culturale”, nel senso che nella ricostruzione accolta dalla Corte l’infertilità nelle coppie eterosessuali viene inquadrata quale fenomeno patologico da curare, mentre nel caso di coppia omosessuale si avrebbe una sterilità naturale, quindi un intervento medico creerebbe una fertilità artificiale alterando un dato di natura

[29] Ibidem, pag. 8

[30] In tal senso M. Picchi, cit., che osserva come il citato parere sostiene, si, che la trascrizione di atti esteri non è l’unico modo di costituire un rapporto tra genitore intenzionale e figlio, ma sostiene pure che l’adozione è ammessa soltanto se avvenga in tempi rapidi e sia efficace, e si potrebbe dubitare che l’adozione ex art. 44, comma 1, lett. d), l. 184/1983 risponda a tali requisiti. Da ciò la disparità di trattamento fra il nato all’estero e il nato in Italia, che ha a disposizione solo il secondo, limitato ed inadeguato, strumento di tutela.

[31] Sul punto si veda S. Spatola, cit., pag. 117, che  alla nota n. 49 cita una pronuncia giurisprudenziale (Trib. per i Minorenni di Bologna del 25 giugno 2020) che ha riconosciuto la parentela fra adottata e figli dell’adottante. Ancora un volta la giurisprudenza si fa carico di colmare dei vuoti di tutela che emergono nella realtà sociale e innanzi ai quali il legislatore resta inerte, ponendo però problematiche riguardo ai limiti che il giudice incontra nell’attività ermeneutica.

[32] Cfr. S. Stefanelli, cit., pag. 47, che rimarca come, impedendo alla madre intenzionale di procedere al riconoscimento del nato, si finisce con il precludere al nato la possibilità di esperire l’azione giudiziale di maternità poiché l’art. 269, comma 1, c.c. ammette tale azione solo quando è ammesso il riconoscimento, con la conseguenza che il diritto soggettivo del nato “resta orfano di azione in giudizio, in spregio all’art. 24 Cost.”.

[33] Nella sentenza n. 32 del 2021, al punto 2.2.1. del “Considerato in diritto”, si legge che “Il rimettente non contesta la legittimità costituzionale dei limiti posti alle coppie omosessuali nell’accesso alla PMA. Denuncia, piuttosto l’illegittimità costituzionale della compressione dei diritti dei nati, su cui si farebbe ricadere la responsabilità inerente all’illiceità delle tecniche adottate nella procreazione”. La sentenza n. 33 del 2021 riguarda, invece, “lo stato civile dei bambini nati attraverso la pratica della maternità surrogata, vietata nell’ordinamento italiano dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004” (così il punto 2 del “Considerato in diritto”.

[34] Ciò in quanto l’art. 46, comma 1, l. 184/1983 prevede che “Per l’adozione e’ necessario l’assenso dei genitori e  del  coniuge dell’adottando” ed il successivo comma 2, nel prevedere la possibilità che in caso di rifiuto ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando il Tribunale possa pronunciare egualmente l’adozione, esclude espressamente da tale eventualità il caso in cui “l’assenso sia stato rifiutato dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale”.

[35] La Corte ha infatti ritenuto che “La circostanza che ha indotto la madre biologica a recidere un tale legame nei confronti della madre intenzionale, coincidente con il manifestarsi di situazioni conflittuali all’interno della coppia, ha reso affatto evidente un vuoto di tutela” (cfr. il punto 2.4.1.3. del “Considerato in diritto”).

[36] Punto 2.4.1.2. del “Considerato in diritto”. La valorizzazione del citato parere CEDU emerge con ancora maggior evidenza dalla sentenza n. 33 del 2021, nella quale la Corte, rigettando un’eccezione di inammissibilità che l’Avvocatura dello Stato aveva incentrato proprio sul carattere non vincolante del parere, afferma che: “non v’è dubbio che il parere consultivo reso dalla Corte EDU  su richiesta della Corte di cassazione francese non sia vincolante, come espressamente stabilisce l’art. 5 del Protocollo n. 16 alla CEDU (…) Cionondimeno, tale parere è confluito in pronunce successive, adottate in sede contenziosa dalla Corrte EDU (sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia; decisione 19 novembre 2019, C. contro Francia ed E. contro Francia)” (punto 3.1. del “Considerato in diritto”).

[37] Punto 2.4.1.3. del “Considerato in diritto” della sentenza n. 32 del 2021. Tale sentenza si conclude con un monito al legislatore molto più pressante di quello contenuto nella decisione qui in commento, affermando la Corte che il legislatore “dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela” e che trattandosi di “raggiungere un fine costituzionalmente necessario (…) non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore, riscontrato in questa pronuncia” (punto 2.4.1.4 del “Considerato in diritto”).

[38] La Corte ha infatti ritenuto che: “non è qui in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino. Ciò che è qui in discussione è unicamente l’interesse del minore che sia affermata in capo a costoro la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali agli interessi del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali. Doveri ai quali non è pensabile che costoro possano ad libitum sottrarsi”, così al punto 5.4. del “Considerato in diritto”.

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