giovedì, Aprile 18, 2024
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Made in Italy o Italianness? Tra marchio di origine tutelato e voga di una italianità a rischio

Nell’universo del fashion luxury, la moda italiana si contraddistingue da sempre grazie ad un savoir faire, specchio di una società e di una cultura il cui carattere distintivo rileva, oggi, a livello globale ed è fonte d’ispirazione per innumerevoli designer. Invero, la qualità dell’industria tessile italiana ha sicuramente rilevanti implicazioni a livello economico, basti pensare ad alcune tra le case di moda italiane più note quali Valentino, Prada, Armani e Versace che rientrano, oggi, in una porzione preponderante del mercato dei brand di lusso. Rilevanza che si ripercuote in seno al consumatore stesso, il quale associa inevitabilmente la denominazione riportata sull’etichetta di un capo alla qualità del capo stesso. Il Made in Italy, letteralmente “fatto in Italia”, è l’orgoglio delle maison italiane, parte di una lunga storia che ripercorre l’evoluzione sociale e culturale di un Paese in cui l’abbigliamento ne è costantemente il riflesso e da cui deriva una italianità[1] pura e semplice che ad oggi, paradossalmente, non è più solo un patrimonio nazionale ma è al centro di un ammalio globale ed in quanto tale, diffusamente richiesta e conseguentemente esportata.

1. Il Made in Italy: marchio di origine, segno di una tradizione tutelata.

Il Made in Italy, all’apparenza mera denominazione apposta sull’etichetta di un capo d’abbigliamento, costituisce, in realtà, un vero e proprio marchio di origine che permette di distinguere i prodotti nazionali da quelli interamente importati. Contrariamente a quanto si possa essere indotti a credere, sulle basi di quanto disposto ex art. 36 del Regolamento CE/04/2008 n. 450[2], una tale denominazione non viene attribuita alle sole merci totalmente prodotte in Italia, lo stesso marchio può infatti essere apposto anche su “merci alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi o territori” ma che nello stesso abbiano necessariamente subito l’ultima trasformazione sostanziale[3]. Si potrebbero in tal senso distinguere due Made in Italy, ossia “il marchio previsto dalla Legge 350/2003[4], che lo lega al criterio selettore del Codice doganale comunitario del 1992[5]; e quello introdotto dal D.L. 135/2009 (art. 16, comma 1)[6] che tratta del cosiddetto full Made in Italy[7], detto anche “100% Made in Italy”, marchio attribuibile unicamente quando “il disegno, la progettazione, la lavorazione ed  il  confezionamento  sono  compiuti esclusivamente sul territorio italiano”. A tal fine, quindi, non viene unicamente valutata la presenza del carattere nazionale della produzione, o il venir meno dello stesso, ma si richiedono criteri ulteriori ed aggiuntivi riscontrabili in primis nelle materie prime utilizzate, nel corso della trasformazione delle stesse, fino all’elaborazione ultima del prodotto.

Analogamente rilevante in materia è l’Accordo di Madrid del 1891[8], recepito a livello nazionale dal D.P.R. 656/1968 [9], il cui art. 1 merita particolare attenzione, lo stesso, al suo comma 1, afferma che: “Qualsiasi prodotto recante una falsa o fallace indicazione di provenienza, nella quale uno dei paesi, cui si applica il presente Accordo, o un luogo situato in uno di essi, fosse direttamente o indirettamente indicato come paese o come luogo d’origine, sarà sequestrato alla importazione in ciascuno dei detti paesi”. Trattasi di uno strumento di tutela della corretta indicazione dell’origine e provenienza della merce importata, consentendo all’atto dell’importazione il sequestro di qualsiasi prodotto recante falsa o ingannevole indicazione di provenienza, qualora uno dei Paesi parte dell’Accordo sia direttamente o indirettamente indicato luogo di origine[10], per la cui determinazione si rinvia al criterio dell’origine non preferenziale. A titolo esemplificativo, si cita, a riguardo, il noto caso D&G, sentenza del T.A.R. del Friuli Venezia Giulia n. 157/2006[11]. La questione verteva sul fermo amministrativo disposto dall’autorità doganale ex ART 1 D.P.R. 656/1968 di un lotto di abbigliamento ed intimo per bambino proveniente dalla Turchia e riportante sull’etichetta la seguente dicitura: “Dolce & Gabbana S.p.A. Legnano, Milano (Italy)”. Tale articolo 1, in completa assonanza con l’Accordo di Madrid ribadisce che: “Le  merci  per  le quali vi sia il fondato sospetto che rechino una falsa  o  fallace  indicazione  di  provenienza sono soggette a fermo all’atto  della  loro introduzione nel territorio della Repubblica […]”. Nella fattispecie concreta, D&G si avvaleva della G.D.T.A.S., una impresa turca che assemblava in loco la merce in questione. Tuttavia, sebbene la produzione avvenisse interamente in un Paese estero, i.e. la Turchia era in ogni fase controllata da D&G la quale inviava le etichette da apporre sui capi, che una volta confezionati, venivano poi alla stessa spediti. Visto e considerato il controllo totale della produzione da parte di D&G, venivano a mancare i presupposti per ritenere che le etichette riportanti la dicitura “Dolce & Gabbana S.p.A. Legnano, Milano (Italy)” apposte sui capi d’abbigliamento costituissero una indicazione falsa o fallace ai sensi dell’art. 4, comma 49, L 350/2003, escludendo pertanto la configurazione del reato dal medesimo previsto: “L’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale […]”. La merce restava tuttavia sotto fermo amministrativo: invero, se l’origine imprenditoriale non rendeva nel caso di specie applicabile il rimedio penale previsto ex art. 4, comma 49 della suddetta legge, tale criterio si rivelava essere irrilevante ai fini dell’art. 3 dell’Accordo di Madrid[12], ponendo lo stesso particolare attenzione sull’origine geografica del luogo di produzione e volendo che, nel caso in cui “il venditore indichi il suo nome o il suo indirizzo su prodotti provenienti da un paese diverso da quello della vendita”, l’indirizzo o il nome sia “accompagnato dall’indicazione precisa, e a caratteri ben chiari, del paese o del luogo di fabbricazione o di produzione o da altra indicazione che valga ad evitare qualsiasi errore sulla vera origine delle merci”. Si rileva pertanto da tale interpretazione una tutela rafforzata e bivalente, non solo del Made in Italy quale marchio di origine, ma indirettamente del consumatore, preservando quest’ultimo da una ingannevole provenienza del prodotto. Un Made in Italy, quindi, che va oltre alla riproduzione sull’etichetta dell’origine del prodotto, venendo ad alimentare la percezione del valore qualitativo dello stesso. Influenza, questa, che si ripercuote inevitabilmente sulle scelte del consumatore proprio per il grande potere che nasconde, indice sfruttato come strategia di vendita.  Ora, cosa resta del Made in Italy puro in un fashion system in cui le nuove tecnologie corrono al passo con una domanda sempre più incline al fast fashion[13]?

2. Italianness in voga: i rischi.

L’Italianness, o italianità, è costantemente messa a repentaglio dalle strategie di vendita e dalla foga di piccoli e grandi imprenditori di estendere il proprio business ad un più vasto ventaglio di consumatori. Ciò avviene anche attraverso l’utilizzo improprio ed illecito del marchio di origine. Di fronte ad un capo di abbigliamento, il consumatore attento, in fase d’acquisto, prende in considerazione, in misura più o meno eguale, due fattori: la qualità ed il prezzo. Ma con riferimento al consumatore medio, un capo è acquistato in considerazione della sua forma o della sua sostanza? Il Made in Italy non è solo certificazione della provenienza o dell’origine di un prodotto, poiché tra i suoi effetti, si riscontra un forte impatto sui consumatori. I medesimi associano – quasi in via automatica – la mera indicazione presente sull’etichetta ad una qualità di alto livello. Associazione più che fondata nell’industria manifatturiera italiana la quale, con particolare riferimento al settore luxury, è da sempre nota per la raffinatezza dei tessuti utilizzati, per le modalità impiegate nella lavorazione degli stessi nonché per i processi artigianali che richiedono tempo, attenzione e cura per i dettagli. Che un capo sia Made in Italy al 100% o puro e semplice, se così certificato, il prezzo resta sicuramente più elevato rispetto ad un prodotto importato in cui, materia prima e realizzazione, provengono interamente da un Paese estero. Si desume facilmente un secondo possibile rischio, in quanto il consumatore di fronte a due prodotti simili ma con uno scarto economico importante preferirà molto spesso, se non sempre, il prodotto meno costoso. Invero, la dislocazione della produzione all’estero nonché l’utilizzo di materie prime non italiane, permette in via principale di risparmiare sui costi, quali la manodopera, ma precluderebbe la garanzia di un livello qualitativo pari a quello fornito da una manodopera locale.

A seguito della pandemia, si è assistito non senza stupore ad una inversione del fashion system, adattandosi questo in modo quasi automatico all’orientamento della domanda e non cercando di variare l’offerta. Circostanza che ha alimentato il sopravvento del fenomeno del fast fashion a favore delle grandi catene. Tra queste, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, il Gruppo Inditex S.A, proprietario di marchi quali Zara e Stradivarius, offrendo al pubblico modelli ispirati all’alta sartoria a prezzi di gran lunga più accessibili. Oltre al rischio più o meno limitato che il fast fashion costituisce per i brand di lusso che producono capi Made in Italy, i quali vedono i modelli da loro ideati e creati, resi accessibili in minor tempo, costo, qualità e sostenibilità dalle grandi catene di distribuzione, il rischio si estende più generalmente alla cultura, nella forma e nella sostanza, che si nasconde dietro ai capi italiani.

La notorietà diffusa della moda italiana ha indotto diverse compagnie estere volte ad espandere il loro business, ad adottare particolari strategie e meccanismi volti all’associazione del loro prodotto ad elementi tipici della moda italiana, quali i pattern, le forme o semplicemente le strategie di comunicazione, come riproduzioni artistiche o sonore, tradizionalmente iconiche del nostro Paese, conducendo così all’associazione dell’italianness a prodotti di brand non italiani. Un tale processo confonde inevitabilmente il consumatore e lo induce ad acquistare un prodotto credendolo di una origine che in realtà è fasulla. È un rischio per i marchi italiani che dell’italianità non portano solo il nome ma anche una cultura che si respira nei tessuti, nei colori e nell’eleganza dei dettagli stessi.

Ultimo, ma non irrilevante rischio per l’Italianness, forse indiretto e sicuramente meno evidente è l’acquisizione da parte di holding estere delle maison italiane. Ma in che misura la conquista dei brand nazionali può avere un impatto sull’impronta italiana nelle collezioni future degli stessi? Se, tra le altre, l’acquisizione americana di Versace nel 2018 [14]da parte del Gruppo Michael Kors, ora Capri Holdings Limited, avrà indubbiamente un risvolto economico a lungo termine, ci si interroga però su cosa resterà dell’italianità a seguito di una operazione societaria che porta alla dislocazione della stessa e forse ad un venir meno delle sue radici.

 

[1] Da Enciclopedia Treccani: “L’essere conforme a ciò che si considera peculiarmente italiano o proprio degli Italiani nella lingua, nell’indole, nel costume, nella cultura, nella civiltà”.

[2] Consultabile qui: https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:145:0001:0064:it:PDF

[3] Trattasi in questo caso di origine doganale non preferenziale che congiuntamente all’origine doganale preferenziale viene disciplinata dall’art. 36, Regolamento CE 23/04/2008 n° 450, vedasi link alla nota precedente.

[4] i. e. Legge finanziaria 2004, nello specifico si consulti l’art. 4, comma 49, disponibile al seguente link: https://www.camera.it/parlam/leggi/03350l.htm

[5] Regolamento CE 2913/92, modificato dal Regolamento CE 450/2008.

[6] Disponibile qui: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2009-09-25&atto.codiceRedazionale=009G0145&elenco30giorni=false

[7] D. Aguaro, “Cosa è il Made in Italy e cosa no”, Novembre 2013, per leggere l’articolo esteso si consulti il seguente link: https://st.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2013-11-20/cosa-e-made-italy-e-cosa-no-140026.shtml?uuid=ABS7YSe

[8] Consultabile al seguente link: https://www.wipo.int/edocs/pubdocs/it/wipo_pub_261.pdf

[9] Consultabile al seguente link: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1968/05/27/068U0656/sg

[10] A. Maietta, “Il diritto della moda”, Giuffrè 2018.

[11] T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 8 febbraio 2006 n. 157.

[12] Vedasi precedente nota 10.

[13] Per maggiori approfondimenti in materia vedasi “La democratizzazione della moda”, S. Liparuli disponibile al seguente link: https://www.iusinitinere.it/la-democratizzazione-della-moda-natura-o-web-29307

[14] Riflessione questa, che verrà condotta in successiva sede.

Sonya Katia Ben Amor

Nata in Italia, si trasferisce presto in Francia dove consegue la sua prima laurea nel 2018 presso la Faculté de Droit et Sciences Politiques di Aix-Marseille. Per integrare ed arricchire il suo percorso torna in Italia e nel 2019 si iscrive all’Università degli studi di Padova, dove attualmente è studentessa in giurisprudenza. Lavora come giurista d’impresa presso una multinazionale e collabora con l’area di “Fashion Law” di Ius in itinere, branca emergente del diritto, nonché combinazione perfetta delle sue due passioni più grandi: il diritto e la moda.

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