Il reato di epidemia rientra nel novero dei reati presupposto di cui al D.Lgs. 231/2001?
A cura di Marco Lavini
1. Introduzione
In questi giorni l’Italia sta vivendo un’emergenza legata alla diffusione del COVID–19 (meglio noto come Coronavirus) che ha colpito gran parte della popolazione, impattando in modo significativo e rilevante non solo sulla vita delle persone, ma anche, come prevedibile, su quella delle aziende e, più in generale, sull’economia nazionale e non.
A quasi vent’anni dall’emanazione del Decreto Legislativo 231/2001, ci si trova a ragionare sulle modifiche che tale epidemia potrà apportare allo stesso che, come è noto, riguarda la responsabilità “amministrativa” – anche se, ovviamente, sarebbe più corretto parlare di responsabilità penale – degli enti. E infatti, la pandemia di questi mesi ha messo in evidenza come i Modelli prospettati dal Decreto siano sempre soggetti a mutamenti nel corso degli anni, in quanto il loro principale fine è quello, come sopra esposto, di tutelare l’ente da eventuali responsabilità e, di conseguenza, anche quello di garantire la salute e la sicurezza sul posto di lavoro, come previsto dal D. Lgs. 81/2008 (“Testo Unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”) e come, più in generale, riportato anche dall’art. 2087 cod. civ., secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
A seguito dei vari DPCM emessi contenenti le misure di sicurezza da dover osservare onde evitare (o, quanto meno, ridurre) il rischio di contagio, le imprese hanno messo in moto tutta una serie di misure volte a tutelare i propri lavoratori: sono state chiuse alcune sedi, è stato favorito lo smart working e sono state ampliate le attività di pulizia (come la sanificazione costante dei luoghi di lavoro). Queste misure, che sicuramente possono risultare utili nell’immediato, non appaiono tuttavia pienamente sufficienti nel medio-lungo termine, essendo ravvisabile la necessità di introdurre, all’interno dell’impresa, anche misure che modifichino gli aspetti di natura organizzativa e, quindi, volte all’aggiornamento dei c.d. Documenti di Valutazione Rischi (“DVR”)[1].
Pertanto, la domanda più ricorrente ed importante che in questo contesto economico-sociale si pongono gli operatori è se dopo l’avvenuto contagio da Coronavirus di un dipendente sul luogo di lavoro l’ente possa essere ritenuto responsabile ai sensi del Decreto 231/2001.
2. Il Modello 231 e il reato di epidemia
Il Modello 231 prevede la possibilità, per ogni ente (societario o meno), di dotarsi di assetti organizzativi idonei a prevenire i vari reati che possano verificarsi al suo interno e, di conseguenza, la non imputabilità dell’ente medesimo. Proprio per quanto attiene ai numerosi reati inclusi nel Decreto, e successive modifiche, la lista passa dai reati societari ai reati contro l’industria, dai delitti contro la personalità individuale ai reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, di cui all’art. 25–septies del Decreto.
In merito a queste ultime due figure, è importante, ai fini della trattazione, soffermarsi sul fatto che il Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 (“Decreto Cura Italia”) abbia stabilito, all’art. 42, che il contagio da COVID–19 possa costituire un infortunio sul lavoro, da cui può ben discendere – qualora da tale evento vi siano conseguenze quali la morte o lesioni per i lavoratori – la responsabilità di cui all’art. 25–septies del D. Lgs. 231/2001 in capo all’ente.
Per quanto attiene l’imputabilità del contagio (da cui possono derivare, come visto sopra, la morte o, comunque, delle lesioni gravi o gravissime) alla condotta del datore di lavoro, ossia il nesso di causalità tra condotta e danno (elemento, di solito, difficile da dimostrare), questo può essere agevolato dal fatto che, se da un lato il contatto umano fra vari soggetti è drasticamente diminuito, dall’altro, le possibilità più concrete di contagio possono verificarsi quasi esclusivamente sul posto di lavoro.
Altro discorso deve essere fatto per il reato di epidemia. Fino ad oggi, non è stata mai avallata l’idea, da parte del legislatore, stante anche l’orientamento dato dall’ultima pronuncia della Corte di Cassazione[2], di inserire il reato di cui all’art. 438 c.p. fra i reati ascrivibili alla responsabilità dell’ente in quanto si è dinnanzi, come più volte sottolineato dalla stessa Corte, ad un reato esclusivamente commissivo. E infatti, autorevole giurisprudenza (Cass. Pen., Sez. I, 12 dicembre 2017, n. 9133) sostiene che non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione per il delitto di epidemia, in quanto è lo stesso reato che richiede una condotta commissiva a forma vincolata.
Prima di evidenziare se sia o meno configurabile pro futuro l’inclusione di tale figura delittuosa nel novero dei reati presupposto del D.Lgs. 231/2001 è necessaria, ai fini di una maggior chiarezza, una preliminare disamina delle caratteristiche dei reati nelle loro fattispecie.
L’articolo 438 c.p. (rubricato “Epidemia”) prevede e punisce “chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”, mentre l’articolo 452 c.p. (rubricato “Delitti colposi contro la salute pubblica”) parimenti punisce “chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 438 e 439”.
Trattasi, in entrambi i casi, di reati di pericolo comune: in particolare, l’epidemia costituisce una fonte di pericolo per la salute pubblica e, dunque, per un numero indeterminato di persone non ancora aggredite. Il bene giuridico tutelato è sicuramente la salute pubblica ma il legislatore vi ha affiancato altresì il concetto di frode, riferendosi alla previsione dei suddetti delitti prescindendo dall’effettivo elemento psicologico dell’agente, ma attenendosi alla insidiosità a fortiori di una cosa o di una sostanza (sul punto, art. 4, comma 1, lett. d) D.Lgs. 159/2001, Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché Nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli artt. 1 e 2 della legge n. 136/2010).
Una differenza da porre in evidenza è che nel primo reato il comportamento è sorretto sia da dolo generico che da forma colposa mentre, nel secondo, esclusivamente da colpa (la norma, sul punto, prevede una tipizzazione della forma colposa dei delitti dolosi, di cui agli artt. 438-445 c.p., prevedendone una specifica sanzione; si veda altresì l’art. 162-bis c.p., ovvero la possibilità di oblazionare l’illecito contravvenzionale punito con pena alternativa).
Il momento consumativo del suddetto reato coincide con il verificarsi dell’epidemia: pertanto, ci si imbatte, in una figura di reato commissivo a forma vincolata e non in una figura di reato omissivo. La dottrina minoritaria[4], che ha cercato di far rientrare nel novero del 452 c.p. comportamenti omissivi, si è scontrata con l’impossibilità di dimostrare la condicio sine qua non tra condotta e i singoli contagi.
Poste tali premesse, l’orientamento di autorevole giurisprudenza [3] escluderebbe la possibilità che un ente possa vedersi imputare il reato di epidemia. E infatti, per l’interprete è difficile dimostrare l’imputabilità ex D.Lgs. 231/2001 dei suddetti reati all’ente, in quanto risulta impossibile dimostrare che il reato sia stato commesso nell’interesse e a vantaggio dell’ente. Tale vantaggio deriverebbe, quasi esclusivamente, da un risparmio che l’ente otterrebbe dalla mancata attuazione di tutte le misure preventive idonee ad eliminare o quantomeno ridurre il rischio di contagio. Si pensi, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, ai costi relativi alla sanificazione degli ambienti o alla gestione degli spazi comuni (come le mense) ma, soprattutto, alla presenza di un medico ed ai controlli della temperatura da dover effettuare all’ingresso [5].
Ad oggi, per quanto attiene l’imputabilità ex art. 452 c.p., la situazione rimane immutata, ma nel corso di questi ultimi mesi, stante i già i numerosi episodi riguardanti la responsabilità a titolo di colpa scaturente da comportamenti omissivi, nulla esclude che la Cassazione possa rivalutare l’interpretazione data al concetto di diffusione, punendo a titolo di colpa il reato di epidemia nella sua forma omissiva.
Tale eventualità fa sì che, se da una parte venga contestata agli enti una condotta omissiva – ai sensi dell’art. 452 c.p. – e, pertanto, diventi necessario dotarsi di procedure che mirino a salvaguardare la salute del dipendente, dall’altra, si evince l’esigenza che il legislatore debba includere tra i reati previsti dal Decreto 231/2001 anche quello di epidemia.
[1] sul tema cfr. L. Lorenzon (a cura di), Impatto del Covid-19 sulla compliance aziendale: spunti in tema di responsabilità ex D.Lgs. 231/2001, in Ius in itinere, 2020.
[2] Cass. Pen. Sez. IV, sentenza n. 9133, 12 dicembre 2017.
[3] cfr. Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 48014, 26 novembre 2019 e Cass. Pen. Sez. IV, sentenza n. 9133, 12 dicembre 2017.
[4] Si fa riferimento alla tesi esposta in V. Corbetta, I delitti contro l’incolumità pubblica. Tomo II. I delitti di comune pericolo mediante frode, (a cura di) Marianucci, Dolcini, Trattato di diritto penale. Parte speciale.
[5] A rigor del vero, si legga art. 42, D.L. Cura Italia, nel quale vengono menzionate espressamente le misure preventive da attuare all’interno dell’ambiente lavorativo.