Come provare un tradimento in giudizio? La svolta nella Sent. n. 25553/2017
Come provare un tradimento in giudizio?
La Corte di Cassazione ha risposto al quesito nella Sentenza n. 35553 depositata lo scorso 19 Luglio 2017, secondo la quale non commette reato il marito che consegna al giudice file contenenti immagini hot della moglie con il suo amante per provarne il tradimento.
Il caso di specie concerne il ricorso di una coppia di amanti nei confronti del marito di uno dei due che, essendo stato tradito, ha presentato dinanzi al giudice le immagini compromettenti della moglie ed il suo amante. L’uomo è stato condannato in primo grado dal Tribunale di Lecco, poi assolto dalla Corte d’Appello ed infine condannato a 4 mesi di reclusione ed una multa pecuniaria, per aver prodotto tale prova, avendo utilizzato in modo illecito dati personali della “coppia” contenuti in un CD-ROM, perlopiù “trafugato” nell’abitazione coniugale.
In questo caso poi risolto dalla Corte di Cassazione, si presentano due interessi contrapposti ma che, come vedremo, i giudici Supremi hanno voluto contemperare: da un lato il diritto alla Privacy della coppia “violata” e la condotta contraria alla disciplina sul “trattamento dei dati personali”, dall’ altro l’interesse del soggetto leso ad esercitare il diritto di difesa quale diritto inviolabile garantito dall’art. 24 Cost.
Procedendo per ordine, cosa prevede la nostra Legge sul “trattamento dei dati personali”?
Secondo il “Codice della privacy”, per trattamento dei dati personali si intende “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati”.
Il Codice specifica che il trattamento dei dati personali dovrà essere svolto “nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali” e, ai sensi degli artt. 23 e 24 prevede che “il trattamento dei dati personali avvenga esclusivamente con il consenso espresso dell’interessato che deve essere preventivo, esplicito e libero in modo da essere inequivocabile. Il silenzio, pertanto, non può essere considerato una forma di consenso”.[1]
Perciò, dato che il consenso dell’interessato esprime di fatto la propria autorizzazione al trattamento dei dati personali, la mancanza del consenso, laddove previsto, comporta sanzioni penali od amministrative, oltre alla responsabilità civile nel caso di danno derivante da un illecito trattamento dei dati, ex. art. 2055 c.c.
Infatti, l’art. 167 c. 1, del capo II del Codice della Privacy prevede due condotte tipiche:
-Per il trattamento illecito di dati personali da cui derivi nocumento al titolare si prevede la pena della reclusione da sei a diciotto mesi;
-Per la comunicazione o diffusione dei dati illecitamente trattati, indipendentemente dal potenziale nocumento che ne derivi a terzi, è prevista la reclusione da sei a ventiquattro mesi.
La punibilità delle condotte si concretizza nella violazione degli artt. 18, 19, 23, 123, 126 e 130 e si richiede la presenza del dolo specifico.
Per questo, il marito che avesse prodotto come prova documentale in giudizio un file “intimo” della moglie veniva condannato.
Ma la Cassazione, il 19 Luglio del 2017, accogliendo le istanze del ricorrente si è espressa con un orientamento intermedio tra la tutela della riservatezza di un soggetto e la tutela giurisdizionale del diritto leso ed ha concluso sull’ammissibilità della prova documentale in esame, seguendo la stessa linea di altri precedenti giurisprudenziali.
Infatti, già nel 2009 la Cassazione aveva stabilito che “La produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza. La facoltà di difendersi in giudizio utilizzando gli altrui dati personali va tuttavia esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dalla Legge[2], sicchè la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, e le esigenze di difesa”[3].
Poi nel 2011, aveva stabilito che l’utilizzo in giudizio di documenti contenenti dati sensibili, senza il preventivo consenso dell’interessato, non costituisce violazione della privacy, qualora la produzione degli incartamenti sia necessaria per esercitare il diritto di difesa costituzionalmente protetto[4].
Ancora la Corte[5] ha precisato che la produzione di dati personali per far valere i propri diritti in un giudizio non costituisce violazione della privacy in quanto i dati stessi vengono raccolti e gestiti nell’ambito del processo stesso: titolare del trattamento però, è il giudice, non il privato.
Proprio sulla base di queste argomentazioni si sviluppa la recentissima conclusione degli Ermellini[6]. La Corte ha infatti consacrato il principio per cui l’uso dei dati personali durante l’attività processuale è lecita: in questo caso il diritto alla difesa prevale, ma solo se funzionale allo svolgimento delle indagini difensive e solo se i dati siano utilizzati o trattati per il periodo strettamente necessario allo svolgimento del processo ed esclusivamente nelle sedi giudiziarie.
Alla luce di ciò, è pacifico che foto, filmati, registrazioni, email o simili documenti possono essere prove valide dell’infedeltà coniugale in una causa, ad esempio, di separazione o divorzio. Sul piano pratico, entrare in possesso di tale materiale per scopi processuali non è reato, ma può costituire un consistente supporto agli operatori del diritto per garantire la ricerca della verità.
[1] D. Lgs 196/03 Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 “Codice in materia di protezione dei dati personali”
[2] L. n. 675 del 1996, art. 9, lett. a) e d)
[3] Cass. Civ. (Sez. 3) n. 3358 del 11/02/2009
[4] Cass. Pen. sent. n. 35296/2011
[5] Cass. sent. n. 3034/2011
[6] Cass. sent. n. 35553/17
Sono Alessia Di Prisco, classe 1993 e vivo in provincia di Napoli.
Iscritta all’Albo degli Avvocati di Torre Annunziata, esercito la professione collaborando con uno studio legale napoletano.
Dopo la maturità scientifica, nel 2017 mi sono laureata alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli, redigendo una tesi dal titolo “Il dolo eventuale”, con particolare riferimento al caso ThyssenKrupp S.p.A., guidata dal Prof. Vincenzo Maiello.
In seguito, ho conseguito il diploma di specializzazione presso una Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali a Roma, con una dissertazione finale in materia di diritto penale, in relazione ai reati informatici.
Ho svolto il Tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Torre Annunziata affiancando il GIP e scrivo da anni per la rubrica di diritto penale di Ius In Itinere.
Dello stesso progetto sono stata co-fondatrice e mi sono occupata dell’organizzazione di eventi giuridici per Ius In Itinere su tutto il territorio nazionale.