Repetita Iuvant – La svalutazione delle partecipazioni in società controllate extra UE
A cura di Alessia Funari
(commento a Cass. civ., sez. V, 11 maggio 2020, n. 8715)
Abstract
Con la sentenza in rassegna, la Cassazione torna a ribadire un importante principio di diritto secondo il quale sono fiscalmente deducibili le svalutazioni operate ai sensi del previgente art. 61, comma 3-bis, d.P.R. 917/1986 ove il contribuente fornisca all’Amministrazione finanziaria adeguata prova dell’effettiva esistenza di componenti negative di reddito. Oltre ciò, nell’esaminare gli altri motivi di impugnazione, la Corte persevera nel considerare valido l’avviso di accertamento che non menziona le osservazioni formulate dal contribuente.
Sommario: 1. La vicenda. – 2. La prova contraria in tema di svalutazione di partecipazioni estere ed il parallelismo operato dalla Corte rispetto alla deducibilità dei costi “black list”, alla disciplina sulle Controlled Foreign Companies e al regime PEX. – 3. L’avviso di accertamento e l’(in)utilità delle osservazioni del contribuente. – 4. Conclusioni.
1- I fatti della pronuncia di cui si discute sono abbastanza semplici e lineari. Una società per azioni vede notificarsi quattro avvisi di accertamento – due di primo livello e due di secondo livello – per gli anni 2004 e 2005, con i quali l’Amministrazione finanziaria negava la deducibilità delle svalutazioni di partecipazioni in tre consociate residenti in Paesi extra UE con i quali l’Italia non aveva stipulato accordi sullo scambio di informazioni. Segnatamente, due con sede in Nigeria e una a Panama.
Avverso la pretesa fiscale e fornendo la prova contraria di cui all’art. 61, comma 3-bis, d.P.R. 917/1986, la ricorrente aveva prodotto i bilanci certificati di ciascuna partecipata, fornito i prospetti di determinazione del valore civilistico e fiscale delle partecipazioni con il calcolo delle svalutazioni deducibili, presentato il quadro FC del Modello compilato dalla controllata panamense, nonché dato prova che una delle due società nigeriane era quotata in borsa e periodicamente sottoposta a controlli e verifiche in ordine alla propria consistenza patrimoniale e all’effettivo svolgimento di attività di impresa.
Sotto il profilo processuale, invece, rileva la posizione – ictu oculi discutibile e censurata dalla Corte Suprema – assunta dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia la quale, chiamata a vagliare le esimenti fornite dalla contribuente in relazione alle operazioni realizzate con le tre società estere quindi, prima facie, sospette, ha rigettato l’appello adducendo che le riduzioni di valore delle partecipazioni in società non appartenenti all’UE non potevano essere ammesse perché, tra l’Italia e gli Stati di Panama e Nigeria, non vi erano accordi che consentivano uno scambio adeguato di informazioni così come richiesto dalla norma di riferimento[2].
La Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha giustamente ritenuto di dover accogliere le doglianze sollevate dalla contribuente e nel cassare la sentenza impugnata, ha enunciato che l’art. 61, comma 3-bis, d.P.R. 917/1986, “va inteso, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, ispirata ai parametri di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nel senso che è, comunque, sempre consentito al contribuente residente di fornire la prova contraria in ordine alla sussistenza della esistenza di tali componenti negativi di reddito”.
2- Ciò premesso, la questione fondamentale sulla quale si sono innestati il procedimento di accertamento, prima, e tutti i gradi di giudizio poi, è sostanzialmente la deduzione di un componente negativo di reddito a fronte di una perdita di valore non verificabile dall’Amministrazione finanziaria in ragione della mancanza di un accordo sullo scambio di informazioni tra lo Stato italiano (di residenza della controllante) e gli Stati esteri (di residenza delle controllate).
Sul punto, come ha correttamente rilevato la Cassazione, assume cruciale importanza la corretta interpretazione della disposizione che regola la fattispecie concreta, in questo caso, l’art. 61, comma 3-bis, d.P.R. 917/1986 (ora art. 94) che, pur stabilendo che “le riduzioni di valore di cui alla lettera b), del comma 3, relative ad azioni e titoli similari emessi da società ed enti residenti in Stati non appartenenti alla Comunità europea sono ammesse, sempre che siano in vigore accordi che consentano all’Amministrazione finanziaria di acquisire le informazioni necessarie per l’accertamento delle condizioni ivi previste”, non deve essere letto in chiave strettamente formalistica, ma alla luce dei principi di uguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza e capacità contributiva.
A ragione, l’assunto secondo cui il contribuente non solo non può dedurre dal proprio reddito le minusvalenze determinate da perdite subite dalle proprie partecipate estere in ragion del fatto che non vi sono accordi sullo scambio di informazioni tra l’Italia ed i Paesi extra UE ma, anche, che non può neppure offrire la prova contraria – alla stregua di una presunzione assoluta – in ordine all’effettiva esistenza di dette perdite, pare porsi in contrasto con l’art. 53 Cost.
Parimenti, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., il negare al contribuente la deduzione delle perdite da svalutazione di partecipazioni in controllate residenti extra UE inseriti in black list e, poi, ammetterla alle altre società che hanno subito le stesse perdite in partecipate che hanno la propria sede in Paesi extra UE ma, con i quali, esistono accordi sullo scambio di informazioni.
Ecco che allora, in quest’ottica di idee e sulla scorta di quanto esplicato nella relazione illustrativa al d.l. 29 giugno 1994, n. 416, l’organo di nomofilachia ha correttamente evidenziato che l’articolo de quo, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di seconde cure, non esclude affatto la possibilità per il contribuente di esperire prova contraria, anzi egli ne ha pieno diritto e ben può fornirla attraverso i dati contabili dei bilanci i quali, consentono di dimostrare l’effettiva operatività della società, dell’attività commerciale svolta e dei risultati della gestione finanziaria.
Con precipuo riferimento alla prova contraria e alla mancanza di informazioni necessarie per l’applicazione delle condizioni previste all’art. 61, comma 3-bis, è interessante osservare quanta attenzione vi abbia dedicato la Corte e come abbia arricchito la motivazione della pronuncia prendendo in esame anche la disciplina inerente alla deducibilità dei costi da spese contratte con società site in Stati inclusi nelle black list, ex art. 110 d.P.R. 917/1986, sulla Pex, ex art. 87 TUIR, sulle CFC, ex art. 167 TUIR, e, più in generale, ad ogni ipotesi di elusione ai sensi dell’art. 10-bis legge 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente, d’ora in poi Statuto).
Scendendo più nel dettaglio e secondo l’ordine, rispetto ai costi black list, l’art. 110, commi 10 -11, TUIR, nonostante sia stato sottoposto a numerose operazioni di restyling da parte del legislatore, ha sempre consentito alla contribuente di fornire prova contraria all’Amministrazione finanziaria e, quindi, dimostrare che le operazioni poste in essere con la società o l’ente residente nel Paese extra UE a fiscalità privilegiata, rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione[3].
Del resto, anche l’art. 167 TUIR, la cui finalità è “il contrasto alle costruzioni di puro artificio caratterizzate dalla volontà del soggetto residente di insediarsi in maniera fittizia in Stati o territori esteri al mero fine di ottenere un vantaggio fiscale”[4], prevede che il contribuente può avvalersi della circostanza esimente di cui al comma 5, al fine di evitare la tassazione per trasparenza dei dividendi della società estera partecipata. In particolare, egli può dimostrare che il socio non residente svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali e, quindi, presentare istanza di interpello l’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera b) dello Statuto[5].
Parimenti, viene poi in gioco l’esenzione al 95% delineata all’art. 87 TUIR, articolo che involge le plusvalenze patrimoniali relative alle partecipazioni nelle società soggette ad IRES (residenti e non) e nelle società di persone (escluse le semplici), nonché agli strumenti finanziari assimilati alle azioni (ex art. 44 TUIR) e ai contratti di associazione in partecipazione. Ebbene, tra i requisiti che devono necessariamente ricorrere per beneficiare della PEX, spicca quello di cui alla lettera c), sulla residenza fiscale della partecipata in uno Stato o territorio diverso da quello a regime fiscale privilegiato e sulla possibilità per il contribuente che detiene partecipazioni estere in Paesi black list di dimostrare, avvalendosi ancora una volta dell’interpello disapplicativo, che da queste ultime non è conseguito l’effetto di localizzare i redditi in paradisi fiscali[6].
In ultimo, la menzione all’art. 10-bis dello Statuto laddove consente al contribuente di fornire la prova contraria rispetto a contestazioni ritenute elusive[7].
3- Un aspetto sui cui vale la pena svolgere qualche ultima considerazione finale involge, poi, un alterco tra dottrina e giurisprudenza molto spinoso, ossia quello della mancata considerazione nell’avviso di accertamento delle osservazioni del contribuente ex art. 12, comma 7, Statuto.
In merito, sulla base dei motivi di impugnazione fatti valere dalla contribuente, la Corte non ha mancato di ribadire la validità dell’avviso quand’anche manchi di esplicitare nella motivazione ogni riferimento alle osservazioni presentate dal contribuente atteso che la nullità consegue “solo alle irregolarità per cui essa sia espressamente prevista dalla legge” o, in difetto di previsione se “ricorre una lesione di specifici diritti o garanzie tali da impedire la produzione di effetti da parte dell’atto cui ineriscono”.
Si tratta di un orientamento consolidato e (purtroppo) dominante in giurisprudenza che gli studiosi cercano costantemente di scardinare poiché, è chiaro che non ha senso riconoscere al contribuente il diritto astratto al contraddittorio se poi, concretamente, si consente e si legittima l’amministrazione ad adottare atti o comportamenti che ne ledono o amputano l’effettiva portata ed operatività[8].
L’assunto secondo il quale “all’obbligo dell’amministrazione finanziaria di valutare le osservazioni del contribuente […] non si aggiunge l’ulteriore obbligo di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo a pena di nullità” non convince affatto. Non può convincere poiché, come giustamente osservato in dottrina, il suo accoglimento determinerebbe “una violazione “indiretta” del principio del contraddittorio (anticipato o procedimentale), mediante la mancata considerazione delle osservazioni del contribuente, che rappresentano l’estrinsecazione di quel principio”[9].
A ben vedere, sono sostanzialmente tre gli articoli che vengono in rilievo che necessitano di essere letti in combinato disposto tra loro, ossia gli artt. 7[10] e 12, comma 7[11], Statuto e l’art. 3 della legge 241/1990[12].
Nello specifico, procedendo in questo modo, pare possibile affermare quanto segue: se è vero che l’art. 12, comma 7, Statuto prevede espressamente che l’ufficio debba valutare le osservazioni formulate dal contribuente e che questo dovere costituisce integrazione e completamento dell’obbligo di motivazione di cui all’art. 7, Statuto, il quale, a sua volta rinvia altrettanto espressamente al generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi ex art. 3, legge sul procedimento, allora può concludersi che l’atto emanato dall’amministrazione (sia di accoglimento che di rigetto) che non faccia alcun riferimento alle osservazioni del contribuente è illegittimo.
È indubbio, difatti, che il riferimento alle risultanze istruttorie connota qualitativamente la motivazione sotto l’aspetto della sua articolazione in relazione all’omogeneità o alla conflittualità degli interessi emersi e delle posizioni esistenti[13].
Oltre tutto, occorre tenere presente che dopo l’entrata in vigore della legge n. 241/1990, l’obbligo di motivare ogni determinazione dell’Amministrazione è stato generalizzato ed esteso addirittura agli atti vincolati sotto forma di onere. L’amministrazione, oggi, deve indicare il tipo di potere esercitato ed i presupposti di fatto delle determinazioni assunte allo scopo di consentire di ricavare con assoluta certezza le ragioni poste alla base della decisione e consentire un effettivo controllo delle stesse, nonché un’analisi funzionale dell’atto, da parte del giudice competente[14].
Ad ogni buon conto, senza ulteriormente approfondire questo aspetto – che meriterebbe una trattazione separata e a sé stante, considerata la sua delicatezza – sembra possibile affermare che la lettura (e l’applicazione) dell’art. 12, comma 7, Statuto, offerta da questa giurisprudenza, si pone in violazione con l’obbligo di motivazione, il diritto al contraddittorio, il principio di trasparenza e di democrazia amministrativa.
4- In conclusione, questa sentenza, per un verso, è assolutamente apprezzabile perché torna a ribadire un importante principio di diritto – evidentemente ancora non troppo chiaro ad alcuni Giudici – in tema di prova contraria, per altro verso, invece, non merita egual plauso perché seguita nel confermare un indirizzo interpretativo che lede i diritti del contribuente e, più in generale, mina alcuni dei principi fondamentali del diritto tributario, amministrativo e unionale.
[2] In ispecie, a parere della Commissione regionale, non era possibile tener conto delle svalutazioni con appostazione a conto economico tramite accantonamenti a “fondo svalutazioni partecipazioni immobilizzate” e tanto meno era consentito al contribuente fornire prova della sussistenza di tali svalutazioni per mezzo dei bilanci. Dato il richiamo alle “partecipazioni immobilizzate” si rende necessaria una brevissima precisazione. Come noto, la disciplina fiscale delle attività finanziarie si basa sulla distinzione tra le attività finanziarie immobilizzate (all’interno delle quali vi rientrano anche le partecipazioni in società controllate e collegate) e le attività finanziarie appartenenti all’attivo circolante. Detta classificazione, oltre ad essere fondamentale ai fini delle norme sulla valutazione dei titoli e delle partecipazioni, trova corrispondenza anche in sede civilistica all’art. 2424 c.c. La collocazione in un ambito piuttosto che nell’altro, è a sua volta ispirata a criterio della destinazione 2424-bis c.c., secondo cui “gli elementi patrimoniali destinati ad essere utilizzati durevolmente devono essere iscritti fra le immobilizzazioni“. In questo senso, le partecipazioni, a prescindere dalla natura giuridica dell’impresa sottostante, rientrano tra le immobilizzazioni se destinate ad essere utilizzate durevolmente nell’attività di impresa, ossia se acquistate con finalità economica di durevole investimento in ragione dei programmi strategici dell’impresa, in caso contrario rientrano nell’attivo circolante. Cfr. P.G. Jaeger – F.M. Giuliani, Le partecipazioni in imprese controllate e collegate nel bilancio d’esercizio delle società per azioni (problemi topici), in Giur. comm., 6, 1996, p. 851; L. Quattrocchio, Le partecipazioni nel sistema informativo di bilancio: limiti alla facoltà di scelta dei criteri di valutazione, in Giur. comm., 1, 2004, p. 127. A livello contabile, v. principio OIC 21 che disciplina precipuamente i criteri per la rilevazione, classificazione e valutazione delle partecipazioni, nonché le informazioni da presentare nella nota integrativa.
[3] Prima del D.lgs. n. 147/2015 (c.d. decreto internalizzazione), era consentito al contribuente di dimostrare alternativamente o la sussistenza dell’attività commerciale della società estera o la sussistenza di un concreto interesse a svolgere attività commerciale con una società residente in uno Stato black list. Dal 2015, come precisato dalla Corte, “trova applicazione solo la prima esimente nel caso in cui il contribuente voglia addurre le spese e gli altri componenti negativi derivanti da rapporti intercorsi con soggetti black list per un ammontare superiore al valore normale”.
[4] Cfr. G. Maisto – P. Pistone, Modello europeo per le legislazioni degli Stati membri in materia di imposizione fiscale delle società controllate estere (CFC) (1), in Riv. dir. trib., 11, 2008, p. 191. Il panorama dei contributi sulla disciplina delle CFC è vastissimo, ci si limita a segnalare: D. Stevanato, Controlled Foreign Companies: concetto di controllo e imputazione del reddito, in Riv. dir. trib., 7-8, 2000, p. 777; S. Cipollina, Profili evolutivi della CFC legislativo: concetto di controllo e imputazione del reddito, in Riv. dir. fin. sc. fin., 3, 2015, p. 356; G. Rolle, ATAD e CFC. La necessità di una riforma fra armonizzazione minima e libertà del mercato interno, in il fisco, 32-33, 2018, p. 3150; Id., Adattamento alla disciplina ATAD delle norme interne su CFC, dividendi esteri e plusvalenze su partecipazioni, in il fisco, 38, 2018, p. 3637.
[5] La sentenza della Cassazione fa riferimento a due esimenti e richiama la previgente formulazione della norma, ma in realtà, a seguito dei numerosi interventi normativi operati sulla norma, ne è rimasta solamente una sola, quella richiamata ut supra. Nello specifico la previsione del c.d. radicamento nello stato di insediamento – “[..] la società o altro ente non residente svolga un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello stato o territorio di insediamento” – è stata eliminata ed ora, in suo luogo, si richiede l’attività economica effettiva. Un possibile motivo alla base della modifica deve rinvenirsi nel fatto che la disciplina delle CFC è divenuta applicabile sia alle controllate UE o SEE con scambio di informazioni che alle controllate extra UE o SEE con scambio di informazioni. Per converso, la seconda esimente, ossia quella sulla tassazione congrua – id est, “dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al comma 4” è stata del tutto eliminata. Sulla disciplina delle CFC v. anche le circolari dell’Agenzia delle Entrate n. 51 del 6 ottobre 2010, n. 23 del 26 maggio 2011 e n. 35 del 4 agosto 2016.
[6] Detta condizione deve ricorrere al momento del realizzo ininterrottamente dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo stesso o, se successiva, dalla costituzione della partecipata. Cfr. G. Falsitta, Manuale di Diritto tributario. Parte Speciale. Il sistema delle imposte in Italia, Milano, 2018, p. 438. Così anche le circolari dell’Agenzia delle Entrate n. 36 del 04 agosto 2008, n. 7 del 29 marzo 2013. Più in generale, sul regime PEX si consiglia anche G. Zizzo, Participation exemption e riorganizzazioni societarie, in Il fisco, 2003, p. 4428; F. Pedrotti, La partecipation exemption quale nuovo regime ordinario di circolazione delle partecipazioni societari, in Riv. dir. trib. 1, 2005, p. 1137; A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni, Torino, 2013.
[7] V. sul punto F. Tesauro, Istituzioni di Diritto tributario. Parte generale, Milano, 2019, p. 249.
[8] Così A. Colli Vignarelli, Mancata considerazione delle osservazioni del contribuente e invalidità dell’atto impositivo (art. 12, comma 7, Statuto del contribuente), in Riv. dir. trib. n. 6, 2014, p. 677; Id., Il contraddittorio endoprocedimentale e l’“idea” di una sua “utilità” ai fini dell’invalidità dell’atto impositivo, in Riv. dir. trib., 1, 2017, 2.
[9] Cfr. A. Colli Vignarelli, È irrilevante la mancata considerazione, da parte dell’ufficio, delle osservazioni del contribuente ex art. 12, comma 7, Statuto, in RDT online, 2020.
[10] Così recita: “Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.
[11] Così dispone: “Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.
[12] Si riportano solo i primi due commi: “1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria. 2. La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale. […]”.
[13] V. R. Chieppa – R. Giovagnoli, Manuale di Diritto amministrazione, Milano, 2018, p. 615.
[14] È vastissima la giurisprudenza in tema di obbligo di motivazione. Per tutte v. Cons. St., sez. IV, 10/07/2017, n. 3365; Cons. St., sez. V, 27/08/2014, n. 4366; Cons. St., sez. IV, 09/10/2012, n. 5257; Cons. St., sez. VI, 5/10/2013, n. 5008; Cons. St., sez. VI, 02/03/2010, n. 1215.