lunedì, Dicembre 2, 2024
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Uber: le sfide giuridiche della sharing economy

È frequente, in una società digitalizzata come quella attuale, sentir parlare di sharing economy (come, ad esempio, i servizi di Uber e Airbnb): si tratta di un sistema economico innovativo, basato sulla condivisione di beni e servizi da parte di una community di utenti, i quali operano attraverso delle piattaforme digitali ad hoc. Tuttavia, queste realtà oltrepassano spesso i confini della loro natura prettamente digitale, invadendo spazi di attività regolate da un sistema normativo tradizionale, rendendo così difficile il loro inquadramento giuridico.

Emblematica, al riguardo, è la vicenda giudiziaria che ha coinvolto la sede spagnola della società Uber System, principale portavoce della collaborative economy: si tratta di un’azienda americana, diramata in varie sedi nazionali in tutto il mondo, che offre un trasporto automobilistico attraverso una piattaforma digitale che mette in contatto autisti non professionisti e passeggeri.

Il giudizio era stato introdotto, in sede nazionale, da Elite Taxi, l’associazione professionale dei tassisti di Barcellona, la quale lamentava come la società di car-sharing garantisse il loro stesso servizio di trasporto privato, ma attraverso soggetti, i fornitori del servizio, che non possedevano le licenze necessarie per l’esercizio del trasporto locale, come previsto dal regolamento sui servizi taxi di Barcellona del 2004. Di conseguenza, secondo l’associazione spagnola, la società sarebbe stata colpevole di pratiche ingannevoli e di atti di concorrenza sleale ai sensi della legge spagnola n. 3/1991: in particolare, l’art. 15 considera illegale utilizzare un vantaggio competitivo acquisito tramite una elusione della legge per prevalere sul mercato.

Investito della questione, il Tribunale spagnolo sceglieva di rinviare in via pregiudiziale la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE), chiedendo ai giudici di Lussemburgo di pronunciarsi sulla qualificazione giuridica del servizio Uber, ossia se questo fosse riconducibile alla categoria dei servizi di trasporto – come sostenuto da Elite Taxi – o fosse invece ascrivibile alla nozione di servizio della società di informazione, in quanto i servizi risultano offerti attraverso una piattaforma digitale.

Con pronuncia del 20 dicembre 2017, la Corte UE dichiarava, in prima battuta, la qualificazione di Uber quale  ‘servizio di intermediazione’, ossia di un servizio che si basa essenzialmente sul mettere in contatto, per via elettronica, un conducente non professionista di veicolo con un cliente che, attraverso la prenotazione, intenda effettuare uno spostamento in area urbana.

Contestualmente, tuttavia, la Corte rilevava anche che, in una situazione come quella indicata nel procedimento principale, il servizio di comunicazione tramite la piattaforma offerto da Uber restava subordinato e finalizzato alla realizzazione del trasporto di persone, che costituisce il compito principale dell’attività. Infatti, secondo i giudici comunitari, il servizio di intermediazione svolto da Uber opera in via secondaria e costituisce parte integrante di un servizio complessivo, che “in realtà finisce per soddisfare lo stesso bisogno di mobilità urbana cui è teso il servizio erogato dai tassisti”[1]. Tale qualificazione è avvalorata dalla giurisprudenza della Corte, secondo cui la nozione di “servizio nel settore dei trasporti” ricomprende altresì ogni servizio “intrinsecamente connesso all’atto fisico di trasferimento di persone[…] tramite un mezzo di trasporto”[2].

In conclusione, secondo la CGUE l’attività di intermediazione di Uber resta strettamente legata ad un servizio di trasporto e rientra pertanto nella qualificazione di “servizi nel settore dei trasporti”, previsto dal par. 1 dell’art. 58 TFUE, il quale prevede che “la libera circolazione di tali servizi è regolata dalle disposizioni del titolo relativo ai trasporti“[3].

La sentenza della Corte ha quindi sostanzialmente riconosciuto la legittimità delle pretese dei tassisti catalani, che hanno visto l’ingresso, nel loro mercato, di un competitor che agiva con regole proprie, differenti da quelle ordinarie.

In concreto, la sentenza ha avuto svariati effetti, sia a livello locale che di diritto comunitario.

In primo luogo, dal momento che non sono state adottate norme comuni o altre misure in materia di trasporti in ambito europeo, è compito degli Stati membri disciplinare le condizioni di prestazione dei servizi d’intermediazione come quello di cui al procedimento principale.  Alla luce di ciò, rientrando nella materia dei trasporti, tale servizio deve rispettare il regime di autorizzazioni e/o licenze previsto per i taxi.

Per l’appunto, tale esito è stato solo “l’inizio della fine” del business della società di sharing, da Barcellona fino a tutta la Spagna. In tutto lo Stato le associazioni di tassisti hanno protestato per chiedere controlli più severi sulle modalità di svolgimento di questi servizi. Le pressioni hanno portato persino all’approvazione da parte della Generalitat di un regolamento che pone delle condizioni più restrittive che hanno costretto Uber ad abbandonare la città, reputandole “svantaggiose”.

Uno stop durato che è terminato l’anno scorso, quando il General Manager di Uber Carles Lloret ha annunciato che la società avrebbe ripreso il servizio, stavolta con l’assunzione di autisti professionisti dotati di licenza, al fine di collaborare pacificamente con i tassisti per migliorare la mobilità urbana delle città spagnole.

È poi interessante notare come il fenomeno Uber sia protagonista di un altro caso simile in Italia, ossia quello presentato di fronte al Tribunale di Torino, anche in questa sede accusato da un’associazione di tassisti dell’area urbana di essere sfuggito alla normativa comune dei trasporti e dunque di aver commesso atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 n.3 c.c.[4]. Nel medesimo caso, il giudice italiano ha accertato la sussistenza violazioni della concorrenza sostenendo che Uber, operando tramite l’app denominata Uberpop, non è diverso da un qualsiasi servizio radiotaxi e offre, dunque, una forma collettiva di attività di trasporto abusivo violando norme pubblicistiche per realizzare un profitto. Con tale sentenza si è inibita di conseguenza l’utilizzazione sul territorio nazionale dell’app e la prestazione di un servizio che organizzi, diffonda e promuova da parte di soggetti privi di autorizzazione amministrativa e/o di licenza un trasporto terzi[5].

Dall’esito della sentenza vengono a galla le equivocità della sharing economy: pur rappresentando una visione innovativa ed inclusiva dell’economia, i confini normativi vaghi ed ambigui che regolano il funzionamento, non ne consentono – allo stato – una concreta ed ampia diffusione.

 

[1]L. Belviso, “Il caso Uber negli Stati Uniti e in Europa fra mercato, tecnologia e diritto. Obsolescenza regolatoria e ruolo delle Corti”).

[2]Corte di giustizia UE, sentenza n. 434, 20 dicembre 2017.

[3]Art. 58, par.1, TFUE: “[l]a libera circolazione dei servizi, in materia dei trasporti, è regolata dalle disposizioni del titolo relativo ai trasporti”.

[4]Tribunale di Torino Sez. I, sentenza n. 1553, 22 marzo 2017.

[5]Ibidem.

Jasmina Saric

Jasmina Saric, laureata presso la Facoltà di Scienze Politiche alla LUISS Guido Carli di Roma con tesi in diritto dell'Unione europea, percorso futuro di Laurea magistrale in Relazioni Internazionali, specializzata in Studi Europei. Collaboratrice dell'area di diritto internazionale, con particolare interesse per il settore europeo.

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