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US Immigration & Refugee Policy: il ‘caso Cuba’

E’ del 12 gennaio 2017 il Decreto Presidenziale USA che ha abolito la misura del c.d. “wet foot, dry foot” (letteralmente, “piede bagnato, piede asciutto”), la quale riservava un trattamento preferenziale agli esuli cubani giunti negli States. Con questa manovra politica, adottata in un’ottica di ‘normalizzazione’ dei rapporti tra i due Stati, è stato di fatto sancito il mutamento di status dei Cubani da rifugiati ad immigrati clandestini.

Questa peculiare misura politica era stata adottata dal Congresso degli Stati Uniti d’America nel 1995, quale emendamento del “Cuban Adjustement Act” (CAA) del 1966, il quale venne approvato a ridosso di uno dei momenti di massima tensione tra gli US e l’isola, la cd. crisi dei missili di Cuba del 1961, che viene annoverata tra i momenti più critici della Guerra Fredda tra US ed Unione Sovietica.

Il CAA costituiva, dunque, una eccezione alla legislazione migratoria degli Stati Uniti, programmata ad hoc per i cittadini cubani, i quali venivano qualificati “rifugiati” ed in quanto tali godevano del diritto di asilo e conseguente trattamento preferenziale riguardo la legalizzazione del loro status di residenti, che contrastava (e contrasta) con le restrizioni legali di politica di immigrazione applicate ad ogni altro straniero. Più precisamente, qualsiasi cittadino cubano o nativo di Cuba che fosse entrato negli Stati Uniti, attraverso qualsiasi via o mezzo ed in qualsiasi condizione, dopo il 1 gennaio 1959 (anno di conclusione della Rivoluzione Cubana) e che fosse vissuto negli Stati Uniti per un periodo non inferiore ad un anno, avrebbe ricevuto la condizione di ‘residente permanente’ qualora avesse presentato apposita richiesta.

La ratio era chiaramente quella di canalizzare l’emigrazione da Cuba, e spingere i cubani alla partenza, utilizzando il termine “rifugiato” per mobilitare l’opposizione nella regione nei confronti del governo cubano, essendo fallito il tentativo americano di distruzione della Rivoluzione attraverso la via militare ed altresì attraverso l’embargo economico (cd. ‘el bloqueo’).

Tale politica si è, tuttavia, rivelata nel tempo controproducente, cominciando a dar luogo a vere e proprie emigrazioni di massa (si ricordi il cd. “ponte marittimo Mariel-Cayo Hueso” del 1980, attraverso il quale sbarcarono al sud della Florida, diretti verso gli Stati Uniti oltre 125.000 rifugiati cubani), per arginare le quali il governo americano fu costretto ad un dietro front, conclusosi nel 1995 con l’emanazione della misura del “wet foot, dry foot”. Si tratta di una sorta di interdizione via mare che proibiva di garantire ai “marielitos” lo status di “rifugiati”, prevedendo per converso che anch’essi dovessero essere sottoposti ad un procedimento legale di ammissione come rifugiati e stabilire se dare – o non dare – asilo, come stabilisce il Protocollo per i Rifugiati delle Nazioni Unite.

In altri termini, quando un cubano veniva sorpreso in mare tra i due paesi, veniva considerato avere i “wet feet” (piedi bagnati) e veniva rimpatriato, mentre invece, laddove avesse toccato suolo statunitense, conservava la facoltà di invocare il “dry feet” (piede asciutto) ed ottenere per ciò solo lo status di rifugiato e le conseguenti ‘facilitazioni’ quanto ad ingresso, residenza legale permanente in US ed eventuale cittadinanza.

I cittadini cubani continuavano, pertanto, a conservare un trattamento di favore rispetto a tutti gli altri immigrati dell’America Latina (assoggettati al rilascio dei visti ed in ogni caso legati al ‘sistema delle quote’), scaturente dai complessi rapporti con il governo Cubano; a causa del regime dittatoriale ed il conseguente embargo, i Cubani venivano trattati come dei veri e propri rifugiati (non meramente economici ma politici) ed in quanto tali bypassavano, di fatto, l’immigration policy.

Proprio con riferimento alla politica di immigrazione, occorre effettuare delle precisazioni.

Negli U.S.A., in quanto Stato federale, vige il principio di libera circolazione e soggiorno delle persone da uno Stato membro all’altro; principio che ritroviamo, d’altronde, anche tra quelli cardine dell’UE; se, dunque, le confederazioni sono generalmente caratterizzate dall’assenza, per i cittadini di qualsivoglia stato membro, di frontiere “interne” (o meglio, di controlli alle frontiere interne), diverso è il discorso per ciò che concerne le frontiere “esterne”, le quali vanno necessariamente regolamentate e controllate, al fine di monitorare l’immigrazione proveniente da Paesi Terzi.

Negli States, la Immigration policy (che trova la propria base giuridica nell’ Immigration and Nationality Act –INA- del 1952, e ss. mm e ii) si basa su due meccanismi: 1) il rilascio dei visti d’ingresso e soggiorno, che varia nell’iter e nella durata, a seconda delle esigenze sottese all’ingresso (turistiche, lavorative, mediche, scolastiche ecc..); 2) il rilascio della “Permanent Resident Card”, meglio conosciuta come “Green card”, con la quale viene consentito ad uno straniero, dotato di regolare visto d’ingresso, di risiedere sul suolo degli USA per un periodo di tempo illimitato. Essa viene rilasciata dalla USCIS (US Citizenship and Immigration Services) – agenzia governativa rientrante nel DHS (Department of Homeland Security – Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti d’America) a determinate condizioni ed in tempi che variano a seconda dello “status” dell’immigrato e della nazione di provenienza.

La cittadinanza, invece, può essere ottenuta dopo cinque anni di residenza negli USA in possesso della green card (abbreviati a tre, se si è sposati con un cittadino americano o a quattro se si è entrati per asilo politico).

Il riferimento è agli immigrati c.d. regolari, ossia quelli in possesso di uno dei visti di ingresso, regolarmente rilasciato dalle autorità americane competenti, secondo le apposite procedure previste.

Tuttavia, il procedimento volto alla concessione dei visti ed anche, soprattutto, al rilascio della green card, è lungo e spesso complesso, poiché volto ad arginare i forti flussi migratori, perennemente in aumento.

Differente è invece la situazione per gli immigrati cd. clandestini (o irregolari), provenienti principalmente dagli Stati dell’America Latina (Messico, El Salvador, Guatemala, Honduras, Cuba e Porto Rico), i quali risiedono ‘di fatto’ negli States in assenza di qualsivoglia documento legittimante e, pertanto, in violazione delle leggi di immigrazione.

Sia che essi abbiano fatto ingresso nel territorio statunitense clandestinamente, riuscendo a sfuggire ai controlli di frontiera, sia se entrati legalmente ma rimasti per un tempo superiore a quello massimo previsto e divenuti, dunque, irregolari (cd. overstaying), laddove non riescano a sanare, legalizzandola, la propria posizione sul territorio, essi devono essere necessariamente espulsi e rimpatriati.

Meno rigida e più rapida si presenta invece la Refugee policy, poiché sottende una ratio differente ed evidente, quella di offrire tutela immediata, e dunque il diritto di asilo politico, a tutti coloro i quali si qualifichino come rifugiati ai sensi dell’Immigration Nationality Act (INA), vertendo in situazioni di pericolo imminente.

Ai sensi della section 101 (a)(42) INA, infatti, si considera rifugiato colui il quale non è in grado o non vuole tornare al proprio paese di origine a causa di un “fondato timore di persecuzione” per motivi di razza, appartenenza ad un determinato gruppo sociale, opinioni politiche, religiose o di origine nazionale.

Lo status di rifugiato può ricomprendere sia coloro che rientrano nella predetta definizione INA e che sono già all’interno degli States (prescindendo dalla modalità del loro ingresso, se legale o illegale), sia quelli in cerca di ammissione al porto di entrata.

Non si ritrova nell’INA una definizione specifica per il termine “persecuzione”, ma è opinione giurisprudenziale condivisa quella per la quale una “minaccia per la vita o per la libertà” sulla base di razza, religione, nazionalità, appartenenza politica, o l’appartenenza ad un particolare gruppo, posta in essere dal governo nativo o da singoli gruppi politici che il governo non ha la capacità di controllare è “sempre persecuzione“.

Spetta ai singoli che intendano invocare lo status di “refugee” dimostrarne i presupposti, ossia il fondato timore di persecuzione, anche testimoniando attraverso giuramento la veridicità della loro domanda ed allegando, laddove possibile, prove documentali a sostegno.

Sia che il richiedente si trovi già negli Stati Uniti e non sia in via di rimozione o di deportazione, sia se si trovi al di fuori degli States, il processo attraverso il quale si può richiedere diritto di asilo politico, sebbene presenti alcune differenze, è relativamente veloce in ambo i casi, data la situazione di pericolo sottesa alla richiesta e, di conseguenza, la materiale urgenza nel provvedere.

Si può infine fare domanda di asilo politico anche se si è sottoposti al processo di espulsione, che è ciò che in pratica accade alla stragrande maggioranza di coloro che tentano di entrare negli States illegalmente dal confine Messico – USA e vengono intercettati dalla Customs and Border Protection (cioè la polizia d’immigrazione). Essi, cioè, dichiarano di essere rifugiati politici, e provano a dimostrare il “ragionevole timore” di persecuzione in caso di rimpatrio. Solo nell’ipotesi di dimostrazione positiva, avranno diritto ad una udienza dinanzi il Giudice d’immigrazione, che deciderà in merito alla concessione o meno del diritto di asilo politico.

Ottenuto il diritto di asilo, ciascun rifugiato può chiedere, dopo un anno dal ricovero, la LPR (Legal Permanent Resident) e, dopo cinque anni dall’ottenimento della residenza, può anche chiedere la naturalizzazione.

Per tornare al caso in esame, con l’abolizione della misura in oggetto, i cittadini cubani sono adesso trattati al pari di tutti gli altri immigrati: qualora tenteranno di entrare negli Stati Uniti illegalmente, a meno che non rientrino nella fattispecie del trattamento di natura umanitaria, verranno espulsi, così come previsto per gli immigrati di altre nazionalità. Il governo de La Habana, da parte sua, ha concordato il rimpatrio dei cubani soggetti ad espulsione dagli USA, come già accadeva per coloro che venivano respinti via mare.

Il messaggio che si è voluto in tal modo trasmettere, in un’ottica di miglioramento dei rapporti con Cuba, è che non c’è più bisogno di fuggire dall’isola perché a Cuba ci sono già o, comunque, ci saranno tempi migliori.

Anche l’Europa, infatti, auspica una implementazione dei rapporti con l’isola da sempre emarginata, avendolo dimostrato con la sottoscrizione, già nel marzo 2016 all’Avana, dell’accordo UE-Cuba, volto a normalizzare i rapporti tra le due.

Da altra prospettiva, questa consacrazione del passaggio di status da rifugiati ad immigrati (clandestini) in capo ai cittadini Cubani avviene in un momento storico molto particolare, per certi versi ad essi sfavorevole, data la rigida sferzata alla politica sull’immigrazione attuata dal neo-eletto presidente americano Donald Trump con decreto del 26 gennaio 2017.

Avv. Sara Di Donato

Laureata in giurisprudenza con lode alla Federico II di Napoli nell’anno 2012, con tesi in diritto civile dal titolo “I rapporti contrattuali di fatto”. La formazione post- laurea si è incentrata, sin da subito, sul diritto societario e fallimentare, motivo per il quale ha svolto la pratica forense presso un rinomato studio legale di settore del napoletano e, contemporaneamente, un tirocinio formativo presso il Tribunale di Napoli, alla sezione fallimentare. Ha altresì effettuato un Master part-time in diritto societario presso la Business School “Il sole 24 Ore” in Milano. Ottenuta l’abilitazione di avvocato, ha vissuto a Londra per perfezionare la fluency della lingua inglese ed in UK ha ampliato la propria competenza teorico-pratica nel settore del diritto internazionale, attraverso un Internship in materia di ‘International Shipping Law’. Attualmente prosegue la sua esperienza lavorativa in Italia, a Napoli, dedicandosi prevalentemente al diritto societario, sia in una dimensione nazionale che internazionale.

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