domenica, Dicembre 1, 2024
Criminal & Compliance

L’agente provocatore: cosa sancisce la Corte di Strasburgo e come si muove la giurisprudenza italiana sul tema

L’agente provocatore rappresenta il soggetto che determina o istiga altri alla commissione di un determinato reato, perché vuole che l’autore sia colto sul fatto e pertanto, punito.

Si tratta di una figura attorno alla quale si è ampliamente discusso (della sua trattazione si consiglia la lettura dell’articolo ad essa dedicato[1]), in particolar modo sulla sua liceità e sulla sua possibile introduzione nella nostra legislazione. A causa, però, della molteplicità degli interventi normativi in materia e delle prassi dottrinarie spesso antitetiche, la figura appare oggi generica e dai contorni piuttosto evanescenti. La legge 146/2006, poi novellata dalla l. 136/2010 ha tentato di unificare la disciplina dell’agente provocatore, eliminando leggi speciali , con la previsione di un programma di “operazioni sotto copertura”.  La disposizione ammette l’impiego di tecniche speciali di investigazione, dalla cui base è importante partire per delineare le funzioni dell’agente atto all’istigazione.

 La nozione di agente provocatore comprende, oltre alla figura tradizionalmente intesa, anche quella dell’ ’infiltrato, del falsus emptor, dell’agente sotto copertura.  La figura tradizionale si caratterizza per il fatto di apportare un contributo di tipo morale, dato che l’agente istiga a realizzare un reato, anche al solo fine di raccogliere prove di reità a carico del provocato. Pertanto, l’attività dell’agente si sostanzia prettamente in una istigazione o in una determinazione. Viceversa, le figure dell’infiltrato e del falsus emptor forniscono contributi sia di tipo morale che materiale alla commissione del reato e concernono l’ambito delle fattispecie plurisoggettive necessarie: l’infiltrato si insinua all’interno di compagini associative criminali al fine di carpire informazioni sui membri,sulla struttura e sulle finalità perseguite dall’associazione; il secondo, invece, si finge parte in determinati reati contratto (ad esempio, falso corruttore, falso acquirente di sostanze stupefacenti).

Il dato da approfondire riguarda il profilo del concorso dell’agente provocatore con l’autore del reato e la sua responsabilità.  Il problema investe l’agente provocatore tradizionale, mentre per l’infiltrato e l’agente sotto copertura tale possibilità è scongiurata grazie all’ intervento del Legislatore che ha positivizzato tali figure, indicando l’esenzione e i limiti della loro responsabilità.  La partecipazione dell’infiltrato e del falsus emptor è disciplinata in modo tale che questa possa svolgersi in totale rispetto del principio di legalità, prevedendo che l’attività stessa sia sottoposta al costante controllo della Pubblica Sicurezza ed esercitata entro determinati limiti: l’agente dovrà dare prova di non aver arrecato alcun contributo rilevante alla commissione del reato. In caso contrario, l’attività sotto copertura dovrà dirsi eccedente la previsione legislativa e pertanto passibile di sanzioni penali.

Sulla tematica della responsabilità dell’agente provocatore tradizionale si sono delineate diverse posizioni: da un lato, si è escluso ogni tipo di coinvolgimento dell’agente nella commissione del reato, avendo egli agito con l’intento di impedire che il reato istigato si consumi, il che varrebbe a svuotare di fatto la rilevanza penale dell’attività di istigazione. Sotto questo profilo, l’agente non vuole che il reato si consumi ma che il provocato ponga in essere un tentativo punibile, al fine di acquisire prove di reità a suo carico.  Ne conseguirebbe la configurabilità di un “tentativo di concorso”, non punibile nel nostro ordinamento. Nell’ottica di proteggere l’agente provocatore da qualsiasi imputazione, si muove anche la tesi che richiama alla scriminate dell’adempimento del potere, prevista dall’articolo 51 c.p. La giurisprudenza, peraltro, facendo leva sul combinato disposto degli artt. 51 e 55 c.p.(relativo all’obbligo della polizia giudiziaria di ricercare le prove dei reati e assicurare i colpevoli alla giustizia) ha appoggiato tale orientamento.  Altra tesi, sul versante opposto, eccepisce la punibilità dell’agente,  partendo innanzitutto da una contraddizione: l’agente provoca il soggetto a compiere un reato, ma non vuole che esso sia compiuto. Di conseguenza, se l’istigazione ha esito positivo (cioè raggiunge il risultato cui mirava) l’attività dell’agente provocatore assume il valore di contributo eziologico necessario al verificarsi dell’evento criminoso.  L’agente, nonostante agisca in totale assenza di dolo, ha spinto di fatto un soggetto a compiere un fatto costituente reato, che in precedenza non era neanche nella mente del provocato. In base a tale orientamento, dunque, se il fatto incriminato si verifica, l’agente risponderà della sua condotta.

La giurisprudenza è molto chiara sulle attività sotto copertura: per essere lecite, queste devono consistere in attività di osservazione, controllo e contenimento delle azioni illecite altrui. Per contro, l’agente sarà punibile se l’evento sia conseguenza, diretta o indiretta, della sua condotta.

E’ interessante richiamare la sentenza della Corte di Cassazione resa sul caso Leka (dep. 10 gennaio 2013) relativa ad operazioni antidroga condotte da agenti di polizia, con la quale la Corte dichiara che le operazioni sotto copertura consistenti nell’incitamento o nell’induzione alla commissione di un reato da parte del soggetto indagato, determinano la responsabilità penale dell’agente, e di conseguenza le prove acquisite non sono utilizzabili. La Corte, in tale sentenza, conferma in sostanza l’orientamento già consolidato dalla giurisprudenza, ed afferma “la commissione del reato dipende dalla libera scelta del reo” e non è influenzata in maniera sostanziale dall’azione degli agenti di polizia[2].

E’importante per la nostra disamina, percorrere l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo sulla liceità del ricorso ad un agente provocatore da parte di un ordinamento nazionale e del rispetto del “giusto processo”previsto dall’art. 6 CEDU. Numerose sono le pronunce della Corte in materia, che hanno accertato la violazione del principio del fair trial, qualora l’attività dell’agente si configuri quale quella del agent provocateur anziché dell’ undercover agent (infiltrato), il cui intervento è invece ammesso.  Costituisce un leading case la sentenza emessa nel 1998 nel caso Teixeira de Castro c. Portogallo: un soggetto non indagato, né con precedenti penali fu istigato a comperare una certa quantità di eroina ed una volta fornita (dopo essersela procurata da un conoscente) fu arrestato. In questa pronuncia, la Corte afferma l’inesistenza di prove capaci di dimostrare che il soggetto fosse predisposto a commettere un reato, e che l’attività di investigazione non fosse stata esercitata in maniera passiva ma anzi, in modo tale da influenzare l’indagato al punto da indurlo a commettere il fatto . La violazione dell’art. 6 della Convenzione risultava dal fatto che la condanna dell’imputato si basasse in misura determinante sulle dichiarazioni degli agenti di polizia, quando nulla indicava che, in mancanza del loro apporto, l’attività delittuosa si sarebbe lo stesso realizzata[3].  Ancora, è nella sentenza del 21 marzo 2002 ( Calabrò c. Italia e Germania), che la Corte Europea ammette l’attività di un agente infiltrato in un procedimento d’indagine preliminare, ma sulla sola base dell’esistenza di sospetti a carico di una o più persone. Solo in tale caso, ravvisa la Corte, è possibile il suo intervento ma lo stesso non deve spingersi fino a provocare condotte criminose che altrimenti non si sarebbero verificate. Entrambe le pronunce, in sostanza, confermano una posizione, peraltro richiamata nella sentenza del 2008 (Ramanauskas contro Lithuania, 2008) con cui la stessa Corte ha condannato la Lituania al risarcimento danni al ricorrente, affermando che “un conto sono le operazioni sotto copertura, altro è provocare il reato da parte di chi non aveva un proposito criminoso”[4]. Insomma, a parere della Corte l’attività dell’agente provocatore finirebbe per  creare un reato altrimenti inesistente, a differenza dell’agente sotto copertura che interviene quando l’intenzione criminosa già esiste ed è in corso.

Di recente si è discusso circa l’introduzione della figura dell’agente provocatore nel nostro ordinamento giuridico. L’argomento è stato, infatti, oggetto di vivi dibattiti politici e inserito tra i  vari punti dei programmi elettorali.

Ad accendere l’opinione pubblica sul tema è stata l’inchiesta fanpage, denominata “Bloody Money” sul sistema illecito di smaltimento dei rifiuti. L’inchiesta giornalistica in Campania, che con successo ha smascherato politici ed esponenti dell’imprenditoria, ha creato un vero e proprio terremoto giudiziario: il materiale raccolto è stato trasmesso alla Procura di Napoli, ma il direttore di Fanpage e il video reporter sarebbero indagati per istigazione alla corruzione. Nell’inchiesta, l’agente provocatore è personificato da un ex criminale collaboratore di giustizia, e con la sua partecipazione, sarebbero emersi i fatti denunciati. Il conflitto c’è ed è palese: l’Italia non ammette la figura dell’agente provocatore, ed anzi ne incrimina il contributo, ma non si è indifferenti al risultato cui apporta.

L’introduzione dell’agente provocatore nel nostro ordinamento potrebbe realmente costituire efficace strumento nella lotta alla corruzione?  L’ interrogativo è questo ma le posizioni sono contrapposte. Da un lato c’è chi legittima l’impiego di tale pratica investigativa come mezzo per  favorire l’emersione del fenomeno corruttivo, seppur in modo duro ed estremo. Allo stesso modo,però è d’obbligo attenersi al rispetto delle regole processuali e legali, dei principi di democrazia, di giusto processo e difesa, pilastri su cui poggia l’ordinamento giuridico italiano. Tale ultima posizione, peraltro, avalla l’orientamento più volte sancito nelle pronunce della Corte Europea.

La legge non ammette che si creino situazioni di illegalità, è questo è un dato di fatto. La persona istigata si trova davanti a una semplice scelta: cedere o non cedere, tentare o non tentare, commettere o non commettere l’illecito. La trasparenza però, come l’onestà, dovrebbe guidare l’attività sociale e politica, ed un problema di scelte di questo tipo, forse non dovrebbe porsi.

[1]  http://www.iusinitinere.it/la-figura-dellagente-provocatore-7746

[2]Cass. Pen. Sez. III, sentenza n. 1258, 10 gennaio 2013 .

[3] Corte Europea dei diritti dell’uomo, case Of Teixeira De Castro V. Portugal (44/1997/828/1034), 9 giugno 1998. http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/03/CEDU-Teixeira-de-Castro-c-Portugal.pdf.

[4] Corte Europea dei diritti dell’uomo, case Of Ramanauskas V. Lithuania (74420/01), 5 Febbraio 2008. .

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