venerdì, Luglio 26, 2024
Finance Destination

Conflitti di Interesse e Incentivi

dalla rubrica Finance Destination 

a cura di Federica Mandelli e Alessandra Cacopardo.

Tra i temi più vivacemente dibattuti in materia di intermediazione finanziaria, va certamente annoverato quello relativo al pagamento e alla ricezione degli incentivi, c.d. Inducements o retrocessioni commissionali.

La tematica rientra nel più vasto ambito dei conflitti di interesse riferibili all’operatività degli intermediari, ed ha formato oggetto dell’attenzione del legislatore comunitario che, a più riprese, è intervenuto per dettare una disciplina uniforme a livello europeo, da ultimo proprio nell’ambito della proposta di direttiva omnibus “Retail Investment Strategy” (RIS).[1].

Sotto il profilo dei conflitti di interesse, è bene ricordare che l’attività di intermediazione tra investitori ed emittenti, svolta dalle imprese di investimento, fa sì che queste ultime, nel ruolo di “gestori del risparmio altrui”, siano tenute a perseguire al meglio l’interesse della clientela che affida loro i propri risparmi per una migliore allocazione degli stessi.

Per tali ragioni, le imprese di investimento sono assoggettate ad una normativa piuttosto articolata in materia di conflitti di interesse, in aggiunta alle regole di buona condotta generalmente applicabili a tutti i rapporti contrattuali.

Il legislatore europeo – ma ancor prima il legislatore nazionale – partendo dall’assunto che la sempre più ampia gamma di attività svolte simultaneamente dalle imprese di investimento abbia aumentato le possibilità di insorgenza di conflitti di interesse, non ha imposto una regola generale di astensione in capo agli operatori, adottando invece una diversa strategia regolatoria prevalentemente fondata sulla definizione di requisiti organizzativi e di autoregolamentazione in capo agli intermediari finanziari.

Gli intermediari sono dunque tenuti a svolgere un esercizio di identificazione dei conflitti e, ove occorra, di gestione degli stessi qualora le misure adottate si rivelino insufficienti ad evitare un pregiudizio per la clientela; in tali casi, gli intermediari sono inoltre tenuti ad obblighi di disclosure dei conflitti nei confronti dei propri clienti.

Come detto in apertura, una delle declinazioni più interessanti e dibattute in relazione al tema dei conflitti di interesse è proprio quella dell’applicazione degli incentivi ai servizi di investimento, in quanto potenzialmente in grado di produrre, ove non regolamentata, un effetto distorsivo nella prestazione dei servizi di investimento, in particolare con riferimento alla consulenza in materia di investimenti e al servizio di collocamento.

Ma cosa sono gli incentivi?

Quando si parla di “inducement”, nel settore dell’intermediazione finanziaria, ci si riferisce a qualsivoglia “onorario, compenso, commissione o beneficio non monetario” che gli intermediari percepiscono da, o pagano a, terzi in relazione alla prestazione di un servizio di investimento o accessorio.

È abbastanza intuitivo cosa debba intendersi per “onorari”, “compensi” o “commissioni”, lo è meno comprendere cosa siano i “benefici non monetari”; con tale ultima espressione, deve farsi essenzialmente riferimento ad attività di marketing quali, a titolo meramente esemplificativo, eventi di carattere info- formativo, brochure commerciali, newsletter e supporti informatici.

Fatta questa breve premessa “tassonomica”, il punto centrale della tematica risiede nel fatto che tali costi/benefici non monetari non vengono pagati direttamente dal cliente che beneficia del servizio di investimento.

Per fare un esempio pratico, si pensi al servizio di consulenza in materia di investimenti su base “non indipendente”,ove l’intermediario/consulente – a fronte della raccomandazione prestata al cliente di sottoscrivere un determinato fondo comune – riceva dalla società di gestione produttrice una quota parte delle commissioni di sottoscrizione e/o di gestione applicate dal fondo stesso.

Il pagamento di tale incentivo genera un conflitto di interesse in grado di produrre un potenziale effetto distorsivo del comportamento dell’intermediario/consulente il quale potrebbe favorire raccomandazioni di investimento che, sebbene personalizzate sul profilo finanziario del cliente, appaiono in grado di generare un maggiore ritorno economico per la sua attività consulenziale, generando potenziali situazioni di misselling.

Per tali ragioni, dunque, la disciplina vigente prevede che l’incentivo possa essere percepito/pagato solo ove lo stesso risulti in grado di innalzare la qualità del servizio offerto dall’intermediario/consulente al cliente.

Quello appena citato costituisce il c.d. “quality enhancement test”, uno dei punti centrali della disciplina in materia di incentivi, ossia il processo di identificazione delle condizioni da soddisfare per poter legittimare il pagamento e la percezione degli inducement.

Il legislatore comunitario, a partire dalla Direttiva MiFID I (Direttiva 2004/39/CE), ha provato a circostanziare tali condizioni in maniera sempre più dettagliata e prescrittiva.

Cosa debba intendersi per “test di innalzamento della qualità” lo spiega bene la Direttiva Delegata (UE) 2017/593 che all’art. 11 [2]precisa che, per poter considerare gli incentivi come “concepiti per migliorare la qualità del servizio prestato al cliente”, gli stessi (i) devono essere giustificati dalla prestazione di un servizio aggiuntivo o di livello superiore per il cliente, proporzionale agli incentivi ricevuti, (ii) non devono offrire vantaggi diretti all’intermediario che li riceve, ai suoi azionisti o dipendenti, senza un beneficio tangibile per il cliente, e (iii) devono essere giustificati dalla garanzia di un beneficio continuativo per il cliente.

Le condizioni sub ii) e iii) sono teoriche e la loro applicazione pratica è risultata scarsamente incisiva; la condizione sub i), invece, viene corredata dalla stessa norma da esempi pratici che, sebbene a livello puramente esemplificativo, aiutano l’interprete nel suo complesso compito di attuazione della normativa, suggerendo delle soluzioni su cosa debba intendersi per “servizio aggiuntivo o di livello superiore”.

Alcuni servizi aggiuntivi o di livello superiore sono, ad esempio: l’accesso – ad un prezzo competitivo – a una vasta gamma di strumenti finanziari adeguati che includa un numero appropriato di strumenti di altre imprese di investimento, la possibilità di ricevere una valutazione periodica di adeguatezza o, ancora, una consulenza generica sull’asset allocation, la fornitura di strumenti a valore aggiunto, tra cui informative in grado di assistere il cliente nell’adozione delle proprie decisioni di investimento o che gli consentano di monitorare e modellare la gamma di strumenti finanziari in cui ha investito e, infine, la fornitura di rendiconti periodici sulla performance, e su costi e oneri connessi agli strumenti finanziari.

Ampiezza, diversificazione e competitività in termini di prezzo del catalogo prodotti, monitoraggio costante del portafoglio del cliente, fornitura di consulenza generica sull’allocazione di portafoglio, strumenti informativi e reportistica, sono valutati, quindi, come elementi idonei ad innalzare la qualità del servizio offerto al cliente e, in quanto tali, ove presenti, rendono legittimi la percezione e il pagamento di incentivi.

La citata Direttiva Delegata ha inoltre introdotto ulteriori requisiti organizzativi, imponendo agli intermediari l’obbligo di tenere un registro ove annotare tutti gli incentivi, pagati e ricevuti, e indicazioni utili a ricostruire in che termini gli stessi siano in grado di migliorare la qualità dei servizi prestati. Sono inoltre previsti specifici obblighi di trasparenza, ex anteed ex post, nei confronti dei clienti affinché questi ultimi siano in grado di ben comprendere la natura e l’ammontare degli incentivi o, in alternativa, il metodo di calcolo utilizzato.

Applicare correttamente questa disciplina, nell’assenza di vincolanti standard comuni a tutto il settore, è risultato un esercizio piuttosto complesso anche, ma non solo, in relazione alla necessità di esemplificare e rendicontare al cliente informazioni elaborate da molteplici fonti con approcci metodologici non uniformi.

Cionondimeno, ad oltre sette anni dall’entrata in vigore della direttiva MIFID II, nel settore si sono sviluppate prassi che hanno spinto gli intermediari ad adottare i presidi richiesti nell’ambito della propria organizzazione ed operatività in maniera sempre più sofisticata.

Con riferimento alla clientela, è invece legittimo il dubbio che gli sforzi implementativi realizzati negli anni dagli intermediari abbiano effettivamente condotto ad una migliore comprensione della tematica in discorso, e tale dubbio ha in effetti trovato debito riscontro negli esiti dello Studio Kantar di cui si dirà appresso.

Come sopra anticipato, il tema degli incentivi è uno di quelli interessati dal processo di revisione della Direttiva MiFID II. La Commissione Europea ha infatti ricevuto l’incarico di predisporre, entro il 3 marzo 2020, una relazione per valutare l’impatto degli obblighi di comunicazione degli incentivi e, più in generale, l’impatto degli incentivi sul funzionamento del mercato della consulenza in materia di investimenti.

Il 17 luglio 2019 l’ESMA (l’organismo che raccoglie tutti i rappresentanti delle “Consob europee”), su mandato della Commissione Europea, ha pubblicato la “Call for evidence on Impact of the inducements and costs and charges disclosure requirements under MiFID II”, un documento di consultazione finalizzato a raccogliere le osservazioni degli operatori e dalle associazioni di categoria, per fare emergere evidenze utili sul tema ai fini dell’elaborazione di un parere tecnico da consegnare al Parlamento e al Consiglio UE, nell’ambito del processo di revisione della MiFID II.

La Call for evidence dell’ESMA ha posto il tema della potenziale introduzione di un divieto totale in materia di incentivi («total ban») applicabile, dunque, non solo ai servizi di gestione di portafogli e consulenza su base indipendente (come già previsto dalla MiFID II), ma in relazione a tutti i servizi di investimento, seguendo il modello già adottato da Regno Unito e Paesi Bassi.

  • Il 31 marzo 2020, alla luce delle risposte pervenute, l’ESMA ha pubblicato il proprio Final Report suggerendo alla Commissione Europea di non bandire tout court gli incentivi, ma di effettuare una valutazione di impatto al fine di comprendere le possibili conseguenze di una simile decisione sui diversi modelli di distribuzione esistenti nell’UE, e suggerendo di migliorare nel frattempo la comprensibilità e la chiarezza delle informazioni fornite ai clienti sugli incentivi ricevuti/pagati.

Un altro studio in materia, quello affidato dalla stessa Commissione Europea alla società di consulenza Kantar, ha messo in luce altri aspetti rilevanti in materia di incentivi di cui probabilmente la Commissione Europea ha tenuto conto nell’ambito delle proposte di revisione formulate dalla Retail Investment Strategy in materia.

Dallo studio citato, sono emersi alcuni aspetti interessanti quali, in particolare, (i) la scarsa rilevanza della trasparenza degli incentivi, e dei relativi disclaimer, sulle scelte d’investimento dei consumatori e sulla valutazione della consulenza ricevuta, (ii) l’esistenza di accordi sugli incentivi tra produttori e distributori “generici” per tutti i canali di distribuzione e non specifici per target, che non incentiverebbero una buona consulenza e, soprattutto, (iii) il valore significativo degli incentivi in termini economici, nonostante la MiFID II ne riconosca la legittimità solo in taluni casi.

È emerso, quindi, che gli investitori al dettaglio si preoccupano dei costi complessivi del prodotto ma non si interessano degli incentivi (forse non comprendendone appieno il meccanismo) e soprattutto di come questi siano suddivisi tra produttore e distributore.

La Commissione Europea, nell’ambito delle recenti proposte di revisione formulate nella RIS, ha valutato la possibilità di introdurre un divieto totale degli incentivi, arrivando tuttavia alla conclusione che – come suggerito dall’ESMA – un divieto assoluto avrebbe un impatto dirompente, ritenendo dunque opportuno adottare un approccio più graduale, spingendo gli operatori a porre ancora di più al centro della propria offerta il servizio di consulenza al fine di consentire agli investitori una partecipazione più consapevole ai mercati finanziari.

La proposta della RIS prevede quindi il divieto degli incentivi solamente con riferimento al servizio di ricezione e trasmissione ordini o di esecuzione di ordini per conto dei clienti, nonché al collocamento di prodotti c.d. PRIIPs, e alla distribuzione di prodotti c.d. IBIPs, ove gli stessi non siano accompagnati dal servizio di consulenza, che come sopra detto si riafferma quale elemento legittimante ai fini del pagamento/percezione di incentivi, in un’ottica di tutela del migliore interesse degli investitori.

La Commissione propone dunque la sostituzione del “test di innalzamento della qualità” del servizio offerto con il perseguimento del c.d. best interest del cliente, ossia con la prescrizione che i servizi esecutivi siano abbinati ad una consulenza di maggior valore per il cliente al dettaglio.

Le imprese di investimento che prestano il servizio di consulenza saranno, pertanto, tenute a:

(i) fornire la consulenza su una gamma adeguata di strumenti finanziari;

(ii) raccomandare gli strumenti finanziari più efficienti in termini di costi, tra quelli ritenuti adeguati al cliente, che presentano caratteristiche simili;

(iii) raccomandare, tra la gamma di strumenti finanziari ritenuti adeguati al cliente, uno o più prodotti privi delle caratteristiche supplementari che non sono funzionali al conseguimento degli obiettivi di investimento del cliente e che comportano costi aggiuntivi.

Nel leggere l’elencazione da ultimo proposta si ha la sensazione che parte delle nuove misure siano già oggi presenti con, tuttavia, talune differenze che, fermo il tema dell’adeguatezza, si concentrano sulla questione del livello ottimale dei costi degli strumenti finanziari raccomandati, obiettivo che dovrebbe rappresentare una priorità per il consulente.

Questa impostazione, se confermata ad esito del trilogo attualmente in corso tra Commissione Europea, Consiglio e Parlamento, indurrà le imprese di investimento a rivedere, ancora una volta, parte dei propri processi di adeguatezza e di selezione degli strumenti da raccomandare alla clientela finale.

Come per le altre tematiche trattate nell’ambito della RIS si dovranno attendere le decisioni definitive dei legislatori europei le cui tempistiche sono, allo stato, condizionate anche dalle imminenti elezioni del prossimo giugno.

[1] Proposta di direttiva che si inserisce nell’ambito del Piano d’Azione per i mercati dei capitali del settembre 2020 e di pubblicazione di una strategia per gli investimenti retail in Europa, finalizzata ad aumentare il livello di partecipazione degli investitori al dettaglio ai mercati dei capitali UE, considerato ancora molto basso rispetto ad altre economie avanzate.

[2] recepito in Italia dall’art. 53 del Regolamento Intermediari (adottato con delibera n. 20307 del 15 febbraio 2018).

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