lunedì, Aprile 29, 2024
Criminal & Compliance

I requisiti dell’atto di appello e la responsabilizzazione dei protagonisti del processo operata dalla Riforma Cartabia

A cura di Chiara Squizzato

  1. Premessa 

A fronte della constatazione che le ragioni della crisi di autorevolezza ed efficacia della giurisdizione penale sono da rinvenire, in particolare, nella lentezza dei procedimenti, la Riforma Cartabia è intervenuta con la dichiarata finalità di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale.

A tal fine gli estensori della riforma hanno valorizzato il principio della ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, co. 2 Cost., dall’art. 6, pg. 1 Cedu e dall’art. 47, pg. 2 Carta di Nizza, attraverso l’idea dei tempi massimi di durata delle fasi processuali.

Si è intervenuti, così, in una delle fasi del procedimento penale dove si registrano i maggiori ritardi, quella delle indagini preliminari e, seguendo la medesima direttrice, il D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 ha previsto una disciplina di durata massima per le fasi impugnatorie, la cui violazione comporta l’improcedibilità dell’azione penale.

Con lo stesso obiettivo, il Legislatore ha inciso su vari aspetti della disciplina dell’appello, in una evidente ottica di deflazione del processo penale di appello e di riduzione del relativo carico di lavoro: si assiste, dunque, ad un’estensione del novero di provvedimenti inappellabili e ad un ampliamento delle cause di inammissibilità dell’impugnazione di cui si tratta.

  1. I provvedimenti inappellabili

Merita, in primo luogo, attenzione la scelta del riformatore di ampliare il novero delle sentenze inappellabili. A tal proposito, va ricordato che, nel nostro ordinamento, in via generale, sia il Pubblico Ministero che l’imputato possono appellare ogni provvedimento, salvo alcune limitazioni.

Analizzando maggiormente nello specifico la tematica, con riguardo alle sentenze di condanna, l’art. 593, co. 1 c.p.p. sancisce che: «salvo quanto previsto dagli articoli 443, comma 3, 448, comma 2, 579 e 680, l’imputato può appellare contro le sentenze di condanna mentre il Pubblico Ministero può appellare contro le medesime sentenze solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato».

Sul punto, il D. Lgs. 150/2022 ha provveduto a modificare il comma 3 del medesimo articolo 593 c.p.p., prevedendo l’inappellabilità delle sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda ovvero la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. È stato individuato, dunque, quale ulteriore provvedimento oggettivamente inappellabile, la sentenza di condanna al lavoro di pubblica utilità sostitutivo di cui all’art. 56 bis L. 24 novembre, n. 689.

Tale scelta del Legislatore è strettamente connessa al fatto che la sostituzione della pena detentiva, quando possibile, presuppone la richiesta, il consenso o, quantomeno, la mancata opposizione dell’imputato, quindi escludere la possibilità di proporre appello avverso tale provvedimento non è considerato lesivo del diritto di difesa, sancito dalla nostra Carta Costituzionale. Peraltro, va sottolineato che il lavoro sostitutivo di pubblica utilità può essere applicato in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a tre anni, dunque la modifica assume un significativo effetto deflattivo[1].

Per quanto attiene alle sentenze di proscioglimento, l’art. 593, co. 2 c.p.p. prevede che avverso le stesse possa essere proposto appello dal Pubblico Ministero[2] e dall’imputato, con la limitazione, per quest’ultimo, rappresentata dalle sentenze di assoluzione pronunciate perché il fatto non sussiste ovvero perché l’imputato non lo ha commesso[3].

Nello specifico, la Riforma Cartabia ha sancito l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa e, parimenti, ha introdotto, all’art. 428, co. 3 quaterc.p.p., la medesima previsione con riguardo alle sentenze di non luogo a procedere, mentre la disciplina previgente ne limitava l’appello qualora si trattasse di mere contravvenzioni e la pena fosse l’ammenda, anziché la pena pecuniaria. Dunque, si evidenzia un notevole ampliamento delle ipotesi di sentenze avverso le quali l’ordinamento non consente la proposizione dell’appello.

Per quanto attiene ai problemi di diritto intertemporale, va segnalato che la L. 30 dicembre 2022, n. 199, di conversione del D. L. 31 ottobre 2022, n. 162, ha provveduto all’inserimento dell’art. 88 ter nel D. Lgs. 150/2022, in virtù del quale la nuova disciplina, in punto di inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, trova applicazione alle sentenze emesse dopo l’entrata in vigore del decreto medesimo.

Si tratta, tuttavia, di una previsione meramente parziale, nella parte in cui nulla dispone circa le altre modifiche di cui si è detto, e superflua, dal momento che quanto stabilito vale anche per le altre sentenze dalla Riforma qualificate come oggettivamente inappellabili, sulla base dell’orientamento, ormai granitico, della giurisprudenza di legittimità, secondo cui: «ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorché si succedono nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, l’applicazione del principio tempus regit actum impone di fare riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione»[4].

Così chiarito il nuovo regime in punto di appellabilità delle sentenze, si tratta di procedere all’esame delle cause di inammissibilità dell’appello, trattandosi di disciplina in ordine alla quale la Riforma Cartabia ha inciso in maniera assai rilevante, nell’ottica di responsabilizzare i protagonisti del processo e di rendere effettiva la partecipazione al processo dell’imputato.

  1. Le cause di inammissibilità dell’appello

Come sopra accennato, il D. Lgs. 150/2022 ha ampliato notevolmente le cause di inammissibilità dell’atto di appello, attraverso l’introduzione, in una sede materiae non pienamente adeguata[5], di tre nuovi commi all’art. 581 c.p.p. con cui si prevede che, ex art. 591, co. 1, lett. c) c.p.p., l’atto di appello, oltre agli altri casi già previsti, è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi, per mancato deposito della dichiarazione o elezione di domicilio e, infine, per mancato deposito del mandato ad impugnare, in caso di appello proposto nell’interesse dell’imputato con riguardo al quale si è proceduto in assenza.

In ordine alla specificità dei motivi, il nuovo comma 1 bis dell’art. 581 c.p.p. impone, in capo alla parte appellante, a pena di inammissibilità, di enunciare «[…] in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione».

In realtà, sul punto, la Riforma Cartabia sembra aver “semplicemente” voluto restringere un filtro già introdotto, allo scopo di evitare l’abuso dell’appello, al primo comma dell’art. 581 c.p.p. dalla Legge 23 giugno 2017, n. 103. Il Legislatore del 2022 ha, dunque, previsto un’ipotesi di inammissibilità rafforzata, richiedendo che il motivo debba essere formulato in modo tale da essere non solo specifico e preciso, ma anche da contenere una confutazione delle argomentazioni usate nella sentenza che si intende, con l’atto di appello, impugnare. Nel motivo si devono individuare le parti della decisione che si contestano e le ragioni alla base della contestazione; bisogna necessariamente confrontarsi con la sentenza, perché un motivo può essere anche formulato in modo molto preciso, ma senza mai prendere in considerazione il provvedimento giurisdizionale. Si tratta di confutare i passaggi logico-argomentativi della sentenza che si vuole appellare, di instaurare una relazione tra l’atto di appello e il provvedimento impugnato.

È agevole notare come la Riforma Cartabia abbia recepito l’orientamento giurisprudenziale cristallizzatosi con le Sezioni Unite Galtelli, le quali, con riguardo all’atto di appello, avevano sancito che: «l’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata»[6].

Siffatta pronuncia, originata dalla necessità di dirimere un contrasto in punto di genericità estrinseca dei motivi, ha messo in evidenza alcuni aspetti fondamentali: la necessarietà che l’appellante specifichi espressamente i capi e i punti oggetto di impugnazione, l’obbligatorietà di una specificità estrinseca, oltre a quella intrinseca, e la correlazione fra la specificità dell’atto d’appello e quella della sentenza. Dopo aver chiarito che i capicorrispondono a ciascuna decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all’imputato, mentre i punticonsistono nelle statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo[7], i giudici di legittimità si sono espressi in tema di specificità/genericità intrinseca ed estrinseca. Con riguardo a ciò, la Suprema Corte ha chiarito che i motivi si considerano intrinsecamente generici quando gli appelli sono fondati su considerazioni generiche e astratte o comunque non pertinenti al caso concreto, mentre con genericità estrinseca si intende «la mancanza di correlazione fra questi [motivi] e le ragioni di fatto o di diritto su cui si basa la sentenza impugnata». La Corte di Cassazione ha poi considerato, all’esito del proprio ragionamento logico, la stessa genericità estrinseca causa di inammissibilità dell’appello.

Sulla scorta di tale insegnamento, già la Riforma Orlando[8] era intervenuta prevedendo, al comma 1 dell’art. 581 c.p.p., a pena di inammissibilità dell’impugnazione, l’enunciazione specifica, tra le altre cose, dei capi e dei punti della decisione cui si riferisce l’impugnazione stessa; ora, la Riforma Cartabia, con espresso riguardo all’atto di appello, sembra aver voluto chiarire la portata della specificità richiesta ai fini dell’ammissibilità, al fine di disincentivare la presentazione di appelli del tutto generici.

Ulteriormente, va posto l’accento sul fatto che, sulla base di quanto disposto dalle stesse Sezioni Unite Galtelli[9], in tanto può chiedersi che i motivi siano specifici, in quanto la motivazione della sentenza che si procede ad impugnare sia completa, puntuale ed esauriente, non potendosi onerare la parte appellante, a pena di inammissibilità, di confrontarsi, relazionarsi, nel proprio atto di appello, con un provvedimento lacunoso e privo di specificità[10].

Per concludere, la violazione del disposto del comma 1 bis dell’art. 581 c.p.p. è rilevabile già in sede di spoglio preliminare dei fascicoli, quando gli stessi pervengono alla Corte d’appello dal primo grado, con la conseguente definizione del procedimento per mezzo di ordinanza adottata de plano, ex art. 591 c.p.p., nel caso in cui quello generico sia l’unico motivo di appello ovvero tutti i motivi risultino inammissibili; nell’ipotesi, invece, in cui l’atto di appello depositato contenga alcuni motivi ammissibili e altri inammissibili, l’inammissibilità del/dei motivo/i per genericità estrinseca viene rilevata in sede di Camera di consiglio, con conseguente motivazione della sentenza su quel punto della decisione, dovendosi questa limitare a darne atto[11].

Proseguendo nella disamina, nuovi e ulteriori requisiti di ammissibilità sono quelli stabiliti ai commi 1 ter e quater dell’art. 581 c.p.p., con riferimento, rispettivamente, al caso del processo di primo grado svoltosi in presenza dell’imputato e a quello celebrato in absentia.

Secondo la nuova previsione di cui al comma 1 ter, è necessario che si provveda al deposito, unitamente all’atto di appello, della dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio, non essendo sufficiente quella eventualmente già in atti, in quanto depositata in una fase precedente del procedimento.

Con riguardo a questa ipotesi, va segnalata una recente pronuncia della Corte di Cassazione, secondo la quale: «In tema di impugnazioni, l’art. 581, comma 1 ter, c.p.p. (introdotto dall’art. 33, comma 1, lett. d), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 ed applicabile alle impugnazioni proposte avverso le sentenze emesse in data successiva all’entrata in vigore del citato decreto), che, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio, richiede, a pena d’inammissibilità, il deposito della dichiarazione o elezione di domicilio della parte privata unitamente all’atto d’impugnazione, non opera nel caso in cui l’imputato impugnante sia detenuto»[12].

Per quanto attiene all’imputato assente in primo grado, in aggiunta alla dichiarazione o elezione di domicilio, il D. Lgs. n. 150 del 10 ottobre 2022 richiede il deposito di uno specifico mandato ad impugnare, rilasciato solo dopo la pronuncia della sentenza che si intende impugnare.

A quanto appena richiamato è correlato l’aumento, di cui all’art. 585, co. 1 bis c.p.p., di quindici giorni dei termini per l’impugnazione. Come noto, il termine per proporre impugnazione è di quindici giorni, nel caso di redazione immediata delle motivazioni ovvero di provvedimenti emessi a seguito di procedimento in Camera di consiglio, di trenta giorni, nell’ipotesi in cui il giudice abbia stabilito di redigere le motivazioni entro quindi giorni, e di quarantacinque giorni, qualora l’autorità giurisdizionale si sia riservata un termine superiore a novanta giorni. Orbene, la Riforma Cartabia, nell’introdurre il comma 1 bis all’art. 585 c.p.p., circa il caso dell’imputato assente in primo grado, ha aumentato di quindici giorni i termini sopraindicati[13], proprio tenendo conto della maggiore difficoltà per il difensore di munirsi del mandato speciale ad impugnare e volendo garantire che l’appello proposto dal difensore dell’imputato assente sia effettivamente motivato da un suo personale interesse, con conseguente successiva impossibilità di esperire eventuali rimedi restitutori e rescissori.

Risulta di notevole importanza, nel concludere l’analisi dei commi 1 bis e ter dell’art. 581 c.p.p., riportare il principio espresso recentemente dalla giurisprudenza di legittimità, sulla base del quale: «Il “sacrificio” richiesto all’appellante del deposito di una nuova dichiarazione/elezione di domicilio non appare, alla luce delle considerazioni espresse, irragionevole e/o ingiustificato se si confronta con la individuata esigenza della certa conoscenza della celebrazione del processo di appello e della partecipazione consapevole allo stesso, nonché della tempestiva notifica della citazione a giudizio. La richiesta di una nuova dichiarazione o elezione di domicilio, a pena di inammissibilità, per tutti coloro che, dopo la celebrazione di un grado di giudizio, vogliano procedere ad un giudizio di impugnazione, risulta “ragionevole” nei termini richiesti dalla giurisprudenza costituzionale»[14].

 

  1. Conclusioni

L’obiettivo di rimediare all’eccessiva durata del processo penale e di rendere più rapida la definizione del giudizio di appello, ha indotto il Legislatore ad intervenire, in primis, riducendo il numero di processi “in entrata”, sebbene la dottrina abbia, da subito, evidenziato che siffatta soluzione, probabilmente, non sarà in grado di ridurre il carico di lavoro gravante sul giudice dell’impugnazione, dato l’eccessivo numero di procedimenti.

Ulteriormente, con la Riforma Cartabia sono stati aggiunti, all’art. 581 c.p.p., i commi 1 bis, ter e quater, frutto del processo di responsabilizzazione dei protagonisti del processo: invero, il comma 1 bis, rivolgendosi al soggetto appellante per evitare l’abuso dell’appello da parte dello stesso, persegue il fine di innalzare il livello qualitativo dell’atto di impugnazione e del giudizio che ne discende, anche in funzione acceleratoria; l’art. 581, co. 1 ter e quater c.p.p. attiene, invece, al rapporto dei difensori con i propri clienti, tra i quali, nell’idea del riformatore, deve crearsi una forte sinergia, nell’ottica di rendere edotti gli imputati degli sviluppi nodali del procedimento a loro carico, in virtù della tutela dei loro diritti costituzionalmente garantiti.

Nel concludere, va sottolineato che le disposizioni prese in considerazione nel presente contributo trovano la loro giustificazione sì nella volontà di deflazionare il contenzioso processuale, ma, al contempo, assicurando e garantendo una maggiore partecipazione dell’imputato al processo che lo riguarda.

[1] G. Biondi, “Il giudizio di appello penale dopo la “riforma Cartabia” (e dopo il d.l. n. 162/2022 convertito, con modifiche, dalla Legge 30 dicembre 2022, n. 199): appendice di aggiornamento”, in Giur. Pen. Web, n. 1, 2023, disponibile qui: link

[2] In via incidentale, va ricordata la sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 2007 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della Legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), «nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell’art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile».

[3] Si tratta di casi in cui l’imputato non ha alcun interesse ad impugnare, dato che non può esservi per lui nessun pregiudizio, nemmeno di carattere economico.

[4] Cass. Pen., SS. UU., 29 marzo 2007, n. 27614.

[5] L’art. 581 c.p.p., invero, è norma dettata in tema di impugnazioni in generale.

[6] Cass. Pen., SS. UU., 27 ottobre 2016, n. 8825.

[7] Si pensi alla questione della componente oggettiva del reato, della qualificazione giuridica del fatto, dell’imputabilità, della componente soggettiva, dell’accertamento di circostanze aggravanti e attenuanti, della determinazione della pena etc.

[8] Legge 23 giugno 2017, n. 103.

[9] Cass. Pen., SS. UU., 27 ottobre 2016, n. 8825, secondo cui «sicché ad una motivazione articolata e specifica sui diversi elementi indicati dal legislatore dovrà necessariamente seguire un appello caratterizzato da analoga puntualità e specificità».

[10] A. Mori, “La riforma penale e il giudizio di appello”, in Quest. Giust., n. 3, 2023, disponibile qui: link

[11] C. Citterio, “Gli approfondimenti sulla riforma Cartabia – 3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)”, in Giustizia Insieme, 13 gennaio 2023, disponibile qui: link

[12] Cass. Pen., Sez. III, 16 gennaio 2024, n. 4233.

[13] In caso di assenza, dunque, il termine per proporre appello diventa di trenta giorni nel caso si applichi la lett. a) dell’art. 585, co. 1 c.p.p., di quarantacinque giorni nell’ipotesi in cui il giudice abbia stabilito di redigere le motivazioni entro quindi giorni e di sessanta qualora l’autorità giurisdizionale si sia riservata un termine superiore a novanta giorni.

[14] Cass. Pen., Sez. V, 10 gennaio 2024, n. 3118.

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