domenica, Aprile 28, 2024
Labourdì

Il licenziamento per insubordinazione: chiarimenti sulla fattispecie

A cura di Ottavio Pannone

 

Non v’è dubbio che, al fine di addivenire ad un giudizio di legittimità o meno del licenziamento, per quanto ripetutamente riconosciuto dalla giurisprudenza, sia necessario comparare l’infrazione disciplinare posta concretamente in essere dal lavoratore con le tipizzazioni di giusta causa contenute nel CCNL che, seppur non vincolanti e meramente esemplificative – a differenze di quelle con valore conservativo [1]– , rappresentano comunque un parametro cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c. c..

Pur ritenendosi il licenziamento la extrema ratio in presenza del venir meno dell’elemento fiduciario, si richiede al giudice di valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, dall’altro, la proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione, per accertare se la lesione dell’elemento fiduciario sia tale da giustificare l’applicazione della sanzione disciplinare espulsiva[2].

Del resto, sul punto, si è più volte espressa la Suprema Corte[3] per affermare il generale principio che le previsioni stabilite dal CCNL non vincolano il giudice di merito in ordine, in particolare, al provvedimento espulsivo.

Tuttavia, per come evidenziato dalla Cassazione, “la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119”[4]; considerato altresì “che la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro”[5].

Il principio generale subisce eccezione “ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore, fatta espressamente salva dal legislatore”[6].

Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificativi motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti[7], a meno che non si accerti che le parti stesse “non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva”, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari”[8].

Pertanto, ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale, vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il “licenziamento sarà illegittimo ed anche meritevole della tutela reintegratoria, prevista dall’ art. 18, comma 4, novellato dalla L. n. 92 del 2012”.

Interessante altresì ricordare quanto pur affermato dalla indicata decisione[9]  e cioè che, ai fini della valutazione della insubordinazione, dovrà essere esaminato il comportamento del lavoratore che si rifiuti di eseguire la prestazione, con valutazione concreta ed analitica.

E nella specie, il giudice di legittimità, proprio nel rimarcare i vizi della decisione della Corte territoriale che, concentrandosi esclusivamente sulle frasi proferite dal lavoratore e sulla asserita insubordinazione, ha trascurato di effettuare la valutazione di tutti i comportamenti addebitati al lavoratore.

La Suprema Corte, dunque, nel cassare la decisione evidenzia che la Corte territoriale aveva trascurato di esaminare tutte le circostanze, soggettive od oggettive, ché eventualmente avrebbero potuto consentire di escludere, in concreto e pur a fronte di un fatto astrattamente grave, l’idoneità dell’inadempimento a configurare giusta causa o giustificato motivo soggettivo, e senza valutare una sproporzione tra la condotta così come effettivamente realizzata ed il licenziamento.

Per completezza, vale pur ricordare anche altro interessante precedente della Suprema Corte[10] chiamata ad esaminare il caso deciso dalla Corte territoriale che nel rigettare il reclamo proposto dal datore aveva confermato la decisione del Tribunale che aveva ritenuto la illegittimità del licenziamento intimato a seguito di lettera del 18.9.2012 con cui gli si addebitava una grave insubordinazione per essersi rifiutato di svolgere mansioni di magazziniere, ordinando la reintegra.

Anche in questo caso, si osservava che “ai fini della valutazione del disvalore della condotta, doveva considerarsi la circostanza che il lavoratore aveva manifestato il suo disappunto, prima di conoscere l’esito della visita di idoneità che lo avrebbe giudicato idoneo allo svolgimento di mansioni di magazziniere, sia pure con rilevanti limitazioni, e, cosa ancora più importante, prima ancora che il datore di lavoro individuasse concretamente, all’esito del giudizio del medico competente, le mansioni che riteneva esigibili in quanto compatibili con il suo stato di salute”.

Secondo la Corte di merito, solo in presenza di tali ultime circostanze, la condotta avrebbe potuto giustificare il licenziamento per la lesione irrimediabile del vincolo fiduciario mentre quella del lavoratore ricorrente, che si arrestava sul piano di un atteggiamento oppositivo “di mera affermazione”, era inidonea ad integrare una giusta causa o un giustificato motivo di recesso.

Nel caso di specie, la Corte di Appello, dunque, escludeva che integrasse giusta causa di licenziamento il rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni diverse, “opposto prima di conoscere gli esiti della visita medica di idoneità cui era stato sottoposto e relativamente ad un ordine di servizio generico che non individuava ancora esattamente i nuovi compiti da espletare”.

E la Cassazione osserva che, rispetto al fatto accertato, “la decisione impugnata non si è discostata dagli insegnamenti della giurisprudenza che impongono di apprezzare in concreto la gravità dell’addebito, a tal fine considerando tutti i connotati oggettivi e soggettivi del fatto, vale a dire il danno arrecato, l’intensità del dolo o il grado della colpa, i precedenti disciplinari, nonché ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti”.

Segnatamente, nel caso suindicato: “i giudici di merito hanno valorizzato, in particolare, che il lavoratore avesse agito senza essere a conoscenza degli esiti del giudizio di idoneità delle mansioni e, quindi, in condizioni soggettive particolari dovute – evidentemente – all’incertezza dello stato di salute e degli effetti che avrebbero potuto avere mansioni diverse da quelle fino ad allora svolte”.

Ancor più di recente, la Suprema Corte[11] si è pronunciata in merito ai limiti circa l’applicabilità della sanzione espulsiva in caso di insubordinazione del lavoratore, affermando tra l’altro : “Se è vero che la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale, tuttavia ove la contrattazione collettiva, come nel caso in esame, ancori l’irrogazione della massima sanzione alla gravità della condotta nei confronti dei superiori, all’esistenza di minacce o di vie di fatto, al rifiuto di obbedienza ad ordini, allora non qualunque comportamento può essere causa di licenziamento ma solo quello che, per le sue caratteristiche proprie, si palesi ingiustificatamente in netto contrasto con gli ordini impartiti”.

Nel caso esaminato, un lavoratore era stato licenziato per essersi rifiutato, utilizzando un linguaggio volgare ed espressioni irrispettose nei confronti dei superiori, davanti ai colleghi, di eseguire i compiti richiesti, per ragioni connesse al suo stato di salute.

La Corte d’Appello, come pur si ricava dalla decisione di legittimità, confermando i provvedimenti precedentemente emessi dal Tribunale, accertava l’illegittimità del licenziamento irrogato e ordinava la reintegrazione del lavoratore, ritenendo in particolare che le condotte contestate fossero riconducibili alla fattispecie della semplice insubordinazione verso i superiori, sanzionata dal CCNL applicato con la sanzione conservativa della sospensione.

Per il giudice di merito (come poi confermato dalla Cassazione), il licenziamento doveva considerarsi illegittimo posto che il CCNL applicato prevedeva la possibilità di irrogare il licenziamento solo in caso di grave insubordinazione.

D’altronde, di fatto, la giusta causa di licenziamento, anche per quanto concerne la insubordinazione,  non può ritenersi integrata sulla base del solo fatto oggettivo e di una ritenuta incidenza di quest’ultimo sul rapporto fiduciario e sull’immagine dell’azienda ed il giudice non deve applicare automaticamente la sanzione del licenziamento prevista dal contratto collettivo per una determinata infrazione ma è tenuto a valutare l’adeguatezza nel caso specifico, tenendo conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e, quindi, della legittimità della sanzione stessa.

E, quindi, “non qualunque comportamento può essere causa di licenziamento ma solo quello che, per le sue caratteristiche proprie, si palesi ingiustificatamente in netto contrasto con gli ordini impartiti”[12].

 

[1] Cassazione 19023/2019 dep. 16 luglio 2019

[2] Cassazione 28911/ 2021 dep. 19 ottobre 2021.

[3] (ex plurimis, Cass. n. 8718 del 2017; Cass, n. 9223 del 2015;1 Cass. n. 13353 del 2011 con richiami).

[4] (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 dei 2018; principio ribadito da Cass. n. 14062 del 2019; Cass. n. 14063 del 2019; v. anche Cass. n. 13865 del 2019).

[5] (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella L. n. 183 del 2010, art. 30, v. anche Cass. n. 25201 del 2016)

[6]  (L. n. 604 del 1966, art. 12)

[7] (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995).

[8] (cfr. ex multis Cass. n: 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n: 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).

[9] Nota 1.

[10] Corte di Cassazione 14391 2018 dep. 5 giugno 2018.

[11] (Cassazione 4831 2023 dep. 16 febbraio 2023).

[12] (Cit. nota precedente).

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