Il reato di epidemia e il Covid-19
Dagli inizi di marzo l’Italia si ritrova ad essere una sfortunata protagonista dell’emergenza sanitaria causata dal COVID-19 o meglio conosciuto come Corona-virus.
Il diffondersi così rapido del virus Covid-19, che si è spostato dal Nord Italia al Sud in una velocità spaventosa, ha indotto il Governo italiano a disporre misure restrittive al fine frenare il propagarsi del virus e il contagio di persone.
Nel Dpcm del 9 Marzo 2020 [1] con cui sono disposte “nuove misure per il contenimento e il contrasto del diffondersi del virus Covid-19 sull’intero territorio nazionale”, si rileva che è vietata ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico.
Inoltre, in risposta al continuo aumento dei contagi, il Presidente del Consiglio ha previsto come ulteriore restrizione che, su tutto il territorio nazionale, è fatto divieto a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati in comune diverso da quello in cui si trovano, prevedendo come uniche eccezione: le comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute.
Tali restrizioni hanno la finalità di evitare il più possibile il contatto tra persone così da sperare in una discesa della curva dei contagi, che negli ultimi giorni ha raggiunto cifre aberranti. Invero, ciò che desta più preoccupazione è il possibile collasso della sanità, che potrebbe non riuscire a fronteggiare il numero di persone risultate positive al virus.
In tale prospettiva, ci si interroga se le condotte tenute da taluni, che non abbiano ottemperato alle misure prescritte possa avere dei riflessi nella materia penale e profilarsi una forma di responsabilità.
A tal riguardo si è supposto che la fattispecie criminosa di riferimento possa essere l’art. 438 c.p. rubricato Epidemia, il quale recita :
“Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo
Se dal fatto deriva la morte di più persone, si applica la pena [di morte]”
Il reato de quo, invero, è stato oggetto di importanti diatribe dottrinali le quali si fronteggiavano circa la struttura del reato, in particolare una conclusione ermeneutica collocava la fattispecie delittuosa tra i reati di danno, di converso altri preferivano classificarlo alla stregua di un reato di pericolo. Rinviando la trattazione dell’argomento all’articolo qui allegato, si ricorda che recentemente, si è assistito ad una nuova interpretazione della norma, che sembrerebbe aver qualificato l’art. 438 c.p. come un reato di danno-evento, nella misura in cui dalla malattia ( che si configura come danno), possa poi derivarne una diffusione pericola e rischiosa per la salute pubblica (elemento del pericolo), che tra l’altro rappresenta l’interesse considerato meritevole di tutela da parte dell’ordinamento
La giurisprudenza in diverse pronunce ha considerato il reato di epidemia come fattispecie casualmente orientata nel senso che il comportamento penalmente rilevante si sostanzia nella diffusione di germi patogeni.
A tal riguardo appare opportuno chiarire l’espressione di germi patogeni, la quale si riferisce a virus o altri batteri infettivi che hanno la capacità di propagarsi tra la popolazione e causare una malattia.
Infine spostandosi sull’elemento soggettivo, ai fini della punibilità dell’agente si richiede che abbia agito con dolo generico, dunque, animato dalla volontà di diffondere agenti patogeni.
Fatta questa doverosa ricostruzione della norma in esame, è utile riportare gli approdi giurisprudenziali sul tema, in particolare si menziona la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 48014/2019.
IL CASO
La questione posta all’attenzione della Corte si riferiva al caso di un uomo, che sebbene affetto da HIV, aveva avuto rapporti sessuali con trenta donne, consapevole della sicura trasmissione del virus alle partner.
Ci si interrogava, dunque, se in siffatta ipotesi potesse configurarsi il reato di epidemia. La ricostruzione ermeneutica adottata dalla Corte parte con l’evidenziare il silenzio serbato dalla norma in merito al numero minimo di persone contagiate che attribuisce a quella diffusione la qualifica di epidemia, sicché è necessario, per la realizzazione dell’ipotesi contemplata nell’art. 438 c.p., che il numero di contagiati sia ingente.
Gli ermellini, quindi, avevano affermato che benché il numero delle donne contagiate fosse rilevante non potesse, comunque, essere qualificata come un’epidemia. Difatti, il richiamo al cluster epidermico “ossia di una aggregazione di casi di infezione collegati tra loro in una determinata area geografica e in un determinato periodo”[2], risulta compatibile al caso concreto e agli eventi derivanti dalle condotte del reo, tuttavia tale espressione non corrisponde alla nozione di epidemia.
A sostegno di tale conclusione può ricordarsi il dictum della Cassazione nel 2008[3] ove si era provveduto ad attribuire all’epidemia un significato ben preciso, ovvero caratterizzata da una diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido sviluppo ed autonomo entro un numero indeterminato di soggetti e per una durata cronologicamente limitata.
Alla stregua di quanto detto emerge che la nozione di epidemia tracciata dalla giurisprudenza e dalla scienza medica, non siano del tutto sovrapponibili, in quanto ad una espressione più ristretta proveniente dalla materia giuridica, se ne affianca una più estensiva della medicina: secondo cui per epidemia si intende ogni malattia infettiva o contagiosa suscettibile, per la propagazione dei suoi germi patogeni, di una rapida ed imponente manifestazione in un medesimo contesto e in un dato territorio colpendo un numero di persone tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato di individui.
L’ambito applicativo, sicuramente più ristretto nella materia giuridica, è spiegato dalla necessità di accertare il nesso eziologico sussistente tra la condotta del reato e l’evento causato, nella misura il contagio di persone risulta la conseguenza dell’agire del reo.
Riportando queste ricostruzioni alla realtà concreta, ci si chiede se possa effettivamente applicarsi la fattispecie delittuosa prevista dall’art. 438 c.p.
Sicuramente il numero (preoccupante) delle persone risultate positive al COVID-19 soddisfa la condizione richiesta nella norma, ma ciò che desta perplessità è l’accertamento dell’elemento soggettivo del dolo.
Dunque, si è ipotizzato che per un’applicazione corretta dovrebbe attuarsi il combinato disposto dell’art. 452 c.p. con l’art. 438 c.p.,
L’art. 452 c.p. disciplina che “Chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 438 e 439 è punito:
1) con la reclusione da tre a dodici anni, nei casi per i quali le dette disposizioni stabiliscono la pena di morte;
2) con la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali esse stabiliscono l’ergastolo
3) con la reclusione da sei mesi a tre anni, nel caso in cui l’articolo 439 stabilisce la pena della reclusione.
Prevedendo che l’epidemia possa essere stata realizzata con una condotta di negligenza, imprudenza o imperizia, dalla quale sia derivata la diffusione del microrganismo.
Anche in tal caso si dovrà accertare il nesso di causalità esistente tra il comportamento dell’agente e l’evento realizzato.
Tale norma ha la finalità di estendere l’area di penalmente rilevante, reprimendo quelle condotte poste in essere con colpa che siano pregiudizievoli per la salute pubblica.
Ad oggi la questione è ancora acerba e non vi sono notizie certe in merito, poiché d.l. 19/2020 [4]all’art. 4 si dispone che l’unica sanzione prevista è di natura amministrativa applicabile nel caso di mancato rispetto delle misure di contenimento.
FONTI:
[2] www.altalex.com
[3] Cass. pen., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576
[4] www.questionegiustizia.it
FONTI IMMAGINI: www.agi.it
Tayla Jolanda Mirò D’aniello nata ad Aversa il 4/12/1993. Attualmente iscritta al V anno della facoltà di Giurisprudenza, presso la Federico II di Napoli. Durante il suo percorso univeristario ha maturato un forte interesse per le materie penalistiche, motivo per cui ha deciso di concludere la sua carriera con una tesi di procedura penale, seguita dalla prof. Maffeo Vania. Da sempre amante del sistema americano, decide di orientarsi nello studio del diritto processuale comparato, analizzando e confrontando i diversi sistemi in vigore. Nel privato lavora in uno studio legale associato occupandosi di piccole mansioni ed è inoltre socia di ELSA “the european law students association” una nota associazione composta da giovani giuristi. Frequenta un corso di lingua inlgese per perfezionarne la padronanza. Conseguita la laurea, intende effettuare un master sui temi dell’anticorruzione e dell’antimafia.