venerdì, Luglio 26, 2024
Labourdì

Il trasferimento del lavoratore: uno strumento datoriale in risposta alle variabili esigenze aziendali

Il trasferimento del lavoratore: uno strumento datoriale in risposta alle variabili esigenze aziendali

A cura di Valentina Fragnan, partecipante dell’Executive Master in Giurista d’Impresa e General Counsel.

 

Il presente elaborato ha come obiettivo quello di fotografare lo stato dell’arte circa il tema della mobilità del lavoratore, analizzando la disciplina del mutamento del luogo della prestazione lavorativa, il potere unilaterale del datore e i relativi limiti, nonché gli eventuali aspetti trasversali coinvolti, mostrando come tutti questi elementi siano modellati sulla persecuzione dell’obiettivo di soddisfacimento dei mutevoli bisogni aziendali.

 

Luogo dell’adempimento dell’obbligazione

Il legislatore italiano statuisce all’art. 1182 co.1 cod. civ. i criteri generali che regolano l’individuazione del luogo in cui deve avvenire l’adempimento di un’obbligazione: questo viene specificato attraverso il contratto, gli usi, la natura della prestazione o da altre circostanze.

Luogo della prestazione di lavoro

La prestazione di lavoro, dunque, va eseguita nel luogo stabilito dalle parti nel contratto stesso o dall’ imprenditore nel regolamento d’ impresa, in mancanza viene realizzata nella sede dell’azienda (o in una delle sue sedi): dai principi generali del diritto delle obbligazioni discende perciò che il potere di scelta, nonché di modifica del luogo in cui deve avvenire la prestazione del lavoratore, è rimesso unilateralmente nelle mani del datore di lavoro.

Il trasferimento del lavoratore

Questo aspetto dell’unilateralità viene infatti confermato dall’ art. 2103 cod. civ., così come novellato da art. 13 St. lav., in cui si afferma che “il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Già dalla semplice lettura di questo enunciato è ben facile individuare l’humus da cui l’istituto del trasferimento[1] desume i suoi slanci primari: si tratta di uno strumento tipico del potere direttivo – organizzativo, una misura di natura oggettiva, di cui il datore di lavoro si serve per rispondere alle esigenze dell’impresa, intrecciandole con l’ottimizzazione della dislocazione territoriale del suo personale[2].

Limiti oggettivi al trasferimento

Stante l’applicazione dei principi generali di correttezza e di buona fede, i confini entro cui il datore di lavoro ha la possibilità di esplicare tale potere sono quindi così delineati: il trasferimento potrà avvenire soltanto in ragione di comprovate esigenze tecniche, organizzative, produttive. Inoltre, tale provvedimento non è sottoposto né ad oneri formali, né ad alcun obbligo di motivazione da parte del datore di lavoro[3]; solo in caso di giudizio, quest’ultimo, dovrà dimostrare, oltre alle ragioni stesse, anche la presenza del nesso di causalità che lega il provvedimento da lui disposto e le relative esigenze aziendali. Il giudice in tal caso avrà unicamente la facoltà di accertare siffatti elementi, senza poter né effettuare un controllo nel merito, né richiedere la prova circa l’inevitabilità del trasferimento.

Limiti soggettivi al trasferimento

Il datore di lavoro è inoltre giustificato nella disposizione del provvedimento di trasferimento anche nei confronti di quel lavoratore che mostri una c.d. incompatibilità ambientale, locuzione da intendersi come identificativa di una situazione critica in cui il lavoratore mostri una certa difficoltà nell’ adattamento al tessuto sociale aziendale tale da ingenerare disorganizzazione e disfunzione all’ interno della stessa.

Limiti aggiuntivi

Mentre per il lavoratore che fruisce di congedi di maternità – paternità è contemplato un vero e proprio divieto da art. 56 D. Lgs. n. 151/2001, tutele specifiche sono previste dall’ art. 22 St. lav. per particolari figure di lavoratori: infatti per i dirigenti di RSA o RSU è necessario che il datore di lavoro richieda preventivamente il nulla osta alle relative associazioni sindacali di appartenenza. Ulteriori confini al potere datoriale sul trasferimento possono essere suggeriti dalla contrattazione collettiva prevedendo non solo il rispetto di un dato termine di preavviso[4], ma anche dovendo tener conto delle ragioni personali del lavoratore contrarie al trasferimento, fra cui, in particolare, l’età e la situazione familiare del lavoratore[5].

Obblighi del lavoratore

Posto che le conseguenze alla dislocazione definitiva del dipendente vengono ravvisate dalla Cassazione[6] nel mutamento della residenza e nella riorganizzazione della vita familiare e sociale del lavoratore, quest’ ultimo, che impulsivamente potrebbe voler rifiutare il provvedimento impostogli dal datore di lavoro, dovrebbe però, al fine di evitare di incorrere in un inadempimento contrattuale e perciò in una sanzione disciplinare, ben tenere presente che attraverso la stipula del rapporto contrattuale di lavoro le parti detengono alcuni precisi doveri nell’esecuzione dello stesso. Nello specifico, rimandando in particolare all’ art. 2104 cod. civ., il lavoratore, oltre ad essere obbligato alla prestazione principale (ovvero lo svolgimento delle mansioni assegnatigli dal datore di lavoro), è tenuto ad ulteriori vincoli integrativi: il dovere di diligenza, quello di obbedienza e l’obbligo di fedeltà. Poiché quest’ ultimo poco si concilia con la correlazione al potere direttivo datoriale, è utile invece soffermarci sui precedenti: il primo attiene ad un parametro valutabile attraverso la natura stessa della prestazione dovuta e l’interesse dell’impresa[7]; il secondo invece impone al prestatore la corretta osservanza delle disposizioni impartitegli dall’ imprenditore e dai collaboratori di questo dai cui il lavoratore dipende.

Impugnazione del provvedimento

Il lavoratore che volesse impugnare il trasferimento ritenuto illegittimo potrà farlo attraverso un qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, rispettando il termine di decadenza stimato in 60 giorni dalla data di ricezione della relativa comunicazione. Nei successivi 180 giorni, inoltre, dovrà depositare tale ricorso presso il Tribunale del lavoro.

Conclusioni

Da questa breve panoramica sul tema del trasferimento del lavoratore ciò che è possibile certamente dedurre è come la ratio legis che governi la totalità della disciplina in esame, sia finalizzato al raggiungimento del massimo risultato possibile: il benessere e la prosperità aziendale. Ecco, dunque, che il centro del bilanciamento tra interessi imprenditoriali da un lato, e del lavoratore dall’ altro, trova però una forte e significativa asimmetria in favore delle prerogative datoriali. La flessibilità, perciò, sarà la principale skill di cui il lavoratore farebbe bene servirsi.

 

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[1] Per trasferimento si intende un qualsiasi spostamento spaziale del lavoratore dalla propria unità produttiva di origine, disposto dal datore. Non rientrano in tale definizione i c.d. trasferimenti interni, ossia i passaggi del lavoratore all’ interno della medesima articolazione produttiva.

[2] Alberto Levi, Il trasferimento disciplinare del prestatore di lavoro, Torino, 2000, p.1.

[3] Sul punto, Franco Carinci, Raffaele De Luca Tamajo, Paolo Tosi, Tiziano Treu, Il rapporto di lavoro subordinato, Milano, 2016, p.232, mostrano un orientamento originario giurisprudenziale tale per cui il datore di lavoro era vincolato a rendere nota la motivazione al trasferimento soltanto qualora il lavoratore avesse posto una specifica domanda (Trib. Milano 21 marzo 2012).

[4] Giovanni Amoroso, Vincenzo Di Cerbo, Arturo Maresca, Diritto del lavoro. Vol. II: lo statuto dei lavoratori e la disciplina dei licenziamenti, Milano, 2017, p.593, gli studiosi affermano che sarebbe illegittimo il trasferimento del lavoratore disposto dal datore di lavoro nel periodo stesso del preavviso per eluderne l’osservanza.

[5] Cass. 15 ottobre 1992, n. 11339, annotata in G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, op. cit., p.594; Cass. 18 ottobre 1996, n. 9086; Cass. 17 giugno 1991 n. 6832, annotate in F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, op. cit., p.233, gli autori affermano infatti che la giurisprudenza ha spesso valutato le opzioni disponibili al datore per contemperare gli interessi dell’impresa con quelli del lavoratore osservando criteri di equità nella scelta dello stesso, suggerendo la possibilità di trasferire altri lavoratori, proponendo di impiegare utilmente il lavoratore nella stessa unità.

[6] Cass. 15 settembre 1987, n. 2749, annotata in Loris Bonaretti, Trasferimento del lavoratore subordinato privato, Milano, 1992, p.100.

[7] Cass. 28 marzo 1992, n. 3845 afferma infatti che: “l’obbligo di diligenza imposto al lavoratore da art. 2104 co.1 cod. civ., si sostanzia non solo nell’ esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa ma anche nell’ esecuzione dei comportamenti accessori che si rendono necessari in relazione all’ interesse del datore di lavoro ad un’utile prestazione”.

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