domenica, Maggio 19, 2024
Amministrazione e Giustizia

L’ “inevitabile soccombenza” dell’autodichia parlamentare dinnanzi alle controversie erompenti dalle procedure ad evidenza pubblica

A cura di Federico Muzzati

Mediante la pronunzia della sentenza n. 65/2024, i Giudici di Palazzo della Consulta hanno avuto modo di “tracciare” alcune commendevoli, e condivisibili, coordinate ermeneutiche in riguardo alla dibattuta “figura” dell’autodichia parlamentare; più specificatamente, e all’uopo, ne hanno prodromicamente e pregiudizialmente delimitato i confini operativi, e la sua portata, stabilendo, in ragione di ciò, come quest’ultima non possa in alcun modo considerarsi sempre, e automaticamente, ipso iure “imperante”; se ne inferisce, pertanto, come questa debba necessariamente “arrestarsi” dinnanzi ad alcune circostanze, cedendo il passo in favore dell’”ordinaria” giurisdizione statale.

Di talché, sussumendo il principio di diritto sinotticamente enunciato in epigrafe al caso di specie, per tutto ciò che afferisce, ed attiene, alle controversie geneticamente erompenti dallo svolgimento di procedure ad evidenza pubblica[1] il potere di “auto iurisdicere” parlamentare[2] non può in alcun modo trovare, legittimamente, “cittadinanza” ed operatività.

In altre parole, gli organi parlamentari non possono, in alcun modo, validamente pronunciarsi in relazione alle quaestio derivanti dalle procedure di gara pubblicistiche[3] dagli stessi indette, poiché queste involgono, ovviamente, interessi e posizioni giuridiche di soggetti terzi, estranei, e dunque non “attraibili” all’interno della loro sfera giuridica, e del loro raggio di azione ed influenza, come, invece, accade, per converso, con i soggetti che vi prestano esclusivamente la loro opera (id est, i dipendenti parlamentari)[4].

Al fine di meglio comprendere quanto sin qui brevemente compendiato ed enunciato, appare impreteribile, e d’indubbia utilità, delineare per sommi capi la genesi della “res litigiosa” sottostante al giudizio di cui in analisi.

In estrema sintesi, un concorrente escluso da una procedura selettiva bandita dalla Camera dei Deputati provvedeva a adire il Giudice Amministrativo, interponendo ricorso nei confronti del provvedimento di esclusione, ritenuto da questo palesemente illegittimo.

Tanto il T.AR. Lazio[5], quanto, successivamente il Consiglio di Stato in sede d’appello[6], confermavano la necessaria e indubbia sussistenza della giurisdizione amministrativa, respingendo stentoreamente e seraficamente le eccezioni formulate dalla Camera dei Deputati, la quale sosteneva che, decidere in ordine alla controversia emergente da una procedura ad evidenza pubblica dalla stessa promossa, rientrasse ampiamente nella sua sfera di attribuzione e competenza.

Tale statuizione, che impinge evidentemente con il quadro normativo e giurisprudenziale – domestico ed europeo – di riferimento, veniva finanche “cassata” dalla Suprema Corte di Cassazione[7], alla quale la stessa Camera era ricorsa in ultima istanza per veder accolta la propria eccezione di giurisdizione, con il dichiarato intento di ottenere la “translatio iudicii” della controversia instaurata dal concorrente escluso in suo favore.

Sul punto, la Corte Costituzionale, investita della questione a seguito del sollevamento del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dalla Camera dei Deputati, ha, previamente, rimembrato e confermato l’esistenza del potere di autodichia posto in capo agli organi parlamentari (rectius: costituzionali), rappresentando, sulla scorta di una propria precedente decisione[8], come questa costituisca l’espressione “della sfera di autonomia riconosciuta agli organi costituzionali”.

La summenzionata autonomia, nel caso dei due rami parlamentari, si traduce, in prima luogo, nella possibilità di emanare disposizioni parlamentari regolanti la propria sfera di attività interna, e dunque, anche i rapporti intercorrenti con i propri dipendenti; in seconda battuta, quale logico corollario discendente da quanto poc’anzi detto, si ha la c.d. “autodichia”, ossia il potere di giudicare direttamente, mediante la costituzione di propri organi interni all’uopo approntati, sulle controversie insorgenti dall’applicazione delle norme di conio parlamentare.

Tutto ciò al fine di rafforzare l’autonomia e l’indipendenza degli organi costituzionali, evitando indebite – e potenzialmente lesive e dannose – ingerenze da parte dell’ordinaria giurisdizione “comune”.

L’evidente e dichiarata ratio dell’autonomia e del conseguente potere di autodichia degli organi costituzionali, però, come appare “lampante” per quanto poco sopra esplicato, ne rappresenta finanche il suo limite di estensione ed applicativo; infatti, laddove le controversie non attengano meramente ad attività interne degli organi costituzionali, bensì a rapporti instaurati con soggetti terzi, e dunque fuori dalla loro sfera di influenza, non si potrà validamente opporre il potere di autodichia, ricorrendo alle proprie prerogative autonomistiche e regolamentari.

Ed è proprio alla luce di questo generale principio che, la Corte Costituzionale ha basato la decisione de qua, il cui “thema decidendum” afferisce esclusivamente al settore dei contratti pubblici, ritenendo che la controversia instaurata dal concorrente escluso esorbitasse dalla sfera di influenza e di attribuzioni di cui è “dotata” la Camera dei Deputati, affermando, per converso, l’esclusiva giurisdizione, sul punto, del Giudice Amministrativo.

In conclusione, il Giudice delle leggi, confermando la piena legittimità del potere di autodichia (peraltro, funzionalmente necessario allo svolgimento delle attività degli organi costituzionali), ne delinea i tratti caratterizzanti e i confini, soggiungendo ad affermare che quest’ultima deve arretrare nel caso di specie, in favore dell’ordinaria giurisdizione comune, in quanto “Estendere tale deroga[9] oltre la sfera dei soggetti interni (o aspiranti tali) agli organi costituzionali, sino a comprendere le imprese che concorrano per aggiudicarsi un appalto bandito dagli organi stessi, comporterebbe un sacrificio sproporzionato al diritto a una tutela giurisdizionale effettiva[10], nel senso ampio appena precisato, a carico di soggetti del tutto estranei alla struttura organizzativa degli organi costituzionali stessi, e titolari come qualsiasi altro soggetto del diritto ad accedere al giudice “naturale” stabilito dall’ordinamento, sulla base dei principi costituzionali[11].

[1] Promosse dagli stessi organi parlamentari (nel caso de quo, dalla Camera dei Deputati).

[2] Che trova il proprio fondamento e la propria fonte istitutiva all’interno dei Regolamenti parlamentari.

[3] Melius: a eventuali conflitti sfocianti in una controversia tra i vari soggetti partecipanti e coinvolti.

[4] Nei cui confronti, invece, opera pienamente il potere di autodichia; infatti, tale circostanza, rappresenta una delle fattispecie per antonomasia di operatività della testé detta prerogativa parlamentare di stampo costituzionale.

[5] Cfr. T.A.R. Lazio, Sez. I, 24 aprile 2020, n. 4183.

[6] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 31 maggio 2021, n. 4150.

[7] Cfr. Corte di Cassazione, SS.UU., n. 15236/2022.

[8] Cfr. Corte Cost., n. 262/2017.

[9] All’ordinaria giurisdizione statale.

[10] Con evidenti vulnus derivanti da quanto, invece, chiaramente previsto dagli artt. 24 e 25 della Costituzione.

[11] In buona sostanza, in altre parole, e in conclusione, come si è potuto comprendere alla luce di quanto sopraddetto, la giurisdizione domestica “parlamentare” non può, certamente, considerarsi “in re ipsa”, trovando – sic et simplicter – applicabilità dinnanzi ad ogni potenziale situazione di conflitto, ma deve necessariamente arretrare qualora venga a confrontarsi e a “collidere” con posizioni ed interessi esulanti dalle circostanze che ineriscono puramente alle dinamiche e alle vicende interne della “vita” degli Organi del Parlamento.

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