venerdì, Luglio 26, 2024
Labourdì

Il licenziamento per scarso rendimento non può ritenersi applicabile a priori e richiede grande attenzione, anche, pro futuro, da parte del legislatore (si spera)

A cura di Federico Fornaroli

Con ordinanza n. 10640/2024, la Suprema Corte di Cassazione è tornata ad affrontare il delicato tema del licenziamento per c.d. scarso rendimento del lavoratore subordinato.

Anzitutto, si tratta di una creazione di matrice giurisprudenziale, sorta anche sulle orme di quanto è più diffusamente applicabile in altri ordinamenti (uno su tutti, quello anglosassone), per cercare di disciplinare l’ipotesi in cui un dipendente, non adempiendo correttamente ai propri doveri, presenti risultati di performance “ordinari” inferiori alla soglia di “ragionevole accettabilità”.

Ebbene, mediante la succitata pronuncia, gli Ermellini hanno rammentato come tale fattispecie debba consistere in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore (ossia, una forma di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 e ss. c.c.), purché, però, siano stati preventivamente determinati criteri e obiettivi da raggiungere, che possano, dunque, fungere da adeguato parametro al fine di verificare la sussistenza di una giusta diligenza e professionalità media applicata all’espletamento delle mansioni assegnate.

Difatti, viene significato che la prestazione lavorativa non concerne un’obbligazione del dipendente di conseguire un certo risultato, bensì quest’ultimo, mediante il proprio contratto di lavoro, “si obbliga solamente alla messa a disposizione delle proprie energie nei confronti del datore di lavoro”.

Per il ché, il mancato ottenimento di un obiettivo prefissato dal datore di lavoro non può costituire, di per sé, un presupposto sufficiente ad intimare il licenziamento per scarso rendimento.

Inoltre, normalmente, la determinazione di obiettivi si accompagna all’ulteriore indicazione di un arco temporale ragionevole entro il quale i medesimi devono essere raggiunti e, quindi, valutati dal datore di lavoro, anche – è bene – in via comparatistica rispetto agli altri lavoratori che eseguono compiti comparabili/equipollenti, sì da poter meglio confrontare e comprendere l’effettiva scarsità del rendimento di uno degli stessi.

Tanto premesso, urge anche un’ultima riflessione di non poco valore (probabilmente e auspicabilmente).

A partire dal periodo pandemico, il paradigma che sta tentando di contraddistinguere sempre di più il rapporto di lavoro subordinato tende ad essere maggiormente quello del conseguimento di obiettivi, in luogo della mera prestazione di facere disancorata da questi ultimi (salvo, in via marginale e ancillare, per gli scopi connessi ad un potenziale bonus).

Infatti, il c.d. “smart working” – che sta acquisendo sempre più appeal e piede nei confronti dei lavoratori già in sede di colloquio – ha una natura senz’altro più sbilanciata e protesa al trinomio “prestazione lavorativa-obiettivi-retribuzione” che non al tipico e annoso binomio “prestazione lavorativa-retribuzione”.

Ciononostante, la nostra giurisprudenza, quantomeno in punto di valutabilità e conseguente azione riparatorio-sanzionatoria (non in senso disciplinare ma di esercitabilità di una qualsiasi tipologia di licenziamento) accordata al datore di lavoro, sembra ancora piuttosto refrattaria e, per certi versi, conservatrice, non permettendo al nostro ordinamento di essere, anche solo in parte, permeato da soluzioni più orientate al succitato trinomio.

Pertanto, anche le aziende dovranno attenersi attentamente al “monito” e alle indicazioni formulate (e reiterate) dalla Suprema Corte, qualora intendessero “colpire” un proprio dipendente non particolarmente performante, posto che, ad ogni buon conto, una simile condotta non potrà che essere saggiata ed eventualmente punita esclusivamente sul piano disciplinare, non essendovi, difatti, spazi per un ragionamento afferente, ad esempio, al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Forse, soltanto il legislatore potrà realmente scardinare i suesposti preconcetti giurisprudenziali, per cercare di avvicinarsi meglio a quelle che appaiono essere istanze sempre più crescenti ad opera del mondo del lavoro (sia lato datore che lavoratore).

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