La Corte di Cassazione conferma la compatibilità del regime di prescrizione in materia di responsabilità degli enti con la Costituzione
Con sent. n. 25764/2023 la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 d.lgs. n.231 del 2001 sollevata in relazione agli artt. 3, 24, comma secondo, e 111 Cost., confermando la ragionevolezza della deroga rispetto alla disciplina della prescrizione in ambito penale, alla luce della diversa natura dell’illecito che determina la responsabilità dell’ente e dell’impossibilità di ricondurre integralmente il sistema di responsabilità ex delicto di cui al d.lgs. n.231 del 2001 nell’ambito dell’illecito penale (Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015 – dep. 2016, Bonomelli, Rv. 267047).
In generale, l’art. 22 d.lgs. n.231 del 2001 prevede che le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato e che l’applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell’illecito amministrativo interrompono la prescrizione. Nel caso in cui l’interruzione avvenga in seguito alla contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio.
La giurisprudenza ha chiarito che la sentenza che definisce il giudizio richiamata dall’art. 22, comma 4, è necessariamente quella pronunciata a carico dell’ente, non invece quella nei confronti dell’imputato persona fisica. Potrebbe infatti mancare una sentenza irrevocabile nei confronti del reo, come si evince dall’art. 8 del d.lgs. n. 231, che, nel sancire l’autonomia delle responsabilità dell’ente, ne ammette la configurabilità anche nel caso in cui l’autore del reato non sia identificato o non sia imputabile.
Nel caso di specie, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 3 Cost. per asserita irragionevole disparità di trattamento tra la disciplina della prescrizione prevista per gli illeciti commessi dall’ente rispetto a quella prevista per gli imputati-persone fisiche, sul presupposto che la responsabilità dell’ente dovrebbe qualificarsi come penale, anche alla luce della nozione di materia penale elaborata nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU). Inoltre, si riteneva violato il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., poiché, dato il regime di sostanziale imprescrittibilità dell’illecito, i fatti possono essere giudicati anche a moltissimi anni di distanza dal loro verificarsi. Ancora, la compromissione della possibilità dell’ente di continuare a svolgere la propria attività determinerebbe la lesione del diritto di iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost.. Infine, sarebbe violato l’art. 111 Cost. nella parte in cui prescrive che il processo debba avere una ragionevole durata.
Nel rigettare il ricorso, la Corte di Cassazione ha rilevato che la responsabilità dell’ente si fonda su un illecito amministrativo e la circostanza che tale illecito venga accertato nel processo penale, spesso unitamente all’accertamento del reato posto in essere dalla persona fisica, non muta la sua natura. In particolare, la responsabilità di cui al d.lgs. 231 è stata qualificata come tertium genus rispetto alla responsabilità penale e amministrativa (Sez. U, n. 38343 del 18/09/2014, TyssenKrupp s.p.a). Ne consegue che essa non è integralmente riconducibile negli istituti dell’illecito penale. La diversa natura degli illeciti giustifica quindi il differente regime di prescrizione, senza che possa ravvisarsi alcuna violazione dell’art. 3 Cost.
Quanto al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, la Corte ricorda che lo stesso è riconducibile al più ampio principio del giusto processo sancito a livello interno nell’art. 111, secondo comma, Cost. e a livello sovranazionale nell’art. 6 CEDU e nell’art. 14 del Patto internazionale per i diritti civili. La nozione di ragionevole durata non si esaurisce nella semplice speditezza in funzione di un’esigenza di efficienza, ma impone un contemperamento, da parte del legislatore, dell’efficienza con le garanzie. Alla luce di ciò, la prescrizione, così come disciplinata nell’art. 22 d.lgs. 231 del 2001, non si pone in contrasto con il principio di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.. Infatti, da una parte è stato previsto un termine di prescrizione quinquennale, oggettivamente breve, finalizzato a contenere la durata della prescrizione e a non lasciare uno spazio temporale eccessivamente ampio per l’accertamento dell’illecito nel corso delle indagini. Dall’altra, sono stati introdotti effetti interruttivi simili alla disciplina civilistica, dal momento che, una volta contestato l’illecito amministrativo, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio. In questo modo il legislatore ha realizzato un bilanciamento tra le esigenze di ragionevole durata del processo, stabilendo il termine quinquennale di prescrizione, più breve rispetto a quello previsto dal codice penale, e le esigenze di garanzia, relative alla necessaria completezza dell’accertamento giurisdizionale di una fattispecie complessa come quella dell’illecito amministrativo dell’ente. Nel sistema così delineato si ha allora una tendenziale riduzione del rischio di prescrizione dopo l’instaurazione del giudizio in seguito all’esercizio dell’azione penale. Una volta contestato l’illecito nel termine di cinque anni risulta difficile che si verifichi la prescrizione nel corso del giudizio, a differenza di quanto accade per i reati e ciò dipende da una specifica scelta del legislatore volta a evitare che, in presenza dell’interesse a far valere la potestà punitiva dello Stato, manifestato attraverso l’esercizio dell’azione penale, si debba dichiarare l’estinzione dell’illecito per intervenuta prescrizione. Peraltro, la Corte ricorda che l’art. 60 d.lgs. n.231 del 2001 pone un temperamento, poiché impedisce la contestazione dell’illecito amministrativo nel caso in cui il reato presupposto sia già estinto per prescrizione. Quindi, una volta verificatasi la prescrizione del reato presupposto senza che sia stato contestato l’illecito amministrativo, viene meno la potestà sanzionatoria a carico dell’ente.
La Corte ritiene parimenti infondata la questione di incostituzionalità rispetto alla dedotta violazione dell’art. 41 della Cost, poiché “la disciplina del d.lgs. n. 231, lungi da porsi in contrasto con il precetto costituzionale, ne costituisce al contrario attuazione, mirando ad evitare che, anziché favorire l’attività sociale, l’iniziativa economica privata rappresenti l’occasione per agevolare la commissione di reati”.
Infine, non è ravvisata alcuna violazione dei principi convenzionali relativi alla matière penale, poiché il legislatore ha configurato la responsabilità dell’ente come autonoma rispetto alla responsabilità penale della persona fisica per il reato che costituisce presupposto dell’illecito a carico dell’ente. Data la diversità dei due illeciti, anche in tema di prescrizione, non si riscontra alcuna violazione dei principi espressi dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Sentenza disponibile al link: https://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20230614/snpen@s60@a2023@n25764@tS.clean.pdf